lunedì 9 marzo 2009

Riflessioni
Forza, violenza e cattivi maestri




Sabato passato, nel corso di un evento pubblico al quale partecipavamo, uno dei relatori ha definito l’uso della violenza in politica come un fatto normalissimo. Aggiungendo imperturbabile che alla “violenza del sistema (nel caso quello capitalistico) non si può non rispondere che con altra violenza”.
Che amarezza, abbiamo subito pensato, gli Anni di Piombo sono passati invano. Come lo stesso Novecento, con la sua dolorosa scia di sangue innocente, versato per puro odio ideologico.
Purtroppo alcuni intellettuali, o presunti tali, non si rendono conto della gravità di certe affermazioni, soprattutto davanti a un pubblico composto di giovani che si affacciano alla vita. Purtroppo i cattivi maestri sono ancora tra noi. E rischiano di fare scuola.
Anche perché - fatto importante - in quella sala che ospitava un centinaio di persone, sulle nostre pronte critiche è subito sceso un silenzio di disapprovazione, interrotto dall’ intervento estemporaneo, a dir poco critico nei nostri riguardi, di uno dei presenti. Tra l'altro non richiamato subito all’ordine - come doveva - dal moderatore. O comunque neppure da una sola delle persone presenti tra il pubblico.

Ovviamente, per il futuro, eviteremo di partecipare ad altre serate del genere.
Perché - sia chiaro - una cosa è rilevare che la violenza fa parte dei rapporti politici (fatto descrittivo), e cercare di ridurne l’uso fisiologicamente, un’altra è teorizzarla bellamente (fatto normativo), addirittura celebrando, in modo patologico, certi gruppi politici che l’hanno praticata su uomini, donne e bambini inermi.
Ma entriamo nel merito “sociologico” della questione. E nel modo più oggettivo possibile.
Una prima distinzione, generica, va fatta tra forza e violenza.
La forza è una forma di violenza legalizzata mentre la violenza è una forma di forza non legalizzata. Ovviamente, nel mondo moderno, la legalità dell’uso della forza, è sancita dalle leggi (il cosiddetto stato di diritto). Va da sé che coloro che non condividono “quelle” leggi (che autorizzano l’uso della forza), parificano “quella” forza alla violenza. Il che significa che ogni distinzione tra forza e violenza è soggettiva ( o comunque ideologica) e riguarda il grado di accettazione individuale delle leggi che ne autorizzano l’uso. Di qui la necessità di parlare concettualmente, soltanto di violenza.
Una seconda distinzione riguarda le finalità della violenza. Per alcuni la violenza è soltanto un mezzo per ottenere altri fini. Si pensi alla violenza rivoluzionaria, per istaurare una nuova società, “un mondo migliore”; oppure alla violenza bellica, quella che si dispiega in guerre che "dovranno mettere fine a tutte le guerre". Per altri, invece, la violenza è sempre fine a se stessa. Quest'ultima, curiosamente, è la posizione di coloro che non accettano o adorano la violenza: di certi pacifisti a senso unico, come dei guerrafondai.
Una terza distinzione concerne la violenza collettiva e individuale. Di regola la violenza individuale viene punita dai codici mentre quella collettiva resta più difficile da individuare e punire. Perché? La violenza del singolo è sempre più individuabile e gestibile fisicamente, mentre quella collettiva no ( si pensi al concetto, assai vago, di “violenza delle istituzioni”, di regola usato "per avere le mani libere" da coloro che si oppongono a un certo ordine istituzionale …).
Il fatto è che l'uomo tende ad attribuire ai fenomeni collettivi cause collettive, spesso astratte, e per fini propri, come abbiamo già accennato. Di qui però la conseguente difficoltà di mettersi d’accordo sulle cause concrete di certi eventi (da una sommossa a una rivoluzione) e sulla legislazione penale o repressiva correlata... Il che tuttavia non significa che non esistano situazioni sociali (collettive) di sofferenza. Come pure, non vuol dire che non sussistano cause sociali (collettive), alla base di singoli atti di violenza.
Insomma, la violenza (anche sotto forma di forza legalizzata), piaccia o meno, è una componente dei rapporti sociali. Non vogliamo qui entrare nel merito della questione se l’aggressività nell'uomo sia eliminabile o meno. Anche perché, di fatto, le società, da sempre, limitano la violenza (illegale) ricorrendo ad altra violenza (legale), fondandola sui valori più differenti (religiosi, morali, giuridici). Certo, l’educazione, soprattutto nelle società moderne, può condizionare, culturalmente, il ricorso individuale e sociale alla violenza… Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
In primo luogo, spesso l’educazione implica l’introiezione nel singolo, del concetto sociale della violenza (legale) come deterrente della violenza (illegale). Quindi l’educazione finisce per basarsi sulla “minaccia” di altra violenza. Su questo concetto torneremo più avanti.
In secondo luogo, le società moderne, pur respingendo pubblicamente la violenza ne sono in realtà intrise: o la propongono direttamente elevandola a valore (si pensi al concetto di guerre giuste, esplicitato a suon di bombe, oppure al cattivo maestro, di cui sopra, che la celebra), o indirettamente attraverso la produzione, rappresentazione e sublimazione mediatica.
Di qui, quella schizofrenia sociale, oggi sotto gli occhi di tutti, che ritroviamo nei comportamenti di soggetti, anche collettivi, che per un verso predicano la pace e per l’altro praticano, o vorrebbero praticarla, la violenza. Rimanendo imperturbabili: da Bush al cattivo maestro di sabato scorso.
In questo contesto di “sovraesposizione” alla violenza, tentare di contenerla non può essere facile. Anche perché il vero punto della questione è il concetto di minaccia: "promettere" all’altro qualcosa che susciti in lui preoccupazione, timore, paura… Un atto, che pur non essendo in se stesso “violento”, si appella all' uso possibile della violenza. E che - attenzione - si tratta di una pratica che caratterizza le più diverse forme di relazione sociale, sia individuali, sia di gruppo: da quelle contrattuali ( se non pagherai, eccetera) a quelle educative (se non farai il buono, eccetera) a quelle politiche ( se non pagherai le tasse; se invaderai, la mia patria, eccetera).
Per farla breve: la violenza rinvia alla minaccia, la minaccia alla paura. Ma - di sicuro - invocando altra violenza, magari diretta, contro un nebuloso "sistema", non si esce dal circolo vizioso violenza-minaccia-violenza. Anzi lo si rende più crudele. E, in prima battuta, si accresce la confusione nelle menti e nei cuori degli uomini. Insomma - sarà pure normativo dirlo - ma in questo modo non si vuole bene a propri simili. Li si illude e basta.
Qui bisogna scegliere - in termini normativi - il male minore (la democrazia attuale, pur con le sue imperfezioni) In che modo? Evitando di rafforzare quella spirale dell’odio – e dunque di celebrare la violenza - che di regola conduce, attraverso situazioni di estremo disordine di cui si nutrono proprio le istituzioni totalizzanti, a un male futuro maggiore ( la dittatura, prima costituente e poi costituita...). Certo per scegliere questa strada si deve essere sinceramente democratici. E credere nella democrazia, nelle sue varie forme, come strumento capace di contenere, attraverso il confronto ragionato e maggioritario, la violenza delle cose e degli uomini.
Violenza che se condivisa sul piano normativo (non descrittivo) può condurre alla tirannia (non predominio) del Politico. Dove l’indicazione del nemico (in genere il “sistema cattivo") viene utilizzata soltanto per imporre l’ordine interno assoluto e spietato. Ovvero di creare una società della sorveglianza, ancora più estesa e poliziesca, di quella attuale. Sotto questo aspetto, come mostra il Novecento, tutti quei “nuovi” e disastrosi “ordini” in nome della nazione, della razza e dello classe, hanno prodotto solo macerie. Certo, lasciando campo libero al nuovo ordine capitalista - criticabile quanto si vuole, siamo d’accordo - ma in cui esistono spazi democratici, sconosciuti ai regimi totalitari. E che vanno difesi e allargati. E non distrutti, magari promettendo, "dopo", la costruzione del Paradiso in Terra.
Perciò se si vuole fare politica, e seriamente, si evita il linguaggio pseudo-rivoluzionario, ci si conta, si fonda un partito, eventualmente ci si coalizza, e si va alle elezioni. Perché questa è la democrazia. Scorciatoie non esistono.
Imbottire la testa dei giovani di idee pseudo-rivoluzionarie è il più grosso errore che si possa fare in politica. E’ una cosa così difficile da capire? Pare proprio di sì.
Ma attenzione, guai a scherzare con il fuoco, perché la bestia del totalitarismo, di qualsiasi colore, che è in fondo alla strada di chiunque scelga la violenza per la violenza all'insegna del tanto peggio tanto meglio, sta rialzando la testa. 

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento