lunedì 1 maggio 2006

Sulla "terza via" Sorel aveva torto
O riforme 
O rivoluzione 



Georges Sorel (1847-1922) è probabilmente uno dei pensatori più controversi dell'intera storia del socialismo, in particolare per le sue amicizie pericolose a destra, tra monarchici maurrasiani e altri vari gruppi politici  pre o  criptofascisti. Fu anche un avversario ostinato di qualsiasi forma di riformismo e un teorizzatore dell'azione diretta in campo sindacale e politico, nonché simpatizzante al tempo stesso di Lenin e Mussolini. Al di là di questi aspetti politici, certamente discutibili, del suo pensiero gli va riconosciuta un certa profondità di analisi, soprattutto per aver intuito, già all'inizio del Novecento, due fenomeni, particolarmente interessanti, e interni allo sviluppo dei partiti e sindacati operai.
Dobbiamo a Sorel l'individuazione di due costanti sociologiche nel riformismo socialista.
La prima è che il riformismo, se per un verso si traduce in miglioramenti sociali, per l'altro produce una trasformazione, in senso secolare ( o se si preferisce materialistico), non solo dei quadri dirigenti, ma della stesso movimento socialista ed operaio. Il problema, non è solo "l'imborghesimento", ma la rinuncia a qualsiasi obiettivo, che non sia rivolto al miglioramento materiale. Si finisce per ragionare, tutti, solo nei termini della maggior quota di benessere perseguibile in un dato momento storico.
La seconda è che il il riformismo, perpetua se stesso: come ogni fenomeno sociale - e qui le sue osservazioni sono particolarmente profonde - da mezzo finisce per trasformarsi in fine: se il riformismo (il mezzo) deve costruire il socialismo (il fine), nel tempo si finisce per perdere di vista quest'ultimo obiettivo, e il riformismo da mezzo diviene fine. Pertanto, secondo Sorel, attraverso questo processo, i partiti e i sindacati socialisti, rischiavano già ai suoi tempi di trasformarsi da strumenti rivoluzionari in strumenti di conservazione dell'ordine esistente. Come poi è regolarmente avvenuto.
Come rimedio, Sorel teorizzò - e questo molto prima di Gramsci e Trotzskij (ci si riferisce a categorie sociologiche e non politiche o di scolastica marxista) - una specie di rivoluzione permanente, da attuare attraverso lo sciopero generale e il successivo controllo sindacale, altrettanto "permanente", dell'economia socialista ( su quest'ultimo punto la teoria soreliana è piuttosto nebulosa, come del resto sul tipo di società che verrà dopo la rivoluzione). 
Un rimedio difficilissimo da attuare - e qui vengono fuori i limiti del pensiero (sociologico) soreliano -  perché il momento dello stato nascente (dello sciopero rivoluzionario) non può sociologicamente durare per sempre. Al Movimento deve seguire l'Istituzione: le società (socialiste, liberali, eccetera), come lava incandescente, finiscono regolarmente per solidificarsi in istituzioni che gestiscono, come dire, l'esistente, anche se introdotto attraverso un processo rivoluzionario.
Quel che è impossibile insomma, non è la rivoluzione, ma la "rivoluzione permanente". Non esiste un "riformismo rivoluzionario". Esistono soltanto un "riformismo riformatore" e un "rivoluzionarismo rivoluzionario".

Tertium non datur. Non è concessa una terza possibilità. Almeno sociologicamente.

Carlo Gambescia

Nessun commento:

Posta un commento