mercoledì 6 settembre 2006


Il libro della settimana: Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. da Norimberga a Baghdad, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 194 Euro 16,00.



http://www.laterza.it/index.php?option=com_laterza&Itemid=&task=schedalibro&isbn=9788858112984


Guai ai vinti”. Tutti ricordano la frase attribuita da Tito Livio a Brenno, capo dei Galli, penetrati vittoriosamente in Roma. Così come, per venire a giorni nostri, e per citare il Curzio Malaparte della Pelle, di solito sono “ i vinti che governano il mondo”.
Chi dice la verità? Probabilmente hanno ragione entrambi. Infatti i Romani poi sconfissero i Galli, ma dalla loro vittoria, nacque una aristocrazia gallo-romana, che nel tempo si affermò all’interno dello stesso Senato romano. Perciò i vinti, magari non subito, ma nel corso dei secoli, si prendono grandi rivincite. Si pensi solo alla cultura classica dei Greci sconfitti, che ha contaminato prima Roma vittoriosa, poi lo stesso mondo arabo islamizzato, e infine, attraverso l’ aristotelismo, la stessa cultura rinascimentale e moderna.
Il che significa che sul piano sociologico e culturale il rapporto tra vinti e vincitori è piuttosto complesso. Va fatto invece un discorso diverso per gli aspetti politici e giuridici. Anzi si può persino ritenere che la “modernità giuridica”, introducendo categorie di derivazione giusnaturalistica, come i diritti dell’uomo abbia reso ancora più duro il destino degli sconfitti, soprattutto nella seconda metà Novecento. E non solo giuridicamente.
Una buona guida al diritto politico del “Secolo Breve”, così inclemente nei riguardi dei vinti, è rappresentata dall’ultimo libro di Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad (Editori Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 194, euro 16,00). Zolo, finissimo filosofo del diritto e studioso di grande equilibrio, traccia un quadro impietoso ma onesto di quello che potremmo chiamare il nuovo diritto politico, perché funzionale all’ascesa “politica” a potenza mondiale degli Stati Uniti dopo il 1945 . I grandi processi di Norimberga e Baghdad, per un verso rappresentano la giusta resa dei conti nei riguardi di uomini macchiatasi di orrendi delitti, ma per l’altro la degradazione dell’ avversario a mostruoso nemico politico dei “diritti dell’uomo” e dunque dell’intera umanità. Anche perché, come giustamente nota Zolo, questi processi incarnano una dualismo giustizialistico: gli stessi delitti, se commessi dai vincitori (dalle atomiche su Hiroshima e Nagasaki ai bombardamenti su Belgrado e Baghdad), sono giuridicamente giustificati, anche se lesivi - ecco il doppio criterio - degli stessi diritti umani per le cui violazioni viene invece incriminato il nemico sconfitto.
Come il lettore avrà già capito La giustizia dei vincitori è un libro schmittiano, come del resto riconosce lo stesso autore. Senza però quelle, intuizioni, grandissime ma spesso luciferine, che distinguono l’opera del pensatore tedesco. Frutto, pensiamo, del fatto che Schmitt, come Giona visse, pur non condividendone gli aberranti obiettivi politici, nel ventre della balena nazionalsocialista. Il che lo portò a individuare nel puro esercizio del potere, spesso brutale, quel volto di Medusa, che una volta caduta la maschera del diritto, lo stesso Schmitt aveva osato fissare, solo per un attimo, nella Germania dei primi anni Trenta. Pagandone però per sempre le conseguenze…
Zolo, a sua volta, ricostruisce molto bene in sette densi capitoli, origini e sviluppi del diritto politico novecentesco. Alle cui basi pone con Schmitt il tramonto dello jus pubblicum eropeaeum: dello stato nazione come attore storico, giuridico e fattore di equilibrio. Il libro è ricco di riferimenti giuridici allo sviluppo di un diritto (o “fondamentalismo”) umanitario, falsamente universalista, che funge da ombrello ideologico, all’espansionismo americano. Si tratta di un processo storico, apertosi all’indomani della prima guerra mondiale, che secondo il presidente americano Wilson, doveva portare alla pace universale. E poi incarnato, e fatto proprio dalla Società delle Nazioni, con scarsi risultati, e nel secondo dopoguerra da un’Onu, praticamente controllata dalla principale potenza vincitrice.
Due sono gli aspetti centrali sottolineati da Zolo. Da un lato la processualizzazione penale dei rapporti internazionali (il termine è nostro, non è un granché ma rende l’idea…), e dall’altro la criminalizzazione del nemico. Chi osa ribellarsi al nuovo ordine mondale, teorizzato da Bush padre, ma in realtà risalente al progetto wilsoniano, viene oggi considerato alla stregua di un criminale: un autentico nemico dell’intera umanità. Che deve essere catturato, sottoposto a processo e infine messo nello condizioni di non nuocere, come nel caso di Milosevic e Saddam.
Non staremo qui a ricostruire le tante sottili contraddizioni giuridiche, così finemente individuate da Zolo. Quel che particolarmente colpisce della sua ricostruzione, e che in certo senso lo distingue da Schmitt, ma apre un problema ancora più serio, è suo riferirsi alla dottrina kelseniana.
Zolo riporta, a proposito del processo di Norimberga, le tesi del giurista Hans Kelsen. Secondo il quale “la punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme solo apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, ritenuti responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere un’assise imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva” (p. 144).
Le tesi di Kelsen, esemplificano la posizione opposta a quella di Schmitt. Ci spieghiamo meglio.
Per Kelsen alla guerra “giusta” (contro i nemici dell’umanità) deve accompagnarsi il processo giusto. Per Schmitt, oltre a non esistere nessuna guerra giusta, il successivo processo, non può che essere ingiusto. Il lato luciferino di Schmitt, è non credere nella giustizia in Terra. Mentre in Kelsen, ne prevale, come dire, uno “angelicato”, che lo spinge ad avere fede nel giusto processo, e dunque nella giustizia in Terra.
E Zolo? Purtroppo non suggerisce alcuna “terza via”, ma neppure sposa le opposte tesi di Schmitt e Kelsen. Certo, non è facile per nessuno - e poi per giunta con i soli strumenti del diritto - affrontare problemi giganteschi come quelli della guerra e della pace. Però ci si resta male, quando si scopre che sul piano propositivo Zolo, in realtà, non va oltre l’ “elogio della diplomazia, soprattutto se preventiva” (p. 46), e l’ “ardua” se non impossibile” missione - è lui stesso a riconoscerlo - “di liberale il mondo dal dominio economico, politico e militare degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati europei” (p. 139).
Probabilmente, per dipanare l’intera matassa, occorreranno tempo, visione storica e grande realismo politico da parte europea. In effetti, se è vero, come scrive Zolo, che il “potere degli Stati Uniti è un potere ‘imperiale’ “, nel senso che il suo potere “è legibus solutus, al di fuori e al di sopra del diritto internazionale” (p. 125), perché garantito dalla forza delle armi, resta poco da fare. Considerata appunto la sproporzione di forze tra Europa comunitaria e Stati Uniti. Quel che però si potrebbe evitare è di invocarne l’aiuto, come veri e propri sudditi, anche per risolvere problemi interni europei, come accadde per il Kosovo. Di qui anche la necessità di una maggiore presenza dell’Europa, in quanto tale, nelle istituzioni internazionali.
Si dirà che è poco. Ma nella situazione attuale, proporre una riforma in senso kelseniano della giustizia internazionale, porterebbe solo al rafforzamento degli Stati Uniti, che dispongono del potere reale. Mentre una politica schmittiana di pura forza, basata sulla costruzione di una spazio autonomo europeo, sarebbe giudicata Oltreoceano una provocazione. Con conseguenze, per noi, gravissime…
Non resta perciò che attendere, lavorando, secondo un disegno europeo, all’interno delle istituzioni internazionali esistenti. Il che non è facile, poiché l’Europa, procede tuttora in ordine sparso e per “assi”, ora “franco-tedesco”, ora “franco-britannico”, eccetera. Probabilmente, oltre alla visione storica e al realismo, servirebbe anche un pizzico di coraggio.
Non per fissare il volto di Medusa, ma per tornare, con gradualità e criterio, signori del nostro destino politico. E giuridico.

Carlo Gambescia 

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