martedì 3 marzo 2009

Attenti a quei due 

I professionisti dell’ingiustizia
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Massimo Mastrolorenzi, l’orefice romano che nel 2003 uccise due rapinatori nel suo negozio, era stato indagato per omicidio volontario. L’altro giorno si è tolto la vita. Nell’assordante silenzio del media. Questo è solo il tragico epilogo di un calvario giudiziario. Un dramma che ripropone interrogativi inquietanti sullo stato della giustizia nel nostro paese. Soprattutto della piccola, per così dire, giustizia. Sulla quale non sono accesi i riflettori della grande stampa, ghiotta di intercettazioni a corrente e colore politico alternati.
Tocca agli inquirenti stabilire se il gesto estremo dell’uomo sia dipeso dalle sue vicende giudiziarie. Ma una cosa è certa , Massimo Mastrolorenzi è una vittima della giustizia malata. Di una giustizia che si “accende” solo quando si “accendono” le telecamere, per spegnersi subito dopo, appena “cala l’audience” mediatica.
Com’è possibile che in uno Stato di diritto chi cerca di difendersi dall’aggressione violenta di due rapinatori che tentano di portargli via i sacrifici di una vita sia equiparato a un volgare assassino? E magari moralmente massacrato, ancora prima di essere condannato.
La risposta è semplice, lo Stato di diritto non esiste più.
La giustizia non funziona se alcuni magistrati con discrezionalità arrogante concedono gli arresti domiciliari a stupratori e assassini incalliti. È difficile avere fiducia in una magistratura che non tutela le vittime, che rende un inferno la vita delle parti lese, fino al punto da farle precipitare in un pozzo di disperazione.
Questo ennesimo episodio ci provoca un’inquietudine mostruosa.
La giustizia italiana vive drammaticamente la sindrome dell’assurdo kafkiano: usa il bastone con chi si difende, esageratamente buonista con i violenti. Certo, è anche vero che si tenta di mettere il bavaglio ai giudici. Mettendoli al servizio della politica, anzi di una parte politica, secondo le teorie di un ineffabile e stagionato cantante da crociera.
La vera questione è che lo Stato di diritto è stato licenziato in tronco. Ma non possiamo permettere che esso cada nell’oblio, anche perché lo Stato etico, con pesanti venature giustizialiste, è drammaticamente alle porte.
Gli italiani vogliono una giustizia giusta e una magistratura che non sia indulgente con i criminali. E con i politici di ogni colore. Perché qui si gioca la sua indipendenza. E non nei dibattiti ad infinitum, tra dotti professori, sulla separazione dei poteri di Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu.
Non chiediamo troppo, ma pretendiamo che anche la politica faccia il suo e si decida finalmente di occuparsi di una seria riforma della giustizia che tenga conto dei principi fondamentali dello Stato di diritto, quotidianamente vilipeso e tradito dalle decisioni di una magistratura che spesso non riesce a venire a capo delle sue dolorose e preoccupanti contraddizioni. Ma senza strafare, evitando le due derive del politicismo del giustizialismo.
“Dentro un ordinamento simile che addirittura sfiora l’utopia, ci vorrebbe un corpo di magistrati d’eccezionale intelligenza, dottrina e sagacia non solo, ma anche, e soprattutto di eccezionale sensibilità e di netta intemerata coscienza”.
Ecco il punto. Ben colto da Leonardo Sciascia che con queste parole, sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 proponeva di caricare di responsabilità i magistrati senza preventivamente togliere loro l’indipendenza. In questo modo avremo giudici capaci di non andare contro il senso comune della morale. E giustizia sarà sempre fatta. Soprattutto per i piccoli uomini disperati come Massimo Mastrolorenzi. Che hanno chiesto inutilmente giustizia. Fino a morirne.
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Carlo Gambescia 

Nicola Vacca 

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