mercoledì 30 aprile 2008

La crisi della sinistra

Un Bignami




Un tema così ampio non può essere affrontato in un post. Perciò ci accontenteremo di indicare alcune linee generali della questione. Offriremo al lettore una sorta di Bignami.
Da un punto di vista politologico il concetto di crisi indica l’incapacità di una forza politica, di regola un partito, di coordinarsi per conquistare il potere. Naturalmente la coordinazione concerne sia l’elasticità della struttura organizzativa (interna), sia la capacità (esterna) di intercettare il voto degli elettori. In Italia sulla sinistra ha inciso per anni il peso di una tradizione socialista e comunista: il che ha implicato, al suo interno, la necessità di coordinare dal punto di vista ideologico, programmatico ed elettorale, i principi, spesso rigidi, di una ideologia extra-sistemica con le regole della partecipazione sistemica e dunque democratica.
Tutte le principali tensioni interne alla sinistra (nelle diverse sfumature), sono perciò dipese, almeno fino al 1989, dalla necessità di coordinare ideologia e politica democratica. O se si vuole le rose con il pane. Non staremo qui a ripercorrere la storia delle scissioni e delle lotte interne, fondate sui diversi modi di intendere questa difficile relazione.
Con la caduta del Muro è venuta meno la componente ideologica, anche in quelle stesse frazioni ancora apparentemente legate alla tradizione socialista-comunista (si pensi alla scelta pacifista, molto borghese-illuminato, di Bertinotti). Di conseguenza la politica della sinistra, un volta gettatasi dietro le spalle l’ideologia, si è trasformata in puro e semplice pragmatismo. Una scelta che ha implicato sotto il profilo del reclutamento politico, l’apertura a singoli e gruppi appartenenti ad altre tradizioni (si pensi a cattolici e verdi). Il che ha provocato l' ulteriore annacquamento di programmi politici già non particolarmente "pesanti" sotto l'aspetto sociale.
Di qui la veloce accettazione del neoliberismo (nella componente riformista) e di un blando welfarismo (nella componente “rifondazionista”). Ma soprattutto il preventivo rifiuto di affrontare una questione fondamentale come quella della crescente precarizzazione del lavoro
Per quale ragione? Perché il solo parlare di un problema del genere impone la riapertura di una questione sistemica, e dunque ideologica, ormai considerata definitivamente chiusa dalla sinistra: quella della mercificazione. Una questione, e concludiamo, che può essere condensata in una sola domanda: può il capitalismo, in quanto tale, considerare il lavoratore qualcosa di completamente diverso da una pura e semplice merce?
Carlo Gambescia 

martedì 29 aprile 2008

Comunali Roma

La vittoria di Alemanno



Non volevamo commentare la vittoria di Alemanno. Ma è bastata un’occhiata ai giornali per cambiare idea. La grande stampa organica al centrosinistra, per non parlare di quella di sinistra, è già partita all’attacco definendo la vittoria del genero di Pino Rauti, come una specie di seconda “Marcia su Roma”.
Ora, noi non neghiamo, che vi siano sottopelle e spesso pure in superficie, in certi esponenti minoritari della destra post-missina nostalgie neo-fasciste, più ispirate però al fascismo-regime (ordine, sicurezza, eccetera), che al fascismo-movimento (socializzazione, eccetera). Ma crediamo che quel blocco di potere favorevole a Rutelli, si riposizionerà subito, passando a destra. E di conseguenza, i giornali di centrosinistra, a meno che Alemanno non commetta qualche errore spettacolare (ma a nostro avviso nulla cambierà, a parte qualche vigile in più in strada, qualche piccola concessione ai tassisti, e la solita manfrina sui fondi destinati al sociale ), assumeranno un atteggiamento più neutrale. Il potere è un collante fortissimo. E Alemanno ha sempre mostrato di capirlo: in cinque anni come ministro è riuscito a non farsi alcun vero nemico a sinistra (a cominciare da Pecorario Scanio...). Un fatto che spiega anche questa vittoria romana.
Poi c’è un altro problema che impedirà svolte “decisive”, anche sul piano dei grandi lavori pubblici promessi da Alemanno. La macchina comunale è completamente nelle mani di una dirigenza di centrosinistra che farà “melina”. E con la quale Alemanno, abile com’è, patteggerà. Nessuno, insomma, si farà male. Infine il blocco di potere romano, rappresentato, soprattutto dai costruttori, vuole soprattutto investire nell'edilizia privata e di lusso... Comunque staremo a vedere.
Pertanto non crediamo in alcuna “marea nera”. Al massimo Roma, sprofonderà nel grigiore post-democristiano …
I saluti romani, a parte il valore che continuano possedere all'interno di alcune lunatic fringes (minoranze che politicamente non contano nulla), sono ormai puro folclore, di cui i dirigenti post-missini ridono, trattando questi militanti come buffi bimbetti che giochino a imitare, con in testa un enorme cappello piumato, i nonni bersaglieri, morti e stramorti...
Piuttosto tutta la sinistra, invece di gridare al lupo fascista, incominci a riflettere sulle cause della sconfitta. I “padroni” di oggi come i “padroni” di ieri, troveranno un accordo anche con Alemanno, come con chi verrà dopo di lui.

Questo è il vero problema.

Carlo Gambescia 

lunedì 28 aprile 2008

Europa e Stati Uniti

Alle origini delle differenze





Qual è il fattore di fondo che ha differenziato lo sviluppo storico e politico americano da quello europeo? In molti si sono interrogati da Tocqueville a Marx, da Maritain a Molnar. E tutti, pur partendo da posizioni diverse, hanno ricondotto la diversità americana a un preciso fattore storico: l’assenza di feudalesimo, dello stato assoluto e delle altre istituzioni di ancien régime.
E qui vale la pena di ricordare un libro dello storico Louis Hartz, scritto negli anni Cinquanta del Novecento, proprio per documentare e comprovare questa tesi. Il succo di The Liberal Tradition in America (testo tradotto da Feltrinelli nel 1960, e mai più ristampato) è questo: il feudalesimo e lo stato assoluto hanno prodotto e difeso in Europa ingiusti privilegi, che a loro volta, hanno provocato rivoluzioni, giacobinismo, socialismo, e poi un bieco conservatorismo che non ha assolutamente giovato all’ordine sociale, perché è sfociato per reazione nel fascismo, nel comunismo e in due guerre mondiali. Per contro il “non feudalesimo” avrebbe prodotto in America una società di individui eguali e un liberalismo naturale, spontaneo, frutto di buon senso, che ha garantito libertà, progresso, crescita economica e ordine sociale.
Hartz, era un grande semplificatore (alcuni critici, ancora oggi, lo ritengono addirittura un fantasioso ideologo mancato: una specie di Oriani americano…) . Ma la tesi del “non feudalesimo” americano, che ha una sua consistenza almeno “cronologica” e un esercito di influenti sostenitori, non va sottovalutata, soprattutto sotto l’aspetto ideologico e storico. Vediamo perché.
In primo luogo, la consapevolezza ideologica di avere creato una società di individui eguali (esistente o meno, qui non importa), ha spinto l’America a considerare come arretrate e ingiuste tutte le società non ritenute all’altezza dei suoi standard culturali, tutti basati su valori individualistici ed egualitari. Di qui però è scaturita l’incomprensione statunitense di eventi piuttosto complessi : il ruolo giocato dalla Chiesa Cattolica nel medioevo; la funzione storica delle aristocrazie europee; e da ultimo, l’influenza esercitata dalla religione islamica nel mondo arabo come elemento identitario, e non come fattore puramente folcloristico o terroristico.
In secondo luogo, questa consapevolezza ha prodotto sul piano storico, la volontà di “esportare”, o meglio di imporre a tutto il mondo il modello Usa di vita sociale. “Siamo i migliori, perché non dovremmo farlo?”: ecco l‘espressione preferita dai politici americani, quando si rivolgono ai propri elettori per giustificare la politica estera bellicista. Alcuni analisti hanno scorto in ciò addirittura un sostrato religioso dai forti accenti messianici: il popolo americano come il nuovo popolo, di individui eguali, eletto da Dio. Comunque sia, il calore (e a volte anche lo stupefacente candore) con cui presidenti di orientamento diverso come Clinton o Bush difendono i valori americani, è sicuramente di origine religiosa, o per dirla con Costanzo Preve, di natura “ideocratica”: termine che indica una specie di religione secolarizzata, con una sola idea-guida, America First.
Dovrebbe perciò ora essere chiaro, su quale potente idea-forza sia stato costruito il “secolo americano” (tutto il Novecento ed oltre…). Messo così, il rapporto tra Europa e Stati Uniti , ricorda, soprattutto sul piano culturale e ideologico, quello hegeliano tra servo e signore. Infatti se si accetta la visione americana del “popolo eletto“, e molti in Europa hanno da tempo sposato supinamente tale tesi, ci si pone subito in una posizione di inferiorità. E lo si scopre appena si prova a contestare qualsiasi scelta politica o economica Usa: subito scatta l’accusa (spesso primo gradino di una pericolosa escalation) di non capire il senso degli eventi, di essere nemici del progresso storico, ovviamente incarnato dai valori americani, e soprattutto (ecco che il cerchio si chiude) di essere difensori di un aristocratico “tribalismo premoderno“: in una parola feudale.
Per contro, più si indica nella società americana e nelle sue articolazioni sociali (che poi egualitarie non sono, ma questa è un’altra storia…) il mondo del futuro, tutto latte e miele, più lo squilibrio culturale e persuasivo cresce. Perché non è facile convincere la gente del contrario. Il secolo è americano, soprattutto perché gli Stati Uniti, e in particolare la sua industria dell’intrattenimento ( cinema, editoria, musica, televisione) hanno conquistato l’immaginario collettivo. E non è semplice persuadere milioni di spettatori che dietro le star del rock e di Hollywood c’è una società che crede solo nel dio dollaro, e poco tenera verso deboli e poveri.
Perciò una buona battaglia, anche se apparentemente di minor rilievo, può essere quella di limitare o sostituire ai “prodotti culturali” made in Usa (film, serial, programmi musicali, libri, ecc.), opere di autori e registi europei, come ad esempio si tenta di fare in Francia. E qui purtroppo sorge un problema di tipo politico: le classi dirigenti europee e americane hanno formazione e frequentazioni simili . Molti economisti, funzionari di livello, operatori economici, e spesso anche uomini politici si sono formati nelle università americane: conoscono e frequentano gli stessi ambienti dei “colleghi” americani. E praticamente parlano la stessa lingua del ”popolo eletto”, perfino all’interno di quella che una volta si chiamava la stanza dei bottoni.
Certo, non va sottovalutato il ruolo di una possibile e auspicabile “controideologia”. Ovviamente, non basata sulla rivalutazione acritica del medioevo europeo e sul confronto inventato tra un “vecchio” popolo eletto (quello europeo), e un “nuovo” popolo eletto (quello americano): sarebbe ridicolo. Anche perché l’Europa ha comunque altre magnifiche e “moderne” carte da giocare: si pensi ai valori della socialità racchiusi nell’idea europea di diritti sociali, oppure al principio di sussidiarietà, difeso non solo dalla Chiesa, ma anche da pensatori, mai stati in sintonia col cattolicesimo, come Proudhon. Ma il punto purtroppo è un altro, e non è materia di articoli, ma di vita: ci sono ancora uomini (politici e non) disposti ad ascoltare, capire e agire?

Carlo Gambescia 

sabato 26 aprile 2008

Il sabato del villaggio (14)


Politici


Grillo è quella cosa
che insulta a piacer.
E tutti ridono perché dice il ver,
ma dopo votano Berlusché...

Fini è quella cosa
che si presenta perbenino,
e dunque votato dal cittadino
che poi mette in “braghe di tel”...

Veltroni è quella cosa
che piace a vecchi e bambini
e persino ai cretini,
che corre corre, per rimanere all’impie'...
    
                                       Carlo Gambescia


Riceviamo dall'amico Antonio Saccoccio, e pubblichiamo volentieri, un'altra simpatica "incarrighiana" dedicata a Beppe Grillo:

Beppe Grillo è quella cosa
che ti scuote nervi e mente.
Ha un buon sito certamente
ma di certo non è un blog...
Antonio Saccoccio
***


Riceviamo dal bravissimo Teofilatto , e pubblichiamo con piacere, questa brillante "raffica"...
Bertinotti è quella cosa
che piaceva tanto a destra.
Ora che sta alla finestra,
guarda invan l'arcobalen...

Giulianone è quella cosa
che ti grida: "Vita, t'amo!”.
Ma se sei a Guantanàmo,
puoi morire come un can...

Odifreddi è quella cosa
che ti venera la scienza.
“Fedi? Tutte una scemenza!”,
con fervor da taleban...

Giorgio Dàbliu è quella cosa
che gli han fatto un attentato.
La lezion non ha imparato,
e continua a guerreggiar...

Galimberti è quella cosa
venerata pei suoi tomi.
Non controlla sempre i nomi,
sembra quasi un "copia-e-incol"...

Teofilatto è quella cosa
che non ama far di prescia,
ma se legge il buon Gambescia,
va senz'altro a digitar...

                            Teofilatto

  

venerdì 25 aprile 2008


Ora,  sono bulli vostri...


La nostra è una società strana. Se si viene rapinati il primo consiglio che si riceve, dagli stessi poliziotti, è quello di recarsi dallo psicologo per superare meglio lo shock… Due pillole, una decina di sedute, e di nuovo in pista fino alla prossima rapina.
Per metterla sul semicolto, oggi si tende, a “terapizzare” tutti. A questo proposito, ora ne hanno inventata un’altra, quella del bullismo psicologico: dice che a scuola gli studenti più forti se la prendono coi più deboli, li picchiano, li fotografano col telefonino mentre sono in lacrime, e mandano le immagini su internet, per la gioia di altri deficienti e teppisti...
Ecco la parola giusta sarebbe “teppista”. Ma è politicamente scorretta: puzza di riformatorio, e soprattutto inchioda il reo alle sue responsabilità. Mentre il “bullo” è altra cosa. Fa pensare al Tony Manero della “Febbre del Sabato Sera”: il prototipo del bambolotto molleggiato e brillantinato, senza ideali se non quello di divertirsi, sballandosi in pista. Un “bullo” che, ovviamente, può essere sempre recuperato.
Comunque sia, il fenomeno è di gran moda. Purtroppo. E certa psico-pedagogia da quattro soldi ha trasformato la lotta al bullismo in cavallo di battaglia. Sui giornali si dedicano ai giovani bulli paginoni dai toni schifati. E magari li si vuole curare a suon di musica: Tony Manero ringrazia. E soprattutto si pretende di insegnare a genitori alle prese col problema della sopravvivenza economica, come comportarsi.
Roba da Manuale di Nonna Papera ad uso di genitori politicamente corretti: se vostro figlio ha un calo di rendimento scolastico e riceve telefonate che lo rendono nervoso è sicuramente vittima del bullismo… E se invece avesse solo litigato con la fidanzatina? Mah… Se il bullo è vostro figlio fategli scrivere una lettera di scuse, pontificano gli psicologi di cui sopra. E poi se non ci si può fidare di come si comporta fuori casa, bisognerà esercitare un controllo maggiore: bella scoperta… Spesso si legge pure che il "giovane" deve accettare l’idea che gli altri possano comportarsi in modo ingiusto e che bisogna prenderne atto. Insomma, la società fa schifo, e voi zitti e mosca… Come dire: non trasformatevi in giustizieri della notte. Non sia mai…
Si dirà, ecco la solita melassa buonista. Tuttavia, spesso si legge che i bulli sono ragazzi come gli altri e che alla base dei loro comportamenti c’è rabbia, mancanza di punti di riferimento autorevoli. Sacrosanto. Ma chi ha demolito negli ultimi quarant’anni ogni principio di autorità? Gli stessi che oggi pretendono di curare il bulletto con pasticchette e buoni consigli (si fa per dire) ai genitori. E magari tanta musica.
Troppo comodo.  Ora,  sono bulli vostri…. E purtroppo, pure, nostri.

Carlo Gambescia 

giovedì 24 aprile 2008

Il libro della settimana: Piero Ignazi, Partiti politici in Italia, il Mulino, Bologna 2008, pp. 148, euro 8,80.
  

https://www.mulino.it/isbn/9788815125309


Piero Ignazi è professore di Politica comparata e Sistema politico dell’Unione europea nell’Università di Bologna. Di lui ricordiamo, tra le numerose pubblicazioni sui partiti italiani, Il Polo escluso (il Mulino 1998, 2° edizione rivista e aumentata, 1° edizione 1989): il primo studio politologico di alto profilo scientifico sul Movimento Sociale Italiano. Una ricerca che ancora oggi fa testo.
Pertanto Ignazi era ed è lo studioso più indicato per tracciare un efficace ritratto delle principali forze politiche sorte e sviluppatesi negli anni Novanta. Scopo al quale ha dedicato, appunto, quest’ultima sua fatica (Partiti politici in Italia, il Mulino, Bologna 2008, pp. 148, euro 8,80). Che esce in “Farsi un’idea”, un' eccellente collana di sintesi sui più diversi temi nell'ambito delle scienze sociali e umane.
Come già accennato i partiti presi in considerazione sono in larga parte quelli del dopo Tangentopoli: Alleanza Nazionale, i cosiddetti post-democristiani nelle varie sfumature e correnti, Forza Italia, Lega Nord, Pds-Ds-Pd, Rifondazione Comunista. E ne sono studiati i riferimenti culturali, la classe dirigente, la forma organizzativa e l’elettorato di riferimento.
L’analisi di Ignazi si ferma, grosso modo, alla fine del 2007, preannunziando, seppure fra le righe, la crescita di Forza Italia e Lega. Poi confermato dalle elezioni di questa primavera. Per certi aspetti - lo "scienziato" Ignazi non ce ne voglia - si tratta di un volume “quasi” profetico. Dal quale, ne siamo sicuri, hanno largamente attinto i commentatori, soprattutto giornalistici, prima, durante e dopo le elezioni 2008.
Forza Italia è definito un “partito patrimonial-leninista via etere”, ma ormai ben strutturatosi nel territorio e in grado di parlare a tutti i ceti sociali. Come viene evidenziata anche la grande capacità di radicamento della Lega, nonché la notevole abilità politica di Bossi.
Quanto alla sinistra, Ignazi ne spiega le contraddizioni legate a certo elitismo di fondo, e alla conseguente incapacità del Partito Democratico e di Rifondazione di aggregare elettoralmente i più diversi ceti sociali, formulando praticabili proposte politiche di governo. Infine impietosi, ma politologicamente giustificati, i ritratti di An e post-democristiani. Visti, sostanzialmente, come partiti a rimorchio di Forza Italia e del Partito Democratico.
Ovviamente il lettore non si aspetti voli pindarici. Ignazi si muove ideologicamente nell’alveo di una logica sistemica. E pertanto i partiti sono collocati e giudicati lungo l' asse conservazione-progresso, o per metterla in termini giornalistici: riforme/non riforme. Tuttavia si tratta di un testo rigoroso, ottimo per una prima documentazione, nonché chiarissimo. Ignazi, a differenza di altri politologi, scrive molto bene. Il che, con questi chiari di luna, non è poco.

Carlo Gambescia 

mercoledì 23 aprile 2008

Umberto Galimberti accusato di plagio




A molti lettori forse sarà sfuggita l’accusa di plagio che ha colpito in questi giorni Umberto Galimberti, notissimo filosofo e psicoanalista. Prima perciò i fatti.
Una studiosa italiana Giulia Sissa, professoressa di "Greek Literature and Religion, Ancient Political Theory, Gender Studies", presso l’Ucla di Los Angeles, scopre e pubblicizza il fatto che alcuni brani di un suo libro, note incluse, tradotto in Italia da Feltrinelli (Il piacere e il male. Sesso, droga e filosofia, 1999), sono contenuti, tali e quali, nell'ultima fatica di Umberto Galimberti: L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, pubblicato nel 2007, sempre da Feltrinelli.
A sua volta Galimberti replica che si tratta di “rielaborazioni” e “riassunti”, usati per la recensione del libro della Sissa, uscita su Repubblica nel 1999, dove ne riassumeva le tesi, poi confluita in questo suo nuovo volume. Tuttavia, la “riproduzione” di alcune note riprese, sempre dal libro della studiosa italiana, deporrebbe a sfavore di Galimberti.
Non desideriamo però entrare nel merito della questione. Lasciamo che siano eventualmente avvocati e giudici a dire l’ultima parola su una vicenda spinosa. Quel che invece ci interessa maggiormente è il perché del plagio accademico. Perché si copia da un altro studioso?
Le ragioni vanno rinvenute, soprattutto ai livelli universitari più elevati, nell’eccessivo carico di lavoro individuale: libri, saggi, collaborazioni giornalistiche, insegnamento, convegni, progetti di ricerca, eccetera. Un carico che spesso si coniuga, soprattutto se non si è più giovani, con una certa stasi creativa E non tutti sono in grado di sopportare il peso del possibile declino intellettuale. Di qui, per alcuni, la “necessità” di copiare, pur di "restare in pista".
Alcuni copiano se stessi, nel senso che si ripetono, riprendendo parti di libri già pubblicati, o puntando su raccolte di articoli e saggi. Altri invece copiano da “altri”, contando sul fatto che il pubblico dei veri lettori (quelli di professione), autori compresi, spesso per stanchezza non si rilegge, e dunque dimentica. Ma anche sul fatto che a causa di una eccessiva produzione editoriale, lo “studioso medio”, di regola, non riesce a leggere tutto quel che esce, soprattutto se non riguarda strettamente il suo campo di studio. Altri ancora, copiano da libri stranieri, puntando sulla ridotta conoscenza di alcune lingue da parte dei colleghi (ad esempio il tedesco, idioma riservato a pochi eletti, soprattutto nelle scienze sociali). Sono agli atti casi di studiosi, anche affermati, che hanno copiato di sana pianta libri pubblicati in altre lingue.
Insomma, il plagio accademico discende da un mix di stasi creativa e umana furbizia. Ma anche dalla prorompente vanità di chi non vuole soccombere alle leggi della biologia umana.
Di solito, quando si tratta di una figura importante, la comunità scientifica si chiude a riccio. E difficilmente queste storie arrivano sui giornali. Come ogni comunità chiusa, anche quella accademica cerca di evitare qualsiasi intrusione mediatica nelle proprie vicende interne. In genere il colpevole "patteggia", sotto le ali protettive della comunità di appartenenza.
Ora, per concludere, nel caso Galimberti-Sissa abbiamo due membri di comunità accademiche diverse e indipendenti, italiana e statunitense. Per giunta Giulia Sissa è il classico e brillante cervello "fuggito dall’Italia", che ha trovato giusto riconoscimento all’estero. Di qui, crediamo, un rapporto di amore-odio (ma forse più odio che amore), con la comunità accademica di origine. Perciò potremmo vederne delle belle.

Carlo Gambescia 

lunedì 21 aprile 2008

Interpretazione di Tremonti



Non è nostra intenzione scrivere un saggio su Tremonti. Anche se il “personaggio”, soprattutto lo studioso, meriterebbe un approfondimento. Principalmente alla luce del suo ultimo e molto discusso libro, La paura e la speranza, ma di cui qui non parleremo, dando per scontato che i lettori ne conoscano le tesi anti-mercatiste.
Ma veniamo all’argomento del post. A prima vista resta piuttosto difficile capire dove Tremonti vada a parare. Laureato in giurisprudenza, professore di diritto tributario, ha ricevuto una formazione italiana: non è passato per il Mit, come altri economisti organici ( o quasi) alla sinistra post-comunista. Politicamente è stato prima vicino a De Michelis (socialista), poi a “Mariotto” Segni (ex democristiano), infine ministro dell’economia nel Secondo Governo Berlusconi. E sicuramente lo sarà anche nel Terzo.
Nonostante i trascorsi socialisti e post-democristiani Tremonti si è sempre autodefinito, probabilmente anche per civetteria, un liberale con una spiccata propensione verso il federalismo (fiscale). E sulla base di questa ultima opzione ha giustificato le sue simpatie per Bossi, fino a diventare il punto di raccordo politico tra la Lega e Forza Italia. Infine, Tremonti è presidente dell’Aspen Institute Italia.
Ora, il futuro Ministro dell'Economia polemizzando con Mario Draghi (un tecnocrate passato per il Mit), è tornato a parlare un linguaggio demichelisiano, primi anni Ottanta: di sostegno non al mercato, in termini della solita retorica sulla trasparenza, ma alle imprese e in chiave - ecco i termini desueti - di “aiuti diretti” e addirittura di “nazionalizzazioni”.
Per quale ragione rispolveriamo De Michelis? Perché come Ministro delle Partecipazioni Statali, tra il 1980 e il 1983 (anni crisi anche quelli), tentò di rilanciare l’economia mista italiana, modernizzandola, ma rivendicando il ruolo direttivo dello stato rispetto alla grande impresa privata. Crediamo, perciò, che per capire certe propensioni anti-mercatiste di Tremonti, che tra l’altro in quegli anni, collaborò con Reviglio e Formica, non sia necessario rispolverare Colbert, ma riandare al socialismo pragmatico di Gianni De Michelis. Ma anche rileggersi alcune pagine di Francesco Forte (altro liberalsocialista). Nonché di seguire, con attenzione, il gioco di sponda (liberismo buono, liberismo cattivo, eccetera) fra Tremonti e uno dei più importanti editorialisti economici italiani, passato da circa un anno dal Corriere della Sera al Giornale di Paolo Berlusconi.
Riteniamo, forse maliziosamente, che l’interventismo di Tremonti sia del tutto "congiunturale". Che, insomma, egli punti a normalizzare i rapporti fra il Terzo Governo Berlusconi e i poteri forti dell’economia italiana, ricorrendo a quella politica del bastone e della carota, usata dal partito socialista negli anni Ottanta.
Un pragmatismo, di stampo demichelisiano, o craxiano, votato a ricomporre, alla luce della crisi internazionale in atto, l’ordito dei rapporti tra politica ed economia, bypassando, la mediazione di tecnocrati come Mario Draghi. Mettendo così in imbarazzo, e per la seconda volta, una sinistra riformista, che continua a mostrarsi, anche dopo la sconfitta elettorale, neoliberista ad oltranza.

Carlo Gambescia

sabato 19 aprile 2008

Il sabato del villaggio (13)



Politica e letteratura
Gianfranco Fini: Triste, solitario y final.
Bertinotti : La fine di una cosa.

Spengleriana 1
Walter Veltroni: il declino del suadente.

Spengleriana 2
Giorgio Bocca: il declino dello schiumante.

Biografica
Pochi nemici ma buoni.

Declini
Langer, Ripa di Meana, Manconi, Francescato, Pecoraro Scanio.

Evoluzione della specie
Andreotti, Prodi, Berlusconi.


                                                                 Carlo Gambescia

venerdì 18 aprile 2008

Elezioni comunali 
Perché l'amministratore di questo blog, probabilmente, voterà Alemanno (*)



Come i lettori già sanno alle politiche non abbiamo votato. Ma probabilmente chi scrive, dal momento che vive a Roma, andrà a votare in occasione del prossimo ballottaggio tra Alemanno e Rutelli, scegliendo il candidato del centrodestra. Per quale motivo? Presto detto. Per un principio di laicità della politica e della democrazia. E non a causa di simpatie programmatiche e ideologiche per la destra. Altrimenti avremmo votato questo schieramento anche alle politiche.
La nostra decisione di votare è giunta ieri, all’improvviso. Appena appreso, come ha titolato Repubblica, “lo stop” di Riccardo Pacifici, neo presidente della comunità ebraica romana, a un’ “alleanza” tra Alemanno e Storace, data pressoché scontata, in vista del difficile ballottaggio, da quasi tutti gli osservatori.
Ora noi non mettiamo in discussione i contenuti delle critiche di Pacifici alla destra di Storace. Qualche sospetto lo nutriamo anche noi. Ma, nell’incertezza, invochiamo un principio di laicità e libertà cognitiva, nel senso più ampio possibile: da ogni considerazione ideologica.
Ci spieghiamo meglio: se “La Destra” fosse un partito nazi-fascista dovrebbe essere immediatamente sciolto e i suoi membri perseguiti. Se fosse…. Perché parliamo di violazioni che devono essere prima accertate, e poi eventualmente perseguite, in base alle leggi vigenti, dall' autorità giudiziaria. Il che ancora non è avvenuto. Dal momento che la partecipazione della Destra alle elezioni politiche e amministrative, indica che questo partito può essere liberamente votato da tutti i cittadini. E soprattutto che non gli può essere negato o limitato il diritto all’apparentamento con altre forze politiche.
Comprendiamo bene, come qualsiasi richiamo al nazi-fascismo, per le terribili ragioni storiche che tutti noi condividiamo, possa turbare, e giustamente, la comunità ebraica romana. Ma certe accuse vanno rappresentate in un’aula giudiziaria. E non "ideologicamente" sulle pagine di Repubblica e di altri giornali. Soprattutto perché ogni appello pubblico a principi extragiuridici, e dunque "ideologici" benché nobili come in questo caso, rischia di non essere compreso dalla stragrande maggioranza dei cittadini romani, se non addirittura maliziosamente interpretato, visto che giunge ad appena dieci giorni dal ballottaggio. Ma rischia anche - ecco il punto che più ci interessa - di influire sul libero esercizio del voto, che è uno dei valori fondamentali di ogni autentica democrazia laica.
Per queste ragioni di principio, domenica 27 aprile, andremo alle urne per votare Gianni Alemanno. Sempre che nel frattempo, anche il candidato del centrodestra, dimostrando noncuranza verso la democrazia, non decida di adeguarsi “allo stop” di Pacifici. In tal caso rimarremmo a casa. E ciò spiega quel “probabilmente” da noi usato nel titolo del post.

Carlo Gambescia 

(*) Sabato 19 aprile. Aggiornamento del post.

L'amministratore del blog prende atto dell'allineamento di Alemanno e, conseguentemente, il 27 aprile non si recherà a votare. (C.G.) 

giovedì 17 aprile 2008

Il libro della settimana: Mario Bozzi Sentieri, Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994, Nuove Idee, Roma 2007, pp. 258, euro 16,00.

http://www.hoepli.it/libro/dal-neofascismo-alla-nuova-destra/9788875572228.html


A Mario Bozzi Sentieri, brillante scrittore e giornalista, dobbiamo essere grati. Questa ultima sua fatica (Dal neofascismo alla nuova destra. Le riviste 1944-1994, Nuove Idee, Roma 2007, pp. 258, euro 16,00, tel. 06/45468600 fax 06/39738771), colma una lacuna storiografica fondamentale, e offre un valido strumento conoscitivo a coloro che eventualmente siano curiosi di scoprire le complesse coordinate culturali di quella destra post-missina, che proprio in questi giorni si appresta a governare, insieme agli alleati, per la terza volta l’Italia.
Il volume, infatti, fornisce una schedatura analitica delle riviste pubblicate all’interno di un mondo culturale, tuttora poco studiato Tuttavia, per non far torto a nessuno, non faremo nomi (tra l’altro, alla fine al libro, c’è un ricco indice delle riviste). Ma praticamente ci sono tutte: da “Manifesto” (1944) e “Meridiano d'Italia" (1946) a “Il Centrodestra (1994). Bozzi Sentieri, nelle vesti di storico, è perfettamente a suo agio. E trascorre da una rivista all’altra con acume critico ed equilibrio, senza annoiare mai.
E così il lettore scoprirà da solo, che su queste riviste, seguendo l’invisibile filo di velluto della cultura, hanno scritto nomi importanti della destra intellettuale missina e post-missina. Inoltre, grazie alle sue capacità di sintesi, l'autore riesce a tratteggiare le linee portanti di un’intera cultura, con le sue luci e ombre. Ma lasciamo la parola a Bozzi Sentieri:

“Nel lungo viaggio dal neofascismo alla nuova destra emergono così diversi filoni culturali spesso in contraddizione tra loro: dal tradizionalismo evoliano a quello cattolico, dal ‘socialismo nazionale’ all’anti-risorgimentalismo, dal radicalismo nazional-rivoluzionario al conservatorismo; dal terzaforzismo europeo al liberal-nazionalismo, dal populismo all’elitismo. Che cosa avevano in comune, riviste, periodici, bollettini espressione di queste diverse anime della Destra? Intanto di non considerare il neofascismo nostalgico come l’orizzonte massimo della propria ragion d’essere, non limitando, nel contempo, all’iniziativa anticomunista il proprio ruolo politico. Gli autori di riferimento e le ‘scuole di pensiero’, che quell’ambiente veniva via via a individuare, invitavano piuttosto a guardare oltre la pur importante opposizione al ‘pericolo marxista', sollecitando una riconsiderazione della crisi ‘moderna’, delle sue radici profonde, del suo possibile superamento” .


In conclusione, un volume ricco, ben scritto, interessante. E soprattutto rivolto ai lettori attenti all'evoluzione delle idee politiche. Inclusi quelli di sinistra, magari desiderosi di capire le matrici culturali della nuova destra post-missina. E, piaccia o meno, dei suoi successi, o quasi…

Carlo Gambescia 

mercoledì 16 aprile 2008

Vittoria di Berlusconi

Nuovi conflitti sociali? 




Probabilmente deluderemo qualche lettore, ma per dirla brutalmente non ci aspettiamo dal governo Berlusconi alcuna rottura thatcheriana, capace di favorire, come alcuni temono o auspicano, il brusco trasferimento della lotta politica dalle aule parlamentari alle “piazze”. E per almeno due ragioni.
In primo luogo, l' imprenditore-Berlusconi resta soprattutto un uomo d'affari. E perciò anche in politica appare naturalmente portato alla mediazione. Eccetto, come accaduto nei precedenti cinque anni di governo, quando sono in gioco i suoi interessi personali: televisioni e inchieste giudiziarie. Tuttavia sono questioni marginali, rispetto ad altre tematiche, suscettibili, almeno in teoria, di innescare conflitti sociali, come ad esempio le normative sulle pensioni, sul lavoro flessibile, sul trattamento dei disoccupati. E qui a riprova della “moderazione” berlusconiana, basti ricordare le ricorrenti critiche dei professori neo-liberisti del Corriere della Sera. Sempre pronti ad accusarlo, fin da quando era a capo del suo secondo governo, di fare "inutili compromessi sindacali". Ultime, in ordine di tempo, le reprimende sull'idea di una cordata nazionale pro-Alitalia e salva-posti di lavoro, avanzata proprio dal Cavaliere.
In secondo luogo, il politico-Berlusconi “vuole durare” a ogni costo perché motivato da grandissima vanità personale (“Passare alla storia”). Ma anche per ragioni prosaiche, come quella di tenere sotto controllo (“politicamente”) i propri lucrosi affari. Di qui la sua probabile accettazione di utili compromessi sociali, appunto per evitare la moltiplicazione dei nemici (regola molto importante in politica). E così durare il più a lungo possibile. Parliamo di una tolleranza, certo “pelosa”, legata alla possibile e temuta recrudescenza della crisi economica mondiale. I cui effetti negativi, qualora non venissero socialmente gestiti, potrebbero mettere in discussione la “durata” e la “credibilità storica” del politico-Berlusconi. E lui ne è perfettamente consapevole. E perciò farà il possibile per rimanere a galla.
In terzo luogo, la Lega e Alleanza Nazionale non sono assolutamente forze neo-liberiste. Inoltre, al di là delle ricorrenti e bellicose dichiarazioni, soprattutto della Lega, hanno entrambe troppo da perdere, in termini di rendite politiche acquisite, da un' improvvisa caduta del governo di centrodestra. Infine, non è neo-liberista neppure Tremonti, che rappresenta, secondo alcuni osservatori, la “mente economica” del centrodestra. Paradossalmente era ed è più neo-liberista Veltroni.
Di conseguenza le eventuali fonti di conflitto, e di riflesso la possibile mobilitazione della piazza - da alcuni temuta, da altri auspicata - restano legate agli alti e bassi delle vicende personali del Cavaliere (televisioni e inchieste giudiziarie). Questioni, che però, a parte alcune eroiche minoranze morali, sembrano fino ad oggi non aver interessato più di tanto la massa moralmente amorfa degli italiani. Tesa, soprattutto, a difendere un tenore di vita, più o meno decente, conseguito "faticosamente" nell'ultimo mezzo secolo, come spesso si sente dire. E questo atteggiamento, per alcuni egoistico, sembra prevalere collettivamente anche a scapito della soluzione di questioni importanti come quella ambientale. Si pensi solo al problema delle discariche: tutti vogliono consumare in misura crescente, disinteressandosi delle attività di eliminazione dei rifiuti, ovviamente fin quando queste operazioni avvengono a distanza dai luoghi in cui si vive... Perciò anche le "battaglie ecologiste", quando entra in scena egoismo sociale, rischiano di perdere senso civico e valore autenticamente mobilitante. E su questi egoismi concorrenti, non solo nell'ambito dell'eliminazione dei rifiuti, la politica nuclearista del Cavaliere potrebbe avere buon gioco, soprattutto se mascherata come scelta sicura ed economica.
Veniamo alla politica estera. Che tuttavia ha cessato da un pezzo (almeno dalla Caduta del Muro) di infiammare (e sul serio) le piazze italiane. Berlusconi, una volta che sarà venuto meno il rapporto personale con l’amico presidente-petroliere Bush, già prossimo alla fine dell'incarico, non scorgendo alcun tornaconto relazionale-personale, si guarderà bene, se non a parole, di continuare a inviare truppe all'estero a sostegno delle guerre Usa, per smorzare possibili focolai di contestazione sociale in Italia.
Permane il problema immigrazione. Sul quale, purtroppo, a parte le solite minoranze illuminate, gli italiani, stando agli umori in circolo, sembrano disposti ad accettare una replica, probabilmente ancora più dura, della Bossi-Fini.
Più controversa, infine, la questione della lotta alla criminalità. Si tratta di una zona grigia, al cui interno, purtroppo, difficilmente potranno verificarsi “sollevazioni degli onesti”, soprattutto nelle zone capillarmente controllate dalle organizzazione mafiose e camorristiche. Perciò, sul piano politico, si continuerà ad andare avanti alla giornata, come con il precedente governo di centrosinistra. Un atteggiamento attendista che risale ai primi governi repubblicani, se non addirittura a quelli post-unitari. Ma questa è un’altra storia…
In conclusione, per un verso scorgiamo un Cavaliere pronto al compromesso su quello che non lo riguarda personalmente, come sua consuetudine, e per l’altro un' Italia, che ha votato a destra come a sinistra, molto preoccupata, se non spaventata del futuro. Che, votando Berlusconi o Veltroni e respingendo le estreme, ha mostrato solo di voler difendere egoisticamente, un tenore di vita, più o meno decente, ritenuto a rischio. E dunque tutt’altro che pronta a scendere in piazza per "fare la rivoluzione"... Un’Italia rinunciataria e disposta ad aggrapparsi a qualsiasi mano tesa, pur di non tornare economicamente indietro.

Anche quella del Cavaliere.

Carlo Gambescia 

martedì 15 aprile 2008


Anticipazioni: la lista dei ministri del Governo Berlusconi



Presidente del Consiglio: Silvio Berlusconi.
Primo Vice Presidente: Silvio Berlusconi
Secondo Vice presidente: Silvio Berlusconi.
Affari Esteri e Difesa: George Bush jr.
Interno: Marcello dell’Utri.
Giustizia: Niccolò Ghedini.
Economia e Finanze: Marina Berlusconi.
Sviluppo Economico: Pier Silvio Berlusconi.
Commercio Internazionale: Paolo Berlusconi.
Università, Ricerca e Pubblica Istruzione: Maurizio Gasparri.
Lavoro e Previdenza Sociale: Bernardo Caprotti.
Solidarietà Sociale: Giancarlo Gentilini.
Politiche Agricole, Alimentari e Forestali: Sergio De Gregorio.
Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare: Salvatore Ligresti.
Infrastrutture: Adriano Galliani.
Trasporti: Loreno Bittarelli.
Salute: Umberto Scapagnini.
Beni e Attività Culturali: Maria De Filippi
Comunicazioni: Emilio Fede
.
Senza Portafoglio:
.
Politiche per la Famiglia: Giuliano Ferrara.
Politiche Giovanili e Attività Sportive: Luciano Moggi.
Affari Regionali: Gianfranco Micciché.
Attuazione del Programma del Governo: Fedele Confalonieri.
Riforme e Innovazioni nella Pubblica Amministrazione: Letizia Moratti.
Diritti e Pari Opportunità: Roberto Calderoli.
Rapporti con il Parlamento e Riforme istituzionali: Umberto Bossi.
Politiche Europee e Rapporti con il Vaticano: Marcello Pera. 

Carlo Gambescia

lunedì 14 aprile 2008

Pippa Bacca 

La piccola martire della cultura del dono



Sappiamo di metterla sul difficile, ma la tragica scomparsa di Giuseppina Pasqualino di Marineo, in arte Pippa Bacca, dovrebbe far riflettere sulla crescente incapacità delle nostre società di apprezzare il valore del dono. Dovrebbe… L’uso del condizionale è frutto della nostra preoccupazione circa le scarse capacità reattive di una società sempre più preoccupata soltanto del proprio benessere materiale.
Ma partiamo dalla reazione mediatica, che di regola riflette e veicola, moltiplicandolo all'infinito, il segnale di un sempre più opprimente cinismo post-moderno di massa.
Una volta scoperta la tragica fine della giovane, i media hanno subito dipinto Pippa come un personaggio in bilico tra arte e provocazione. Tradotto: una giovane donna che voleva farsi solo pubblicità... Altri, più politicamente corretti (si fa per dire), hanno parlato di una vittima della “cultura sessuofobica turca”… Altri ancora, politicizzando i fatti in chiave neocon, hanno scorto nell’omicidio il seme della "violenza fondamentalista"…
Fra la gente comune non è andata meglio. Semplificando al massimo gli umori, ha vinto il "chi te lo ha fatto fare, potevi restare a casa tua”. Esito di un egoismo piccolo-borghese, oggi più invasivo che mai. Soprattutto in un mondo dove nessuno, sistematicamente, concede nulla per nulla. E qui, per contrasto, veniamo all'importanza della cultura del dono come meccanismo di avvio dei processi di integrazione sociale. Ma procediamo per gradi.
Il dono non è soltanto quel regalo infiocchettato che ogni anno ritroviamo sotto l’Albero di Natale, ma è qualcosa che contraddistingue, e in profondità, la vita sociale. Per farla breve: dove c’è il dono c'è fiducia, e dove c'è fiducia c’è società.
E che cos’è la fiducia? E’ un “dono di credibilità” (nel senso che io “sento” che tu manterrai la parola, eccetera, eccetera), che come per “contagio” passa da una persona all’altra, e così via. Innervando e vivificando, per gradi successivi, i diversi cerchi concentrici intorno ai quali ruota la vita sociale: dalla famiglia allo stato, passando per la società civile. Istituzioni sociali che, ovviamente, implicano nella pratica, anche il rispetto, l’accoglimento e la gestione degli interessi individuali e collettivi.
Pertanto il dono della fiducia rende prima possibile la società e dopo la gestione degli interessi. Si tratta purtroppo di una costante sociologica (ma per alcuni anche morale) sempre più trascurata. In favore di una fredda assiomatica degli interessi di matrice utilitarista, sempre più condivisa socialmente: dal politico e dall' economista, dall'educatore e dal giornalista, e poi scendendo giù fino alla gente comune. In pratica si crede che la società sia resa possibile solo dal calcolato interesse dei singoli. Ma ci spieghiamo meglio.
In buona sostanza si sostiene che la fiducia venga sempre dopo e non prima. Nel senso che prima ci si apre all’altro perché soddisfi qualche nostro interesse, dopo di che, una volta constatata questa sua capacità, gli si concede fiducia. Dal momento che - ecco il punto - la credibilità-fiducia non sarebbe un “dono” ma una “merce”. O meglio un “capitale” da accumulare e gestire singolarmente, dimostrando così la propria “utilità-capacità sociale”. Magari facendola ogni volta "tintinnare" davanti agli altri come denaro sonante.
Se nel primo caso il passaggio determinante è dalla fiducia all’interesse, nel secondo è dall’interesse alla fiducia.
Ora, Pippa Bacca si spostava in autostop, giustificando questa sua scelta, come quella di pace per cui viaggiava, “con la fiducia” che nutriva “verso l'uomo [perché] l'uomo, come un piccolo dio premia chi gli dà fiducia”, ( si veda http://www.adnkronos.com/IGN/Cronaca/?id=1.0.2067284398 ). Ponendo così la fiducia prima dell'interesse: il dono prima del calcolo.
Ecco, se ci passa il bisticcio di parole, questa sua fiducia verso la fiducia, come dono di credibilità, capace di circolare gratuitamente nelle arterie del corpo sociale, è forse il lascito più importante di Pippa Bacca. Ma quanti, attualmente, sono in grado di apprezzarlo? Oggi chi dona credibilità e fiducia (ma non solo), credendovi a sua volta, viene giudicato un pazzo o un furbo. Tertium non datur
Ecco il nostro vero dramma sociale. Che va ben oltre, la pur tragica morte di Pippa: una sposa vestita di bianco e sincera messaggera di pace, che ci piace immaginare come la piccola martire di una auspicabile cultura del dono. Dalla cui rinascita, dipende il nostro futuro.

Carlo Gambescia

sabato 12 aprile 2008

Il sabato del villaggio (12)



Telegiornale

Tg1: solo chiacchiere e (casi) investigativi.
Tg5 : solo chiacchiere e aperitivi.

Spengleriana
Giovanni Sartori: il declino del cattedrante.

Il destino del libro
Essere scritto, pubblicato, comprato. E non letto.


Igiene del mondo
A quando un imbecillecausto?

                                         Carlo Gambescia

***

Le chiose al "sabato" dell'amico scrittore Claudio Ughetto

La FIAT è la passione della sinistra. Quindi mi sa che con la crescita...
.
Per chi votano i Cesaroni? Chissenefrega.
.
Tg5: chiacchere, aperitivi e neocon neppure tanto mascherati (Toni Capuozzo è la mia passione. Prima o poi s'immolerà come scudo umano).
.
Imbecillicausto? Dovremmo partire da Vattimo, allora...
Annunci
La Fiat è in crescita!” E chi se n'è accorto...

Interrogativi post-moderni
Per chi votano i "Cesaroni"?

Telegiornali “narrativi”
Tg2 


                                                           Claudio Ughetto

venerdì 11 aprile 2008

Come si diventa consigliere del principe



Una premessa. Stando alle ricerche, circa il 90 per cento delle persone svolge un lavoro che non ha scelto. Quindi a scegliere e “concretizzare” sono soltanto pochi individui particolarmente ambiziosi e in certo senso dotati, anche se non in misura eccezionale.
Pertanto, per venire al consigliere del principe, che nella nostra accezione è qualcosa di più dello spin doctor e qualcosa di meno dell' ideologo novecentesco, ci troviamo davanti a una persona particolarmente ambiziosa. Capace però di mettere astutamente a frutto una dotazione “genetica”, appena al di sopra della media. Insomma, chiunque abbia un coefficiente di intelligenza elevato, se non elevatissimo, di regola, preferisce tenersi fuori dai giochi politici. Il che significa che il consigliere del principe piuttosto che intelligente è astuto. E soprattutto ritiene che la politica sia il veicolo più sicuro per ascendere socialmente.
Come inizia la sua carriera? In genere studia scienze sociali, giuridiche o economiche. E fin da studente universitario, comincia a muoversi con astuzia, per costruirsi una carriera accademica, asserendo però pubblicamente che non è proprio il suo sogno fare il professore-burocrate, dal momento che ama la libera professione ( intanto però lavora sotto traccia…). Ma al tempo stesso, pratica ambienti politici, senza però sbilanciarsi troppo. Anche se spesso ama flirtare con frondisti altrettanto giovani. Che in seguito abbandonerà a un destino di anonimato, in particolare i più colti, assai pericolosi come potenziali concorrenti.
In genere il futuro consigliere del principe, da giovane, indossa gli abiti del radicale: parla di rinnovamento politico. Deve in qualche modo mettersi in luce, ma con juicio. Di qui la sua grande attenzione nei riguardi delle relazioni sociali, perché il suo obiettivo è quello di crearsi una rete di conoscenze accademiche e non: una specie di capitale fiduciario, che in seguito potrà spendere a suo vantaggio. Sotto questo aspetto il futuro consigliere del principe fonda riviste, organizza convegni, si lancia in attività editoriali, pubblica libri, e sceglie di scrivere solo per quei giornali e riviste che possono conferirgli la giusta visibilità. Anche gli amici - se così si possono chiamare - sono da lui usati in termini utilitaristici.
Insomma, il consigliere del principe, fin da giovane, è un grande manipolatore di persone. Una volta conseguita una posizione accademica - in genere intorno ai quarant’anni - è pronto per la grande scalata. Glissa sulle sue posizioni politiche giovanili, per iniziare la marcia decisiva di avvicinamento al principe. Che in genere avviene, per gradi, attraverso l'assunzione della direzione scientifica di varie fondazioni nell'orbita del principe. Dove può mettere a frutto, e moltiplicare, la sua rete di conoscenze, editoriali, accademiche, politiche e giornalistiche.
A questo punto, di regola, l’aspirante consigliere del principe scrive un libro encomiastico ma dalla veste scientifica - talvolta più di uno - per guadagnarsi il favore del suo futuro sovrano. Il quale, soprattutto se gode di potere assoluto ed è sensibile all’adulazione, non può non chiamarlo alla sua corte. E il nuovo consigliere corre… ma con dignità. E di lì poco, soprattutto se il principe è circondato da persone mediocri, finisce per rendersi indispensabile. Ovviamente la nomina, ufficiale o ufficiosa, a consigliere del principe gli apre la porta del grande gioco politico-mediatico. E così giunge al culmine di una carriera che potrebbe condurlo ad accettare, naturalmente solo per "spirito di servizio", anche la carica di ministro.
L’unico rischio "professionale" concerne i suoi legami con il principe, dal cui destino dipende. Di regola, se cade il principe, cade anche il suo consigliere. Ma se si è ancora relativamente giovani, il "gioco" può ricominciare con un altro principe. E ovviamente in un altro principato.

Carlo Gambescia 

giovedì 10 aprile 2008

Lo scaffale delle riviste: “Pagine Libere” , numero 4, marzo 2008; “Krisis, n. 29, février 2008 ( Populisme?).




Al lettore attento al tema della decrescita consigliamo di acquisire l’ultimo numero di “Pagine Libere” (n. 4, marzo 2008). Infatti il fascicolo si apre con un interessante editoriale dell’ Inattuale intitolato Frugalità! (chi si celerà sotto questo pseudonimo? Forse lo stesso direttore della rivista, Giuliano Borghi ?). Contro la deriva consumistica - si legge – “l’uomo che incarnasse la frugalità sarebbe colui che ha re-imparato a unire alla semplicità dei mezzi la ricchezza dei fini, rovesciando quella malsana relazione che sta facendo implodere l’attuale società ‘occidentale’. Il rifiuto del superfluo, pertanto, non può essere frainteso come un rifiuto puro e semplice del benessere, ma va inteso come l’atto di conversione, efficiente, al modo di un seme sano e fertile, a produrre la fioritura di una esistenza singola, e d’assieme, finalmente di qualità”.
Perciò, qualsiasi percorso di riforma, a cominciare da quello della decrescita, non potrà non implicare una sorta di “conversione” interiore, secondo una linea ideale capace di andare dall’individuo alla società. E non viceversa.
Seguono, tra gli altri, articoli di Giano Accame (Euro Bifronte , p. 3), Giuliano Borghi (Fine di un umanesimo, p. 5), Gian Franco Lami (Da… donna nasce… donna, p. 6) , Anna K. Valerio (Contro le menzogne del secolo), Maurizio Messina (Viaggio al termine di una giornata qualunque, p. 7).
Come sempre di grandissimo spessore l’ultimo fascicolo di “Krisis”, rivista diretta da Alain de Benoist, dedicato al “populismo” (n. 29, février 2008, pp. 164, euro 20). Dove questa incandescente tematica viene trattata in modo scientifico ma non liquidatorio, come invece usa fare certa scienza politica pseudo-liberale tesa alla difesa dello status quo ( proprio e sociale...) .
Scrive Alain de Benoist: "La "gente" ha [...] rimpiazzato il "popolo". I primi mesi della presidenza Sarkozy, sotto questo aspetto, hanno rappresentato, e al peggio, il modo in cui oggi viene valorizzato certo narcisismo infantile, l'intrusiva volgarità dei nuovi ricchi, la seduzione dello spettacolo-business [...]: la vita dell'Eliseo come soap o telenovelas" (Le peuple entre sécessione et mise à l'écart, pp. 40-59).
Si segnalano, tra gli altri, articoli di Marco Tarchi (Qu’est-ce que le populisme?, pp. 2-21), Thibault Isabel (Christophe Lasch, un populisme postmoderne, pp. 72-94), Jerónimo Molina (Représentation, association, partecipation, pp. 135-147). Notevoli anche le interviste al politologo Guy Hermet (Le populisme dans l’histoire, pp. 22-28), al compianto Paul Piccone (De la Nouvelle Gauche au populisme postmoderne, pp. 72-94), nonché a Chantal Mouffe (Pour une démocratie radicale et plurielle, pp. 116-123). Chiudono il numero testi, attinenti all’argomento, di Denis de Rougemont, Charles Maurras, Pierre-Joseph Proudhon. 

Carlo Gambescia

mercoledì 9 aprile 2008

Elezioni politiche 2008 

Per chi votare? 




Nell’ultimo mese ci siamo imposti di non parlare di politica italiana. E soprattutto per una ragione “pregressa” di natura personale: chi scrive, infatti, aveva già deciso almeno da gennaio, che, in caso di elezioni anticipate, questa volta non sarebbe andato a votare. Basta.
Ora, se la democrazia non “fabbrica” più cittadini, attraverso l’esercizio del voto, come li “fabbrica”? Nessun problema, il circuito della legittimazione e del consenso oggi segue altre strade.
In primo luogo, va ricordata la “cittadinanza mediatica”. Gli studi sui contenuti dei programmi e delle notizie veicolate dai media, provano che viene costantemente ripetuto un solo messaggio: il nostro sistema di vita, quello italiano, europeo, occidentale, è il migliore in assoluto. E le disfunzioni, che tra l’altro non sono poche (ambientali, sociali, economiche), sono sempre presentate come fisiologiche: come un prezzo, fin troppo lieve, da pagare al giusto progresso. E il cittadino "mediatizzato" si adegua...
In secondo luogo, non può essere ignorata la “cittadinanza economica”. Il sistema produttivo, tutto sommato, finora, pur con alti e bassi, ha retto. Il che ha permesso una redistribuzione abbastanza regolare del prodotto sociale e garantito tutele sindacali, previdenziali e assistenziali. Di qui proviene il consenso delle classi lavoratrici, ma anche la trasformazione del dibattito politico in economico: la “politica” ormai ruota esclusivamente intorno ai criteri fiscali di divisione del prodotto sociale.
Il terzo luogo, va segnalata la “cittadinanza consumistica”. Assicurare a tutti (o quasi) la possibilità di acquisire beni e servizi, rappresenta la carta vincente: la “riprova” che il sistema funziona. L’iperconsumo viene giudicato dalla gente comune, che subisce l’ipnotico effetto della cittadinanza mediatica, come l’ambito traguardo della cittadinanza economica.
E così il cerchio si chiude, e si chiuderà fin quando la "macchina economica" macinerà profitti, da redistribuire a tutti o quasi, anche se in misura diversa secondo la posizione sociale.
Di conseguenza - ecco il ragionamento delle persone comuni - se si vive in una specie di Paese dei Balocchi, che senso può avere la cittadinanza politica? Perché si dovrebbe votare per cambiare? Se, nonostante i casi di corruzione e malgoverno, tutto sembra “marciare” per il meglio, perché l’elettore dovrebbe punire i corrotti ? E del resto non sono gli stessi politici, dagli sguardi rassicuranti e benevoli, a promuovere politiche centriste, presentando la realtà che ci circonda come il migliore dei mondi possibili?
Un’ultima osservazione: le cittadinanze mediatica, economica e consumistica sono inversamente proporzionali alla cittadinanza politica. Se si consolidano le prime tre, si indebolisce la seconda. Insomma, la gente non va a votare perché reputa la politica ininfluente sull'economia. Come del resto si evince dagli studi in materia, che attestano come il crescente astensionismo elettorale sia un fenomeno tipico delle democrazie opulente, tutte incentrate sui consumi, sull'economia e poco o punto sulla politica, in senso forte e alto.
Si dirà: dopo questo "dotto" ragionamento, conseguentemente, si dovrebbe andare a votare. Proprio per distinguersi, diciamo così, dalle masse amorfe del non voto (quelle del Franza o Spagna, eccetera)...

Ma per chi votare? Ecco il punto. Di qui la nostra scelta di restare domenica prossima a casa

Carlo Gambescia

martedì 8 aprile 2008

La questione tibetana tra realismo politico e ideologia
Sì al boicottaggio delle Olimpiadi 


Negli incidenti parigini di ieri alcuni osservatori hanno scorto solo provocazioni anticinesi, mentre altri soltanto il segno significativo di una rinnovata battaglia per i diritti universali.
Diciamo subito che è singolare questa chiusura totale nei riguardi del Tibet che accomuna i capitalisti dei buoni affari con certe frange politiche europee filocinesi. Ma, per onestà, va anche sottolineato che tra i difensori della causa tibetana sussiste una divisione tra coloro che si impegnano in difesa dei diritti universali alla libertà di ogni “singolo” tibetano, come alcune organizzazioni non governative, e coloro che invece si battono per i diritti dei popoli, come "entità collettive", all’autodeterminazione. Ovviamente va ricordato anche chi si batte per entrambe le cause: diritti dell’uomo e diritti dei popoli. Anche se difficili da conciliare.
Chi scrive crede che sul piano ideologico le Olimpiadi vadano boicottate, soprattutto in nome del diritto di ogni popolo all’autodeterminazione politica. Mentre su quello del realismo politico, riteniamo, che la Cina vada contrastata, ovviamente in chiave politicamente “scalare”, prima che divenga troppo potente. Ma non siamo studiosi di geopolitica e perciò, da qui in avanti, potremmo incorrere in alcune inesattezze.
In effetti, quel che più ci infastidisce è il realismo economico dei capitalisti dei buoni affari con la Cina. Un realismo che in realtà non è tale, perché, come sta avvenendo, il costo del lavoro europeo - semplificando al massimo - viene fissato sul mercato del lavoro cinese, in base ai salari da fame percepiti dagli operai cinesi, privi di qualsiasi autentico diritto sociale. Un gioco al ribasso che in realtà decostruisce le basi sociali e morali dell'economia europea.
Di più: la Cina, sostiene, attraverso il possesso di ingenti quantità di titoli americani, l’economia statunitense. Pertanto chiunque appoggi la Cina, rischia di sostenere indirettamente l'economia americana. Perciò chi oggi invoca l’indipendenza economica europea dagli Stati Uniti, dovrebbe riflettere su questo aspetto non secondario: ogni euro che entra in Cina serve a sostenere, almeno a breve, l’economia Usa.
Ecco perché, ripetiamo, in ultima istanza, le Olimpiadi vanno boicottate.

Carlo Gambescia