giovedì 31 luglio 2025

Mattarella e le ambiguità del cattolicesimo di sinistra

 


Non dubitiamo della buona fede del Presidente Mattarella. Da cattolico crede sinceramente nella pace e parla e agisce di conseguenza. Però è anche un uomo politico con idee di sinistra, come dimostra la sua appartenenza storica all’ala progressista della Democrazia Cristiana. Quando, nella prima metà degli anni Novanta, la “balena bianca si spiaggiò”, Mattarella, per capirsi, a Buttiglione preferì la Bindi.

Cosa significa essere cattolici di sinistra dentro la Dc? Mescolare Vangelo e politica. Però fino a un certo punto. Di qui il pericolo del doppio standard.

Per fare un esempio al contrario: Sturzo e De Gasperi, interpretando la vera anima del cattolicesimo politico, evitarono sempre di confondere politica e religione. Furono antifascisti come anticomunisti. Zero sconti. Politicamente si mossero al centro. Di conseguenza, Sturzo fu allontanato dalla Chiesa perché non volle venire a patti con Mussolini; De Gasperi non fu mai amato da Pio XII, perché politicamente laico. Eppure il primo fondò il Partito Popolare, il secondo fu capitano coraggioso della rinata Democrazia Cristiana.

Per contro, molti cattolici, fin dai tempi del Partito Popolare – si pensi al sindacalista Miglioli, poi deputato popolare negli anni dell’ascesa del fascismo e nel secondo dopoguerra nelle liste Pci-Psi – scorsero nella politica il prolungamento del Vangelo. Di qui la confusione tra Stato e governo, la scelta di un ruolo attivo dello Stato nell’economia, il forte senso egualitario mescolato a una spiccata antipatia per il capitalismo. Moro, padre del centrosinistra, aveva agli inizi addirittura simpatie socialiste. Si dirà: sempre meglio di Fanfani, che invece ne aveva per il corporativismo…

Al di là delle battute, per fare un esempio classico, un professore democristiano di valore, Vittorio Bachelet – ucciso proditoriamente dalle Brigate Rosse, maestro universitario e mentore di Rosy Bindi – insegnava diritto pubblico dell’economia, cioè come mettere le briglie al capitalismo. E si potrebbe continuare, risalendo a Dossetti, grande teorico di un keynesismo in salsa evangelica, Mattei, statalista di ferro e continuatore dell’interventismo fascista, “La base”, corrente di sinistra fondata da Marcora, gran lombardo già partigiano, poi Vanoni, sostenitore ante litteram dell’infernale mix tasse-spesa pubblica, Gronchi, Pastore, Donat-Cattin (già sindacalista bianco, con figlio brigatista), Zaccagnini, fino a De Mita, Bindi, Andreatta, Prodi.

Il cattolico di sinistra, per tornare al Presidente Mattarella, crede nella pace evangelica (nella necessità di porgere l’altra guancia) e – ecco il punto di congiunzione tra statalismo e pacifismo – nella necessità che ogni Stato, a prescindere dal comportamento degli altri, si impegni per la pace.

Va detto che, nonostante tutto, Mattarella sull’Ucraina ha chiuso un occhio, parlando – giustamente – di guerra difensiva. Quindi, della necessità di sostenere Kiev, anche inviando armi (non truppe però). Diciamo che ha dato prova di realismo politico. Mattarella teme che, se non fermata per tempo, la Russia possa continuare la sua marcia armata verso l’Europa occidentale. Il che gli è valso l’inserimento in una lista di russofobi stilata da Mosca.

Per contro, su Israele ha commesso, ovviamente non in modo consapevole, un errore retorico delicato: ha dato l’impressione di confondere Stato (Israele) e governo (Netanyahu). Un riflesso condizionato, purtroppo, non raro nella cultura della sinistra democristiana. Chi distingue correttamente tra i due livelli, riconosce allo Stato d’Israele il pieno diritto all’esistenza, pur potendo criticare il governo in carica. Chi li confonde, rischia, anche involontariamente, di alimentare quella sovrapposizione che – nelle letture più estreme – ha portato a negare la legittimità stessa dello Stato ebraico.

Nel discorso di ieri, in occasione della Cerimonia del Ventaglio (*), Mattarella, a proposito della Russia, sembra distinguere chiaramente tra popolazione e dirigenza. Per contro, quando accenna a Israele, tale distinzione sparisce. Il Presidente parla – anche giustamente – dell’“ostinazione a uccidere indiscriminatamente”, senza però separare in modo netto il popolo d’Israele, grande quanto quello russo, dalla sua classe dirigente.

Insomma, non si può non osservare che nel discorso manca un riferimento esplicito al “popolo israeliano” o a Israele come “grande nazione”, come invece avviene per la Russia. Non si tratta, forse, di una confusione tra Stato e governo, ma l’assenza di tale distinzione retorica può dare adito ad ambiguità. È sul piano della comunicazione istituzionale che si coglie una dissonanza, la quale può far sorgere – anche in modo involontario – un’impressione di doppio standard.

Dicevamo del “cattolico di sinistra”. C’è un passaggio, sempre del suo discorso di ieri, in cui Mattarella, accantonando il pacifismo evangelico, ricorda – quasi con nostalgia – la cosiddetta politica dell’equilibrio, anche degli armamenti, che dopo l’ultima guerra mondiale contribuì a mantenere la pace in Europa e nel mondo. Si tratta di un chiaro invito ad aiutare Kiev. Peccato che il Presidente non sia stato altrettanto chiaro sulla necessità per Israele, come Stato, di difendersi dal terrorismo. Ovviamente con un altro governo, che sappia dove fermarsi.

Due pesi, due misure? La domanda resta aperta. Giudichi il lettore.

Carlo Gambescia

(*) Il discorso integrale di Mattarella alla Cerimonia del Ventaglio del 30 luglio 2025 è disponibile qui: https://www.quirinale.it/elementi/137233

mercoledì 30 luglio 2025

Del liberalismo armato


 

Un amico, ieri, ci diceva scherzosamente: “Sì, va bene, liberalismo armato, ma se le armi, in Europa, non ci sono, perché le hanno solo gli americani, che hanno al governo un fascista, caro Carlo, parlerei di liberalismo disarmato”...

In effetti, gli americani, se abbiamo capito bene il significato degli accordi scozzesi, vogliono che l’Europa acquisti le armi da loro, pagando in dollari sonanti… Insomma: monopolio. Altro che libero mercato.

Per dirla fuori dai denti: l’Europa, culla del liberalismo, non ha alcun desiderio di difenderlo. Vivacchia alla giornata, come una nave malandata senza timone.

Ma facciamo un passo indietro. Cosa significa liberalismo armato?

Si pensi a un liberalismo che, impavido, affronta e vince i nemici del liberalismo. Come fece con Hitler e Mussolini. Quello fu un momento magico, che vide Stati Uniti ed Europa liberal-democratica perfettamente allineati. Nel pericolo, ovviamente. E così è stato, a grandi linee, fino a Trump. Che invece non crede nella liberal-democrazia, anzi si comporta da perfido autocrate e sordido ammiratore dei dittatori.

Chi raccoglierà la bandiera del liberalismo? E soprattutto: chi avrà il coraggio di dire – e agire di conseguenza – che il liberalismo riconosce la libertà di parola, ma non ai suoi nemici, cioè a coloro che vogliono utilizzarla per schiacciare il liberalismo?

Per farla breve: il liberalismo può trovarsi, come ogni altra forma di regime politico, nella condizione di dover schiacciare prima di essere schiacciato.

La logica è semplicissima, addirittura rozza. Ma servono le armi, cioè un certo grado di potenza militare, in grado di spaventare e battere i nemici del liberalismo.

Il liberalismo armato, proprio in quanto armato, non si limita alla difesa passiva, ma contempla anche la guerra preventiva, laddove le condizioni politiche e strategiche lo rendano necessario. Si tratta di un realismo politico di ampio respiro (*), che non rincorre il consenso universale, ma protegge i valori liberali con la forza, se necessario. Non è il fiato corto di chi vuole andare d’accordo con tutti, ma la visione lunga di chi sa distinguere tra pace vera e resa incondizionata.

E purtroppo, l’Europa non ha nessuna intenzione di riarmarsi. Anzi, condanna il ricorso alla guerra.

L’atteggiamento dell’Europa verso i suoi nemici è quello dell’attesa e della speranza che il nemico capisca da solo l’inutilità della guerra. Insomma: che si converta, convincendosi della bontà della pace.

Ora, è indubitabile che il liberalismo, dal punto di vista della storia delle idee, confidi nei commerci, nei parlamenti, nella tolleranza e nella libertà di parola per conquistare menti e cuori degli uomini. Sono cose bellissime, e praticate con invidiabile successo.

Però, per praticare questi valori si deve essere almeno in due, convinti della bontà degli stessi. Se è il nemico a indicarti come tale – quindi non si è in due – ci si deve preparare adeguatamente per mettere il nemico nelle condizioni di non nuocere. Come? Armandosi fino ai denti. E battendosi, quando necessario.

Però, su questo punto preciso nasce ciò che oggi può essere chiamato il problema Netanyahu. Cioè: una volta riarmata fino ai denti, fin dove può spingersi una liberal-democrazia nella guerra guerreggiata?

Infatti, non va dimenticato che, una volta accettata la logica della guerra, questa, per forza propria – come insegna Clausewitz – tende all’estremo (attenzione: “tende”, prende una certa direzione, che però si può sempre cambiare).

Pensiamo a un passo importante di Vom Kriege, che merita di essere citato per intero:

“ ‘La guerra è un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo’.Ecco dunque un primo rapporto di azione reciproca e un primo criterio illimitato, cui l’analisi ci conduce”. (**).

Tuttavia, come dicevamo, Clausewitz, pur perfettamente conscio di questo aspetto, affida però alla politica il compito di dominare istinti e passioni che tendono a portare la guerra all’estremo. Insomma: di invertire la direzione verso l’estremo. Sarà la politica a capire quando fermarsi, sulla base della minore resistenza del nemico.

E qui vengono di nuovo alla luce i principi liberali, che Netanyahu sembra aver completamente dimenticato. E che possono essere sempre dimenticati, per così dire, dallo statista liberale medio. Cioè: quando e dove fermarsi? 

Cosa dicono i principi liberali?

Che il liberalismo, pur armandosi e battendosi, scorge giustamente nel nemico di oggi l’avversario di domani. Cioè lo vede come un partner pacificato, che crede nella leale concorrenza intellettuale, commerciale, eccetera. Il liberalismo, anche nei momenti peggiori, non smette mai di credere in un ritrovato clima di pace, frutto di un’innocua mano invisibile che tramuta persino i vizi in virtù.

Per capirsi, e semplificando al massimo, il Kant, che evoca la pace perpetua va corretto con il Clausewitz, che ci spiega le durezze della guerra.

Un’utopia? Ottant’anni di pace europea e di buoni rapporti con gli Stati Uniti e con il resto del mondo libero confermano la tesi di Kant, il ritorno dei nazionalismo e dei venti di guerra, quelle di Clausewitz.

Concludendo: ogni buon liberale armato sa che, per fare la guerra, bisogna credere nella pace. Cioè nella possibilità di sostituire al più aspro conflitto la pacifica concorrenza. Sotto questo aspetto, il nemico di oggi, qualunque sia la sua veste – addirittura l’America MAGA – una volta riacculturato o acculturato ai valori liberali, dopo ovviamente essere stato sconfitto,   può diventare l’amico di oggi. Sconfitto, insomma, ma senza  esagerazioni. Vincere non stravincere: mai umiliare, e  per generazioni,  il nemico. Nella vittoria il liberalismo deve sempre mostrare la sua grandezza.

Per inciso, qualcuno lo spieghi Netanyahu. E anche a Trump, visto che ci siamo. Ma forse, per capirlo, servirebbe un corso accelerato di civiltà liberale. Del resto, il liberalismo ha sempre avuto nemici, anche interni, con l’elmetto e il cuore di pietra…

Carlo Gambescia

(*) Sul realismo politico di lungo (ad quem) o corto respiro (a quo) rinviamo al nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2019, pp. 23-31.

(**) K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 2007, p. 22. Ma si veda tutto il Libro I. Ovviamente si consiglia la lettura integrale di questa intramontabile opera.

martedì 29 luglio 2025

Dazi e aiuti di stato. Come volevasi dimostrare…

 


Ne parlavamo proprio ieri (*). Confindustria, per dirla alla buona, bussa a quattrini.

I dazi al 15 per cento – cosa ovvia – non possono non penalizzare le nostre esportazioni. E, puntuale come un orologio svizzero, oggi sul “Sole” si legge che Confindustria, che ama celarsi dietro frasi altisonanti, evoca un “piano industriale straordinario”.

Tradotto: aiuti pubblici a pioggia. Non importa se arrivino da Roma o da Bruxelles. Basta che arrivino.

Quanto? Secondo le simulazioni del Centro Studi di Confindustria – basate su vari scenari – con dazi al 30 per cento, la perdita ammonterebbe a circa 40 miliardi di euro annui; con quelli al 15 per cento, “solo” a 20 miliardi (**).

Che vittoria per Ursula von der Leyen! Certo. Però – se ci si passa la battuta – la logica (assurda) è quella del pagamento della metà della multa: il 15 per cento invece del 30. Una multa, tra l’altro, inventata da Trump. E che, comunque, non sarà pagata da Confindustria, bensì dall’incolpevole cittadino.

Chi paga? Il contribuente, europeo o italiano: decida il lettore. Giorgia Meloni, già statalista di suo, non sembra affatto contraria a concedere aiuti. Magari tentando di rivalersi sull’Unione Europea, spalmando gli aiuti italiani sulle spalle degli altri contribuenti europei.

Il punto è che i dazi – qualunque sia il loro livello – impongono l’aiuto di Stato. Una specie di patto scellerato tra Stato e imprese protette, a danno del contribuente. Basta aprire un qualsiasi manuale di economia.

Si dirà: meglio così che una guerra commerciale. Vero. Perché le ritorsioni a specchio causerebbero danni, oggi difficili da quantificare con precisione, ma stimati tra i 50 e i 100 miliardi di euro l’anno (***).

Però – ed è qui il punto – la logica del male minore finisce per favorire il male maggiore: non colpisce il prepotente (Trump) e i vigliacchi o pigri (le imprese pronte a tendere a la mano) premia chi ha sbagliato e fa pagare chi non ha colpa. 

Il solito gioco: socialismo per gangster politici e parassiti. Per contro,  mercato – si fa per dire, perché nulla ha a che vedere il liberoscambio – come un randello sulle zucche dei cittadini. 

Quasi quasi sarebbe meglio una guerra commerciale. Almeno lì si saprebbe chi è il nemico. Qui, invece, come spesso accade, si combatte sotto falsa bandiera. E a pagare è sempre lui: il cittadino. Contribuente senza voce, ma con il portafoglio sempre aperto…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/07/trump-von-der-leyen-e-i-dazi-al-15.html .

(**) Qui: https://www.confindustria.it/pubblicazioni/da-dazi-e-dollaro-svalutato-piu-incertezza-e-meno-fiducia-frenano-export-consumi-e-investimenti/.

(***) Qui: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2023/10/10/world-economic-outlook-october-2023 .

lunedì 28 luglio 2025

Trump, von der Leyen e i dazi al 15%: l’autolesionismo di un’Europa senza più anima liberale

 


Tornano i dazi. E tornano come malattia ideologica. Non è solo una questione di numeri – 15 invece di 50 per cento – ma di principio. E il principio è chiaro: si è piegata la testa al protezionismo, alla logica autarchica, alla statalizzazione degli scambi. Altro che realismo. Altro che vittoria diplomatica.

Il nuovo accordo tra Trump e von der Leyen sui dazi rappresenta la fine – o forse la resa – dell’idea liberale d’Europa. Il dazio del 15%, sbandierato come compromesso “di buon senso”, è in realtà l’accettazione strutturale di un principio illiberale, economicamente autolesionista, moralmente ripugnante.

Quella che segue non è – e non vuole essere – un’analisi tecnica (*). Non discutiamo di percentuali, ma di idee. Il punto non è quanto sia alto un dazio, ma se sia giusto introdurlo. Il liberalismo non è un calcolo, ma un principio: quello della libertà economica come espressione della libertà individuale.

Di conseguenza, quando si accetta di trattare il commercio come leva geopolitica, si smette di difendere un’idea di società aperta e si comincia ad accettare il dominio del potere sulla cooperazione.

E chi accetta questo, ha già perso, anche se pensa di aver negoziato un “buon compromesso”.

1. Le misure: un passo indietro mascherato da mediazione

L’intesa raggiunta prevede un dazio statunitense del 15% su quasi tutte le importazioni europee, escluse alcune filiere strategiche. In cambio, l’Europa promette miliardi di dollari in acquisti di energia e armamenti made in USA. Un baratto, in stile mercantilista, che ci riporta alle logiche di potenza e alle “sfere d’influenza” che nella prima metà del Novecento condussero alla guerra civile europea. Non un accordo multilaterale, non una riforma del WTO, non una semplificazione degli scambi. Solo un accordicchio bilaterale, frutto, ecco la cosa grave, del ricatto .

2. I dazi: autolesionismo puro

Un dazio, anche al 15%, non è mai innocuo. È una tassa imposta non al produttore estero, ma al consumatore nazionale. Chi paga? Le imprese e le famiglie. Chi guadagna? Una manciata di settori iperprotetti e obsoleti, incapaci di reggere la concorrenza. Si dice: meglio 15 che 50. Ma è come dire: meglio una bastonata che un pugno in faccia. Il punto è: perché colpire? E perché colpire se stessi?

3. Una misura controproducente (per USA e UE)

I dazi non proteggono, danneggiano. Le imprese americane operano in Europa attraverso catene del valore integrate. Un dazio sull’auto tedesca colpisce anche i fornitori americani che producono componenti. Un dazio sui farmaci europei danneggia le multinazionali statunitensi che li commercializzano. Meno profitti, meno investimenti. Un gioco a somma negativa. Con effetti depressivi su entrambe le sponde dell’Atlantico. La cosiddetta “America First” è, in realtà, “America Last”.

4. Trump e la fine dell’idea liberale

Non è sempre stato così. Durante la presidenza Obama si tentò, pur tra mille contraddizioni, un vero trattato di libero scambio transatlantico (TTIP). Oggi non se ne parla più. Dimenticato. Archiviato. Trump, a prima vista, può apparire come un erede culturale del peggior isolazionismo americano. In realtà è andato ben oltre: lo ha cancellato in nome di un neo-protezionismo reazionario. Il che non deve stupire: Trump è un fascista economico, animato da un volontà di potenza, sconosciuta al sistema politico americano. Trump predica la libertà ma pratica l’arbitrio. Utilizza la leva commerciale come arma geopolitica. E l’UE – oggi – gli ha dato ragione.

5. Meloni e l’interventismo camuffato da prudenza

E qui veniamo alle dichiarazioni di Giorgia Meloni. Palazzo Chigi ha parlato di “passo positivo” e ha chiesto che “l’UE aiuti i settori colpiti”. Traduzione: più spesa pubblica, più sussidi, più intervento statale. Insomma, si introduce il dazio (errore n. 1) e poi si chiede allo Stato di riparare ai suoi effetti (errore n. 2). Una spirale pericolosa. Sempre uguale. Sempre in nome del “buon senso” nazionale. Ma il liberalismo è altro, e di più elevato: è principio di non intervento.

6. I dazi sono una supertassa

Il dazio è una tassa. Anzi, una supertassa nascosta. Colpisce silenziosamente tutto ciò che entra nel mercato. I prezzi salgono, la competitività scende, la crescita frena. E tutto per cosa? Per difendere l’indifendibile: settori protetti, aziende inefficienti, rendite di posizione. Nessuno ha il coraggio di dirlo: il protezionismo è un sussidio regressivo, pagato dai molti per i pochi. È la negazione dell’equità di mercato.

7. Non è il male minore. È il male

L’argomentazione finale – “meglio 15 che 50” – è il colpo di grazia al pensiero critico. Perché accettare il principio del dazio è già una sconfitta. Il dazio funziona così: alza il prezzo di un bene straniero per renderlo meno competitivo rispetto a quello nazionale. Ma questa manipolazione è una violenza economica. Si stravolge il mercato. Si tolgono scelte al consumatore. Si impedisce all’impresa di ottimizzare la propria produzione. Non è il male minore. È il male stesso

8. La storiella della guerra commerciale evitata

E qui arriva l’argomento più ipocrita di tutti, quello del “meno peggio”: abbiamo evitato una guerra commerciale. Ma è davvero così? Chiariamo: la guerra commerciale inizia quando si abbandona il principio del libero scambio. Non serve una raffica di ritorsioni per dichiararla. Basta un dazio. Basta un 15%. Basta l’idea che il commercio sia arma e non cooperazione.

Chi accetta questa logica ha già perso. Perché ha rinunciato alla distinzione fondamentale tra politica e mercato. Ha permesso che le transazioni pacifiche tra soggetti liberi diventino oggetto di calcolo strategico tra Stati.

Altro che pace: è il primato della politica sulla libertà individuale. È “guerra fredda” al mercato. È nazionalismo economico mascherato da equilibrio. Al quale può seguire, considerati i cattivi rapporti economici tra stati, la “guerra calda” tra le nazioni.

Conclusione: una sconfitta culturale

L’accordo Trump–von der Leyen non è una tregua, ma una capitolazione morale. La UE ha tradito lo spirito liberale dell’Occidente. Ha ceduto al realismo miope. Ha sacrificato il lungo periodo sull’altare del consenso immediato. 

In nome di una “pace commerciale”, ha convalidato il principio illiberale dell’interventismo economico. E lo ha fatto accanto a Trump, l’uomo che oggi incarna la deriva autoritaria, sovranista, mercantilista. 

Per dirla fuori dai denti: una deriva fascista. Perché Trump disprezza tutto ciò che il liberalismo rappresenta.

E chi, come Giorgia Meloni, che tra l’altro di fascismo se ne intende, si dice “pragmatica”, in realtà è solo complice. Complice di una svolta che umilia l’idea stessa d’Europa come spazio aperto, dinamico, competitivo.

Perché senza libero mercato, non c’è libertà. E senza libertà, non c’è progresso.

Carlo Gambescia

 

(*) Per i dettagli concreti dell’accordo, rimandiamo alla versione ufficiale che sarà pubblicata a breve. Nel frattempo, si può consultare questo articolo di Reuters: https://www.reuters.com/business/us-eu-avert-trade-war-with-15-tariff-deal-2025-07-27/?utm_source=chatgpt.com .

domenica 27 luglio 2025

I manifesti della Lega: il volto razzista della sicurezza

 


Finalmente il Comune di Roma ne ha fatta una giusta: ha ordinato il ritiro dei manifesti razzisti della Lega, apparsi nella Capitale per celebrare il cosiddetto Decreto sicurezza, fortemente voluto da Giorgia Meloni (*).

Chissà, però, cosa accadrà nelle città dove comanda la destra…

Il Campidoglio ha fatto riferimento all’art. 12-bis del Regolamento comunale in materia di pubblicità, che vieta esposizioni pubblicitarie il cui contenuto contenga stereotipi legati all’appartenenza etnica (**).

Infatti, i manifesti leghisti hanno un esplicito contenuto razzista: colpevolizzano esclusivamente migranti e Rom. Roba da KKK (***). 

Attenzione, la questione è grave — non tanto per il contenuto immediato (lo slogan muscolare, la retorica del “grazie alla Lega”) — quanto per il messaggio implicito, che rivela il vergognoso degrado concettuale nel quale è precipitato il discorso pubblico italiano.

Una precisazione: se si commettono reati, è giusto intervenire. Ma il problema, qui, non è il richiamo all’ordine in sé, bensì la strumentalizzazione dell’ordine come feticcio ideologico. Non si tratta più di far rispettare la legge, ma di costruire un nemico sociale funzionale alla narrazione del potere.

Il volto del “colpevole” viene scelto con cura: straniero, povero, marginale. L’inquadratura fotografica lo inchioda, senza processo, nel tribunale visivo della pubblicità politica. È un ordine che non rassicura, ma divide. Che non educa, ma punisce. Che non cerca la giustizia retributiva (che ciascuno “paghi” il suo peccato), ma il capro espiatorio (che uno “paghi” per i peccati di tutti).

Come? Puntando sull’acquisizione di un consenso totalitario attorno a una visione del mondo punitiva, avvelenata dal sospetto — una vera e propria presunzione di colpevolezza   basata sul colore della pelle.

Per fare un altro esempio, negli Stati Uniti gli sgherri dell’immigrazione, al servizio di Trump, fermano per strada le persone in base al colore della pelle, olivastra nei latinos…

È una semplificazione brutale, tipica della destra: non si discute perché si occupi una casa, perché si scivoli nella microcriminalità, perché si entri illegalmente. Nessun accenno a politiche abitative, esclusione sociale, dispersione scolastica, disagio giovanile, persecuzioni politiche.

Tutto ciò che è complesso viene espunto dalla destra, lasciando spazio a un’etica binaria: o di qua o di là. Per farla breve: “onesti contro criminali”, “italiani contro stranieri”, “noi contro loro”.

Non è un’idea di giustizia quella che viene proposta, ma una forma primitiva di repressione: una giustizia tribale, scenografica, spettacolare, priva di diritto e di ragione. Una giustizia da cartellone stradale, utile solo a rassicurare i più timorosi e a galvanizzare i più rancorosi.

Siamo davanti a un linguaggio che non costruisce ordine, ma lo mima in modo grottesco, riducendo la complessità del vivere civile a una sequenza di slogan e fotografie preconfezionate sul piano digitale.

Per inciso, la Lega ha replicato sostenendo che il Campidoglio sarebbe addirittura contro l’Intelligenza Artificiale… I leghisti non hanno nemmeno il senso del ridicolo. Neppure Hitler e Mussolini lo avevano. Da ultimi: Trump, Putin, Orbán,Erdoğan. Cosa ancora più grave perché chi non sa ridere di se stesso è pericoloso, dal momento che prende ogni dissenso come una minaccia, ogni critica come un affronto personale, ogni battuta come una dichiarazione di guerra.

L’autoironia è il primo argine contro l’autoritarismo.Dove manca la capacità di mettersi in discussione, fiorisce la propaganda, marcisce il dialogo, si irrigidisce il potere. Chi è incapace di ridere è incapace di pensare liberamente. E tende a voler impedire anche agli altri di farlo.

Ricapitolando: l’occupazione abusiva, la microcriminalità urbana, l’insicurezza reale sono problemi concreti. Ma affrontarli con la brutalità semantica di un manifesto è come voler spegnere un incendio dettandovi sopra la benzina.

In questo senso, la sicurezza non è più un bene comune, ma una merce avariata elettorale, venduta al prezzo della dignità altrui. Chi governa in nome dell’autorità dovrebbe sapere che la legittimità del potere non nasce dalla forza, ma dal libero consenso.

Consenso che, a sua volta, porta alla giustizia.

Giustizia che non si persegue con i manifesti, né con i proclami di piazza.

Si dirà: “Ma la gente ha paura”. E sia. Ma un governo responsabile non alimenta la paura: la governa.

O peggio ancora, come accade, non lavora sulla percezione della paura, che in questo caso è frutto di una vergognosa propaganda razzista.

Si crea così una specie di spirale, rivolta — come detto — contro un nemico immaginario.

Non reale, ripetiamolo. Ma percepito come tale. Se questa è sicurezza, allora non ci resta che temere la sua ombra.

Chi governa seminando divisioni non porta ordine: prepara il terreno al caos. Chi strumentalizza la giustizia per fini di consenso, tradirà sempre la giustizia. E chi tace di fronte a questi manifesti — o peggio ancora, li approva — non è un cittadino consapevole: è un complice.

Carlo Gambescia
 

(*) Un nostro articolo in argomento qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/06/decreto-sicurezza-basta-non-essere-rom.html .

(**) Consultabile qui (p. 27): https://www.comune.roma.it/web-resources/cms/documents/Regolamento_Pubblicit_e_pubbliche_affissioni__DAC_141_2020.pdf .

(***) Qui una sintesi della vicenda: https://www.adnkronos.com/politica/roma-manifesti-lega-decreto-sicurezza-stop-campidoglio_2hbsz7Pvo0OSWo5Z3OgdPv .

sabato 26 luglio 2025

Palestina e Israele: la modernità tradita. Quel che Macron non capisce


 

Vorremmo che il lettore non fraintendesse quanto scriveremo: Israele ci sta a cuore. 

Però il destino dei palestinesi è questione complessa, come pure la politica di Israele, che solleva non poche obiezioni sul piano umanitario. Pertanto è necessario lasciare spazio al freddo ragionamento metapolitico.

Prima il fatto: Macron ha preso posizione, evocando il riconoscimento francese di uno stato palestinese.

Diciamo subito che ha fatto una cosa giusta e una sbagliata.

La cosa giusta è l’aver dimostrato indipendenza dalla scelta di Trump – che non ha gradito – di appoggiare, come sembra fino in fondo, l’espulsione dei palestinesi da Gaza, portata avanti da Netanyahu e dall’estrema destra israeliana che lo tiene politicamente in pugno. Inoltre, la presa di posizione di Macron  ha evidenziato la cecità della destra nativista e militarista, portatrice di idee pericolose, che vanno ben oltre la giusta e necessaria difesa di Israele.

La cosa sbagliata è il puntare, troppo frettolosamente, secondo la tradizione repubblicana francese, sullo stato-nazione. Il problema è che Hamas, diciamo i vertici del movimento,  non riflettono lo spirito di  Danton, né  i palestinesi quello del citoyen della Marsigliese. 

Al di là delle parate organizzate dall’alto, il senso dello stato-nazione, per i palestinesi – diciamo la base, la gente comune – semplicemente non esiste: si vuole vivere la propria vita, come prima della rivoluzione industriale, in modo fatalista e fondamentalista. Il palestinese – probabilmente non per propria responsabilità – non ha mai assimilato la modernità politica nella sua declinazione liberale: stato di diritto, separazione dei poteri, parlamentarismo.

Il che significa che l’idea di “due stati, due nazioni” implicherebbe soltanto la nascita di un nuovo scontro tra uno stato fondamentalista (la Palestina) e uno stato, almeno nella sua versione attuale, militarista (Israele). Un disastro.

Il problema di fondo della questione israelo-palestinese è la mancata secolarizzazione-integrazione dei palestinesi all’interno di uno stato israeliano multiculturale.

Sotto questo aspetto, il nazionalismo sia dei palestinesi sia degli israeliani non ha portato e non porterà mai a nulla di buono.Per capirsi: i palestinesi devono modernizzarsi, gli israeliani demilitarizzarsi. Si dirà che, in quest’ultimo caso, non è facile, vista la quantità di nemici che ha Israele. Come del resto non è semplice la modernizzazione del palestinese, cresciuto, suo malgrado, in un contesto segnato da ignoranza e ostilità verso gli ebrei.

Parliamo qui della modernità dei costumi e dell’economia. Una modernità a largo raggio, la cui aria rende liberi: dal fare impresa, al sindacalizzarsi, al cantare e ballare sui carri del Gay Pride. E pensiamo anche, naturalmente, alla politica. In quest’ultimo caso, guardiamo alla depoliticizzazione: come accaduto in molti paesi occidentali prima della seconda ondata nera populista e neofascista dell’ultimo decennio, quando la sana deideologizzazione della politica ancora permetteva, giustamente, di trasformare il nemico in semplice avversario.

Non ci si lasci ingannare: il piano di Trump, che immagina Gaza come una specie di Miami o Las Vegas, non tiene conto della auspicabile (ma anche necessaria) modernizzazione dei palestinesi. Trump ne auspica l’espulsione armata. Punto. Un progetto che coincide con le idee militariste di Netanyahu e dell’estrema destra che lo sostiene. Un disastro. E due.

Diciamo che Macron – errore che commettono in molti – crede basti proclamare uno stato-nazione (semplifichiamo) senza una precedente rivoluzione illuminista, capace di tenere a bada quelle forze di un deteriore romanticismo nazionalista, che nella prima metà del Novecento si tramutarono nel totalitarismo nazionalsocialista e nella caccia all’ebreo.

Una visione venatoria della politica che oggi rischia – e duole il cuore a dirlo – di trasformarsi nella caccia al palestinese. E, per tragico riflesso, anche all’ebreo.

Come uscirne?

Con la modernità. Israele deve recuperare la sua visione illuminista e laica, soprattutto politicamente parlando. E puntare sullo stato multiculturale. Va detto che, nonostante tutto, Israele ha già integrato, pur con criticità secondo alcuni, due milioni di cittadini arabi. Stesso discorso per la Palestina: l’arabo, come il contadino meridionale italiano del secondo dopoguerra, deve inurbarsi e trasformarsi in “milanese” e “torinese”.

Serve un’altra rivoluzione industriale? Purtroppo, Israele non è l’Inghilterra del Settecento, né la Francia manifatturiera e mercantile alle soglie della Rivoluzione francese.

E poi ci sono l’Iran e un Medio Oriente dilaniato dal fondamentalismo, nelle sue varie versioni sunnite e sciite. Non è facile parlare di illuminismo e libertà civili e politiche. Far cadere la spada può essere pericoloso per la stessa esistenza di Israele.

Resta però un fatto: la Marsigliese – se proprio la si deve cantare – impone una precedente rivoluzione borghese.

Concludendo, solo quando ebrei e palestinesi accetteranno l’idea che la modernità non è una concessione, ma una conquista condivisa, allora forse potrà nascere una pace reale. Fino ad allora, continueremo ad avere due popoli, due retoriche e un solo disastro.

Qualcuno lo spieghi al pur colto e intelligente Macron.

Carlo Gambescia

venerdì 25 luglio 2025

Meloni su “Time”. Una copertina non fa la liberal-democrazia

 


Non è nuovo “Time” a dedicare copertine ai Presidenti del Consiglio italiani: Silvio Berlusconi nel 2011 (“L’uomo dietro l’economia più pericolosa al mondo”), Mario Monti nel 2012 (“Può quest’uomo salvare l’Europa?”) e Matteo Salvini nel 2018 (“Il nuovo volto dell’Europa”).

Questa volta, però, il volto di Giorgia Meloni non appare sulla sola edizione europea, ma sulla copertina mondiale. Un’onorificenza mediatica che, in precedenza, era stata concessa solo a Mussolini nell’agosto del 1923, quando era al governo da meno di un anno, dopo quello che i fascisti chiamavano “rivoluzione” e che fu invece un vero colpo di stato. Brutto precedente.

L’intervista – firmata da Massimo Calabresi, capo dell’ufficio di Washington – s’intitola “Dove Giorgia Meloni sta conducendo l’Europa” e risale al 4 luglio, frutto di un colloquio avvenuto a Palazzo Chigi (*).

Nonostante il rilancio entusiasta dell’intervista in Italia, soprattutto negli ambienti di destra – in particolare FdI – come prova della notorietà internazionale della Meloni, i toni sono sì rispettosi, ma molto cauti, diremmo addirittura guardinghi.

Il succo potrebbe essere questo: Meloni si presenta come moderata e competente, ma il suo passato, i simboli che la circondano e le sue scelte politiche evocano le ombre più oscure della storia europea. Non è un’autocrate oggi, ma potrebbe contribuire a creare le condizioni per qualcosa di molto pericoloso.

L’intervista va letta. Anche perché, grazie all’abilità di Calabresi, emergono dettagli rivelatori della natura autentica di Giorgia Meloni. Basti la descrizione della sua postura: “braccia conserte e gambe incrociate”. Un atteggiamento difensivo e spocchioso, che i suoi sostenitori nobilitano come “stile diretto”.

Giorgia Meloni è fascista dentro, ideologicamente. Per rendersene conto, basta leggere il suo Io sono Giorgia, pubblicato nel 2021, quando era ancora alla soglia del potere. Ma già pronta a conquistarlo. Il libro contiene affermazioni reazionarie, a cui – cosa ancor più preoccupante – sembra credere sinceramente (***). Insomma, una nemica della liberal-democrazia.

Oggi si propone come mediatrice. Ma anche Mussolini, almeno inizialmente, mediò, posizionandosi al centro, tra le diverse anime del fascismo. Civettò persino con i liberali. Salvo poi consolidare e tenere stretto il potere fino all’ultimo. Per strapparglielo, fu necessaria la fucilazione.

 


Da Giorgia Meloni non verrà nulla di buono. Al di là delle dichiarazioni pro-Ucraina, pro-Occidente, eccetera, è pronta – alla prima occasione – a togliersi la maschera e mostrare il suo vero volto.

A proposito del suo libro, va ricordato che meno di un mese fa è uscito anche negli Stati Uniti, prefato dal figlio di Trump e pubblicato da Skyhorse, una casa editrice nata nel 2006. Non affiliata formalmente a nessun partito, certo, ma ben nota per le sue simpatie verso ambienti conservatori, anti-woke, persino reazionari e complottisti: un’eco familiare alla destra populista globale, se non apertamente criptofascista (***). Nessuna grande casa editrice, dunque. Nulla che certifichi una vera “legittimazione culturale” oltreoceano.

C’è da chiedersi, allora, se dietro l’operazione editoriale non ci sia stato anche un piccolo investimento personale. Magari un ordine di copie generoso, di quelli che aiutano a salire in classifica. Robetta in famiglia, per dirla alla buona.

Varrebbe forse la pena che qualche giornalista d’inchiesta desse un’occhiata ai bilanci della Fondazione Alleanza Nazionale. Un ente ricco, strategico, e saldamente sotto il controllo di Giorgia Meloni.

Naturalmente, quella economica è solo un’ipotesi. Per carità.

Ciò nonostante, come diceva uno che se ne intendeva… a pensar male si fa peccato. Però…

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://time.com/7304882/giorgia-meloni-interview/ .

(**) Qui: https://www.vanityfair.com/style/2020/09/skyhorse-publishings-house-of-horrors?srsltid=AfmBOooBkZXlDtL7j4Hyb81qd30mGjJR_a-cVDvAPvjOZM0VobKQ2U0z .

(***) Si veda l’ acuta analisi che ne fa la politologa Sofia Ventura: https://www.huffingtonpost.it/blog/2021/05/21/news/sicuri_di_aver_letto_bene_il_libro_di_giorgia_meloni_-5106953/ .

giovedì 24 luglio 2025

Riflessioni. Lo squadrismo digitale di Donald Trump

 


1. La nuova normalità della violenza digitale
Anche questo episodio è ormai alle spalle, digerito. Pensiamo al video falso, generato dall’intelligenza artificiale e pubblicato da Trump due giorni fa, in cui si vede Obama ammanettato. Di una violenza visuale unica.
 
Purtroppo c'è  assuefazione,  come fu per la violenza dello squadrismo fascista,  così è per lo squadrismo digitale. Del resto Mussolini difese sempre, fino all’ultimo, il ruolo terroristico dello squadrismo (*).Vi edificò, seppure grazie alla protezione nazista, il morto vivente della Repubblica di Salò: documento storico di guerra civile, autorizzata in alto. 

Trump, come Mussolini, usa e rivendica la violenza digitale contro coloro che ritiene nemici politici. I fascisti devastavano le sedi di giornali, partiti e sindacati; Trump e MAGA devastano l’immagine degli avversari, tramutati in nemici, seguendo la stessa logica della guerra civile e del terrore.

2. Il video come arma: umiliazione, disinformazione, mobilitazione
Il video, altamente manipolatorio, raffigura un ex Presidente degli Stati Uniti arrestato, prima in abiti civili, poi vestito da prigioniero in tuta arancione, sotto lo sguardo soddisfatto di Trump, mentre in sottofondo suonano brani come “Y.M.C.A.” e “Curb Your Enthusiasm”.

Il magnate l’ha pubblicato su Truth Social per rafforzare una retorica dell’intransigenza, secondo la quale Obama sarebbe responsabile di un “complotto traditore” per manipolare le elezioni del 2016.

Il video risponde a tre scopi: 1)l’umiliazione simbolica di Barack Obama, con l’unico intento di delegittimare e intimidire; 2)la disinformazione politica: la tesi del complotto è palesemente falsa; 3) la mobilitazione del suo elettorato e del movimento MAGA, anche come strategia di distrazione da crisi politiche (Epstein).

3. Lo squadrismo digitale come violenza simbolica
Siamo dinanzi a una pressione simbolica esercitata via social media, la quintessenza dell’azione collettiva digitale fondata sull’uso del terrore, simbolico, immateriale, ma altrettanto efficace di quello fascista, che invece era materiale e diretto.

Questo rientra in dinamiche tipiche dello squadrismo digitale: si amplifica un messaggio politico provocatorio e falso usando strumenti virali.

Il termine squadrismo digitale non ha ancora padri riconosciuti (**). Tuttavia, sembra il più adatto, sotto l’aspetto metapolitico, per definire il fenomeno: ci si muove all’interno di una precisa regolarità metapolitica, quella amico-nemico (***), che implica inevitabilmente l’uso della violenza — in questo caso digitale  — senza escludere, ovviamente, come nel caso della caccia al migrante scatenata da Trump (ad esempio in California), l’uso della violenza vera e propria.

4. L’immagine che sostituisce la realtà
Il termine può sembrare eccessivo? Eppure, si adatta perfettamente alla realtà che stiamo vivendo.

Si rifletta: cos’è infatti lo squadrismo, se non l’esercizio di una violenza politica simbolica, organizzata, sistematica? Una forma di pressione collettiva esercitata non tanto con il manganello, oggi, quanto con la tastiera, l’algoritmo, la viralità. Il nemico non si pesta, si delegittima. Non si zittisce con la paura fisica, ma con la paura di essere sommerso da una valanga di disprezzo digitale. E Trump, maestro nell’arte della comunicazione plebiscitaria, lo sa bene.

Sia chiaro: il video non è un errore. Non è uno “scherzo” sfuggito di mano. È un gesto politico a tutti gli effetti. Una messa in scena del potere, che ha lo scopo di rafforzare una narrativa fondata sulla frattura amico-nemico — dunque metapolitica — ormai ossessiva: il nemico, l’élite traditrice, il “deep state”, Obama come burattinaio della sinistra globale; e in Donald Trump, l’amico, unico difensore del popolo sovrano.

In questo senso, il video fake diventa l’equivalente contemporaneo della “spedizione punitiva” fascista: un atto dimostrativo, esemplare, destinato a fare scuola e a segnare il territorio.

L’intento non è solo propagandistico. Punta a tramutare in realtà ciò che non lo è ancora. Tecnicamente si dice gesto performativo. Mostrare Obama in manette non significa solo “dire” che è colpevole, ma fare come se lo fosse già. La finzione diventa realtà anticipata.

5. Dallo squadrismo storico alla guerra culturale
E chi guarda, chi condivide, chi inneggia nei commenti, partecipa a questo rito collettivo, dove verità e bugia si confondono fino a diventare secondarie. Conta il gesto, non il fatto. Conta l’impatto, non l’argomento. Come si dice oggi, il nuovo squadrismo è post-verità e si nutre di immagini più che di idee.

Un quadro comunicativo in cui la veridicità di un’informazione è secondaria rispetto al suo impatto emotivo e dove ciò che “funziona” comunicativamente, nel senso di rafforzamento di identità e credo, prevale su ciò che è vero.

Il fatto, come dicevamo nell’incipit, che già nessuno più ne parli, significa che la balena social, come quella di Pinocchio, ha fagocitato la “colpevolezza” di Obama, rendendola un dato acquisito nell’immaginario collettivo, metabolizzato senza discussione, e quindi ancora più pericoloso. L’immagine ha sostituito il ragionamento. E ciò che resta è l’impronta di una verità simulata, che nessuno più mette in dubbio, semplicemente perché è già stata “vista”.

6. Non solo Intelligenza Artificiale
In questo contesto, l’intelligenza artificiale è soltanto l’ultima arma di un arsenale che va ben oltre la tecnologia. È una forma di dominio sulla retorica pubblica, in chiave di intransigenza assoluta.

Siamo davanti a un potere che non si prende con la forza — o almeno non in modo esplicito — ma con la saturazione del senso.

Dai tempi dello squadrismo fascista, che aprì l’epoca della guerra civile europea (per gli Stati Uniti si potrebbe risalire alla guerra di Secessione e alla feroce cecità politica dei Sudisti), non si vedeva una violenza del genere.

Ripetiamo. Trump si riallaccia a una precisa tradizione di violenza politica, quella dello squadrismo fascista. Traduce in codice digitale quella logica del terrore e dell’umiliazione del nemico interno, del corpo da esporre come trofeo politico.

In fondo, ciò che importa non è che Obama venga davvero arrestato. Ma che lo sia stato simbolicamente.

Che la folla — quella stessa folla di like, condivisioni e commenti — abbia potuto assistere al momento catartico dell’“espulsione del traditore”.

Insomma Trump non è un uomo che guida un partito. Trump officia un culto. Non formula programmi, ma lavora sull’ immaginario. Un specie di pericoloso sciamano digitale che oggi — attraverso l’intelligenza artificiale e la logica virale — ha trovato il mezzo perfetto per incarnare, in tempo reale, una democrazia del sospetto, un populismo della vendetta.

Il video su Obama non è un episodio. È un sintomo. Forse anche un presagio. Di un potere che non chiede più il consenso, ma lo evoca e pretende. E lo ottiene con la gogna, non con il ragionamento.
 

Trump, metapoliticamente parlando, come reinventore dello squadrismo fascista in forma digitale, sa che oggi, per vincere, non serve convincere.
 

Basta creare un’immagine. E lasciarla esplodere nel buco nero dei social.

7. Pensare da soli: una forma di resistenza
Che fare, allora? Bella domanda. Ma forse mal posta.

Perché non si tratta — come troppo spesso si sente dire — di “regolare” l’intelligenza artificiale, “educare” gli utenti o “bloccare” le piattaforme. Sarebbe come combattere il manganello col regolamento del tennis.

Lo squadrismo digitale, come ogni fenomeno collettivo di violenza simbolica, affonda le radici in una cultura, non in una macchina. Quello che serve, piuttosto, è ricostruire il senso stesso del limite. Il senso del vero e del falso.

Ma non con corsi universitari di “pensiero critico”. Bensì attraverso una faticosa, quotidiana, forse persino impopolare, educazione liberale alla responsabilità individuale.

Dire “io non condivido”, “io non rilancio”, “io non partecipo” può sembrare poca cosa. Ma è proprio da lì che si inizia a spezzare la catena del branco.

E poi, naturalmente, servono élite culturali — sì, quella parola tanto odiata — capaci di resistere al fascino del linguaggio “facile”, dell’indignazione algoritmica, dell’effetto immediato. Intellettuali che parlino controvento, che non cerchino like, ma verità.

Perché oggi il coraggio, quello vero, non sta nel postare l’ennesima replica indignata. Sta nel rifiutarsi di entrare nel gioco.

In fondo, la risposta più profonda allo squadrismo digitale non è una legge, un filtro o una smentita. È la solitudine.

Quel gesto antico — e civile — del pensare da soli. E magari del tacere, quando tutti urlano.

Trump lo sa: l’immagine batte il pensiero. Ma proprio per questo, oggi più che mai, pensare è un atto di resistenza.

Carlo Gambescia

(*) Sull’elemento terroristico dello squadrismo fascista rinviamo alla classica opera di Emilio Gentile, Storia del fascismo, Editori Laterza, Bari-Roma 2022, pp. 109-112.

(**) Per individuare alcune tracce del concetto si vedano Gadi Luzzatto Voghera, Zoom, istruzioni e questioni (2021), qui: https://moked.it/blog/2021/01/29/zoom-istruzioni-e-questioni/; Wu Ming, Grillo cresce sulle macerie dei movimenti. Intervista (2013), qui: https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/03/intervista-a-wu-ming-grillo-cresce-sulle-macerie-dei-movimenti/ .

(***) Sul punto rinviamo al nostro Trattato di metapolitica, Edizioni Il Foglio, Piombino (LI) 2023, 2 voll.

mercoledì 23 luglio 2025

Fratelli d’Italia: Pasolini come Oriani

 


La cosa, a dire il vero, fa sorridere. La destra di Fratelli d’Italia – parente stretta di quella missina che fino all’ultimo ha bollato Pasolini come un degenerato – ora pretende di annoverarlo tra le proprie fila ideologiche.

Si è persino tenuto un convegno al Senato dove, presentando un libro del giornalista Gianfranco Palazzolo, di Radio Radicale (Il Parlamento contro Pasolini. Ostilità in forma di prosa verso PPP, Nuova Palomar), si è sostenuto apertamente che oggi Pasolini sarebbe uno dei loro (*).

Ed è qui che si scivola nel grottesco: si è arrivati persino a rivendicare, con enfasi, i meriti di un “fine intellettuale” come Teodoro Bontempo, detto “Er Pecora”, per aver riscoperto Pasolini in un convegno-dibattito organizzato nella sezione missina di Acca Larenzia… nel lontano 1988 (**).

Per inciso, esiste, tra i tanti volumi pubblicati su di lui, almeno un libro recente e originale su Pasolini: Pier Paolo Pasolini, il cinema, l’amore e Roma, di Patrizio Avella e Gordiano Lupi (Edizioni Il Foglio). Lo si legga, non è un ordine, però… Chiuso inciso.

Ora, tornando a noi, è vero: una certa simpatia della destra missina verso Pasolini c’è stata: si pensi a figure come Niccolai, o a giornalisti di valore come Accame e Baldoni. Ma di cosa si trattava in realtà?

Di una fascinazione per l’aspetto antisistemico del personaggio: nemico della partitocrazia, del capitalismo, nostalgico di un’Italia rurale, povera ma onesta.

Diciamola tutta: il Pasolini che piaceva era quello piccolo-borghese, capace di intercettare i sentimenti dei piccoli borghesi disillusi, soprattutto tra i giovani simpatizzanti del Movimento Sociale, insofferenti verso il doppiopetto di Almirante.

In sostanza, si apprezzava il suo odio contro il sistema, sorvolando però sul fatto che, per Pasolini, anche i missini facevano parte di quel sistema, visti come “Guardia Bianca” del capitale e della Democrazia Cristiana. Lo testimoniano chiaramente film come Salò e, seppure incompiuto, un romanzo come Petrolio.

Perciò parlare di appropriazione indebita è forse riduttivo. Sono cose che accadono, non tanto per mancanza di cultura, quanto per quella peculiare capacità del fascismo storico – e post-storico – di captare “spiriti della vigilia” un po’ ovunque, come si usava dire con toni altisonanti.

Prendiamo, ad esempio, Alfredo Oriani, scrittore oggi del tutto dimenticato, morto nel 1909. Il fascismo ne oscurò il lato libertario-romantico, valorizzandone solo la carica antiliberale e distorcendone il patriottismo in chiave nazionalista e imperialista. Mussolini arrivò a imporre la pubblicazione della sua Opera Omnia, con tagli e censure evidenti (***).

Insomma, la cultura erede del fascismo – oggi incarnata da Fratelli d’Italia – non è nuova a simili operazioni. Pasolini come Oriani? Perché no. Chissà se anche Giorgia Meloni, come fece il duce, patrocinerà un bel dì la pubblicazione delle opere complete di Pasolini…

Concludendo, cosa non secondaria: male ha fatto Palazzolo a prestarsi a questa pagliacciata. Con gente come Fratelli d’Italia, maestra nell’arte della mistificazione, non si dovrebbe mai abbassare la guardia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.secoloditalia.it/2025/07/la-destra-ricorda-pasolini-il-magnifico-in-senato-oggi-sarebbe-contrario-alleutanasia/   .

(**). La perla è di quell’aquila di Federico Mollicone, qui: https://www.secoloditalia.it/2025/07/pasolini-mollicone-finalmente-il-parlamento-ricuce-una-ferita-dopo-la-cacciata-dal-pci/?utm_source=content&utm_medium=related&utm_campaign=bottom .

(***) Sul punto si veda il solido studio, mai invecchiato, di Massimo Baioni, Il fascismo e Alfredo Oriani. Il Mito del precursore, Angelo Longo Editore, Ravenna 1988.

martedì 22 luglio 2025

Matteotti vilipeso. E il silenzio che grida

 


Una lapide profanata. Non una qualunque, ma quella dedicata a Giacomo Matteotti, deputato socialista riformista, ucciso dai sicari fascisti nel giugno del 1924. Si trova nel cuore di Roma, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, vicino alla sua abitazione di un tempo. Un simbolo di memoria e un martire civile.

I fatti. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2025, la lapide è stata oggetto di un grave atto vandalico: due targhe in marmo, tra cui quella del 1999 con l’epigrafe 'Uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai', sono state spezzate e abbandonate sul ciglio della strada, ritrovate attorno alle 7 del mattino. La polizia ha avviato le indagini per risalire agli autori. Al momento non ci sono prove dirette che colleghino l’episodio a gruppi dell’area di destra, ma la matrice ideologica resta un’ipotesi concreta, anche alla luce della simbologia e del significato della lapide presa di mira.

In un Paese liberale, democratico e dotato di memoria, una simile profanazione sarebbe bastata ad aprire ogni prima pagina, a scatenare indignazione diffusa, a richiedere parole solenni, atti ufficiali, prese di posizione bipartisan. Invece: nulla. O quasi.

Il Ministro della Cultura, Giuli, si è recato sul posto, pare in modo riservato. Gesto apprezzabile. Ma come se l’è cavata? “Un atto di viltà che inorridisce la nostra coscienza repubblicana e che non deve rimanere impunito.” Notare: “coscienza repubblicana” — non antifascista.

E Palazzo Chigi? Assente. Giorgia Meloni, che tanto si è spesa nel tentativo di presentare un volto istituzionale, europeista e – seppure in modo rapsodico – antifascista, ha perso un’occasione unica per dimostrarlo coi fatti. Bastava una dichiarazione. Un fiore. Un tweet. Nei quali è bravissima.Invece, silenzio.

Così come da parte dei vertici di Fratelli d’Italia, partito che mai come in questo caso avrebbe avuto il dovere morale – e simbolico – di dissociarsi con forza. E invece, nulla.

A parte Giuli, come detto, nessun atto di presenza, nessuna condanna netta, nessuna vera presa di distanza pubblica.

E se da destra il silenzio pesa come una colpa, da sinistra si è levato qualche sussurro, qualche reazione stanca e di maniera.

I quotidiani nazionali, come accennato, anche quelli di centrosinistra e addirittura di sinistra, non hanno aperto in prima pagina con la notizia. Il “Corriere”, “Repubblica”, “La Stampa”, “Il Fatto” — tutti incentrati su gossip politici, dossieraggi, campagne a favore o contro la magistratura, cronaca estiva e facezie varie. Matteotti? Relegato nelle pagine interne  o nelle  cronache locali, quando c’è (*).

Nulla che somigli a una vera mobilitazione morale. Come si diceva un tempo, delle grandi risposte dalle “colonne” di questo o quel grande quotidiano.

Valga per tutti, l’esempio di Capezzone, che tuttora si dice liberale e democratico, che su “Libero” se la prende non tanto con i vandali, ma con la sinistra pronta a speculare, dimenticando che quelle reazioni, in realtà, sono state flebili e quasi imbarazzate. Si chiama anche riflesso pavloviano antisinistra.

Anche sui social, che spesso anticipano o amplificano le tendenze dell’opinione pubblica, le reazioni sono state scarse, quasi assenti. Qualche post indignato, qualche commento isolato. Nessun moto collettivo, nessuna eco virale. Come se anche la memoria antifascista, un tempo radicata nella cultura civile, fosse diventata un peso da gestire in silenzio.

Perché questo mutismo? Questo silenzio che grida conformismo? Giacomo Matteotti è un pilastro della Repubblica. Se oggi possiamo parlare, scrivere, votare, è anche per quella sua voce solitaria che, in Parlamento, denunciò la violenza fascista quando ancora molti preferivano voltarsi dall’altra parte.

Un brutto segnale. Grave.

Se Matteotti non fa più notizia, allora vuol dire che l’Italia, a cominciare dai giornali, lo ha rimosso. Non solo la destra. Ma anche quella sinistra che si proclama erede dei suoi valori, che dovrebbe difendere la memoria della Resistenza, e invece oggi appare assuefatta, stanca, impigrita nel sonno del politicamente conveniente.

Non è questione di retorica. È questione di cultura politica liberale. Di identità democratica. Di simboli.

Perché in democrazia i simboli contano. E quando si lasciano decadere, quando si permettono atti vandalici senza reazione, quando non si ha il coraggio di aprire i giornali con un “vergogna”, si finisce per normalizzare. Si finisce per abituarsi.

E si spalanca la porta a un nuovo conformismo, più sottile, ma non meno pericoloso: quello che accetta, con fastidio, la memoria antifascista come un’anticaglia, un reperto, una “cosa da vecchi”. Che tristezza.

La lapide spezzata è un fatto.

Ma il fatto vero, più profondo, più inquietante, è questo: è l’Italia ad essersi incrinata.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.giornalone.it/ .

 

lunedì 21 luglio 2025

L’arte dei contrappesi: The Federalist e l’equilibrio possibile

 


In questi giorni, tra le varie cose che sto seguendo, ho trovato anche il tempo per rileggere — anzi, studiare — The Federalist Papers (abbreviato The Federalist), in una bella edizione italiana degli anni Cinquanta (*), affiancata a una versione in lingua inglese (**).

La mia prima lettura risale all’inizio degli anni Novanta, in piena tempesta leghista e crisi della Prima Repubblica, quando sentii il bisogno di tornare alle fonti del federalismo. All’epoca capii subito che il cosiddetto federalismo di Bossi, arricchito dal sapere politologico di Miglio, era in realtà confederalismo: qualcosa di totalmente diverso. In pratica, significava la fine dell’unità italiana.

Quanto all'Unione Europea, compresi,  ancora prima del varo della moneta unica,  che era una specie di ibrido: un incrocio istituzionale tra federalismo e confederalismo. Un indecisionimo chimerico che conserva tuttora. Da alcuni  ottimisti  presentato come un benefico compromesso funzionale.

The Federalist — una raccolta ragionata di 85 saggi scritti da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay — apparve nel 1788, in due volumi, durante il dibattito per la ratifica della Costituzione statunitense, elaborata dalla Convenzione di Filadelfia. La nuova Costituzione, ratificata nel 1789, promuoveva un governo centrale federale, opponendosi al confederalismo sancito dai precedenti Articoli della Confederazione del 1781, che rappresentavano una sorta di prima costituzione in senso debole, centrata sul predominio degli stati.

Questa seconda lettura si è trasformata in un appassionante studio di un grande classico della scienza politica. Il movente? Come trent'anni fa l’attualità: Trump, il movimento MAGA, e tutto ciò che sta accadendo negli Stati Uniti. Ho sentito  nuovamente la necessità di risalire alle fonti.

Diciamolo subito, per accantonare un ospite sgradito: Trump spezza l’equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo. Si comporta, per dirla con Hamilton, Madison e Jay, come un tiranno.

Detto questo, richiamo l’attenzione di chi legge su The Federalist come classico del pensiero politico, segnalando solo tre  punti, per stuzzicare l’appetito del lettore.

a) L’approccio riflette un sano realismo politico, che rinuncia all’utopia di “cambiare l’uomo”, preferendo invece sfruttare, in chiave costruttiva, i suoi limiti. Secondo una logica simile a quella della “mano invisibile”, si lascia che dal conflitto emerga una forma di armonia, non perfetta ma possibile. 

b) Da qui l’importanza attribuita alla “metrica” dei pesi e contrappesi, “checks and balances”, intesa come un sistema dove a ogni potere se ne oppone un altro, e così via, in un gioco di bilanciamento continuo. Ripetiamo, si chiama, tecnicamente,  "equilibrio dei poteri". Esecutivo, legislativo e giudiziario, sulla scorta della grande lezione di Montesquieu, sono concepiti come tre poli dinamici: nessuno deve mai prevalere in modo assoluto. L’equilibrio tra questi poteri è il fondamento della bontà del sistema.

c) Infine il criterio della democrazia rappresentativa, o democrazia dei moderni, regola una volta per tutte i conti con la democrazia diretta, o degli antichi. Un gesto di sana ragionevolezza e assolutamente innovativo, che l’antica Roma, a partire da quella repubblicana, per non parlare degli antichi Greci dediti al fratricidio, mai seppe risolvere: i tre milioni di americani non erano i cinquanta-sessantamila abitanti di una città-stato dell’antichità. Di qui la necessità di una risposta: l’idea di rappresentanza.

Diciamo pure che la principale lezione di The Federalist è di natura metapolitica, perché rimanda a una fondamentale regolarità: il federalismo, metapoliticamente parlando, è un fenomeno centripeto, il confederalismo centrifugo. Inutile mescolare e rimescolare le carte. O di qua o di là.  

Molto altro si potrebbe dire: l’opera di Hamilton, Madison e Jay è ricchissima. Ma per ora mi fermo qui.

Un’ultima osservazione. Altiero Spinelli, il padre del federalismo europeo, nel periodo del Manifesto di Ventotene scritto con Rossi e  Colorni, non studiò direttamente The Federalist anche perché da tempo confinato dal fascismo nell'isoletta pontina. Correva l'anno di grazia 1941. 

Perciò i suoi riferimenti furono prevalentemente europei: Proudhon, Kant, Coudenhove-Kalergi, Lionel Robbins e altri pensatori degli anni Trenta. In seguito, però, si avvicinò alle idee del federalismo americano, condividendole e adattandole al contesto europeo.
 

Meglio tardi che mai.

Carlo Gambescia

(*) A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista (Commento alla Costituzione degli Stati Uniti), introduzione di G. Ambrosini, appendici di G. Negri e M. D’Addio, traduzione di B.M. Tedeschini Lalli, Nistri-Lischi, Pisa 1955.

(**) A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, The Federalist (A Commentary on the Constitution of the United States), With an Introduction by E. Mead Merle, The Modern Library – Random House Inc., New York 1968.

domenica 20 luglio 2025

Contro il falso mito del popolo eletto: perché Israele non è la Germania nazista

 


Un vizio sempre più diffuso e pericoloso nel discorso pubblico contemporaneo è la grossolana equiparazione tra Israele e la Germania nazista, tra Netanyahu e Hitler, e tra ebraismo, sionismo e nazionalsocialismo.

A commettere questa forzatura ideologica non sono solo gli antisemiti di vecchia data, ma anche certe frange della sinistra radicale e della destra neofascista. 

A destra abbiamo ad esempio “National Action” nel Regno Unito, un gruppo neonazista dichiarato, sciolto dalle autorità nel 2016 ma che ha continuato a influenzare l’estrema destra europea con posizioni apertamente antisemite e revisioniste; “Alba Dorata” in Grecia, noto per il suo razzismo virulento e le violenze contro le minoranze, inclusi gli ebrei; “Vlaams Belang” in Belgio, partito di estrema destra con un passato di retoriche esclusive e critiche verso Israele che spesso sfociano in antisemitismo. In Italia, sebbene con meno evidenza, alcune accuse sono state mosse anche a “CasaPound”, a causa di dichiarazioni e atteggiamenti che hanno suscitato preoccupazioni su posizioni potenzialmente revisioniste o strumentalizzazioni del discorso sull’ebraismo. Anche in Spagna si segnala il caso di Isabel Peralta, giovane figura dell’estrema destra, che si autodefinisce nazionalsocialista ed esprime apertamente posizioni antisemite, guadagnandosi un certo seguito tra i neofascisti europei.

Quanto alla sinistra si pensi, come esempi ricorrenti ed eclatanti, a slogan come “Gaza = Auschwitz” in alcune manifestazioni europee, o ai paragoni di personaggi pubblici come Roger Waters – ex componente dei Pink Floyd, noto per le sue posizioni filopalestinesi – o di attivisti del movimento BDS (Boycott, Divestment and Sanctions), i quali parlano di “genocidio” in riferimento alla risposta militare israeliana a Gaza. Il pretesto? Il cosiddetto “mito del popolo eletto”.

Eppure, un’analisi appena più attenta – anche solo di base teologica – smonta in pochi istanti questa equazione infame.

Il concetto di “popolo eletto” nasce dalla rivelazione biblica e appartiene alla sfera spirituale, non politica. È un patto, non un programma. Un vincolo tra il popolo e Dio, non tra un partito e la nazione. Israele, nella tradizione ebraica, è chiamato a portare sulle spalle una responsabilità morale, non un destino imperiale. Essere “eletti” non significa essere “superiori”, ma “chiamati” a servire, a testimoniare, a soffrire per un ideale di giustizia. Tutto l’opposto di un’ideologia del dominio.

Il filosofo Emmanuel Lévinas in Totalità e Infinito (1961), pur non affrontando direttamente il tema, ci aiuta a capire come questa elezione sia anzitutto un’esigenza etica, una chiamata a riconoscere l’altro e a farsi responsabile della sua dignità, lontana da qualsiasi logica di supremazia o potere.

Quanto al sionismo, va collocato all’interno dei movimenti nazionali ottocenteschi, nati nel contesto delle lotte per l’autodeterminazione e il riscatto delle minoranze. Il sionismo, in questo senso, rappresenta una risposta legittima e pacifica all’emarginazione e alle persecuzioni subite dagli ebrei in Europa, mirando a creare uno Stato-nazione, presidiato dallo sviluppo di istituzioni liberali, per garantire sicurezza e dignità, senza alcuna pretesa imperialista o espansionistica.

Il nazismo, al contrario, come si può leggere in primis nel Mein Kampf, è fin dall’inizio una costruzione ideologica totalitaria, materialista, razziale, nemica assoluta del liberalismo, che fa dell’uomo-dio un principio assoluto e autodivinizzante. Il nazismo non si fonda su un patto con Dio, ma sull’idolatria del sangue e della terra. L’ebreo, proprio perché simbolo di un popolo spirituale, è stato per Hitler il nemico da annientare. E questo basterebbe a chiudere il discorso.

Va però detto, per chiarezza e onestà, che anche in seno allo Stato d’Israele esistono forze politiche – in particolare una destra ultrareligiosa e ultranazionalista, imbevuta di tradizionalismo ebraico – che rischiano di strumentalizzare il concetto di popolo eletto in chiave politico-identitaria.

Pensiamo ai partiti religiosi, da tempo  ago della bilancia alla Knesset, come Shas (sefardita, ultraortodosso) e Haredi Judaism (ashkenazita, altrettanto ultraortodosso). Entrambi si oppongono fermamente a ogni separazione tra religione e Stato, sostenendo una visione teocratica della sfera pubblica: dalla gestione del matrimonio e del divorzio, alla kasherut, al sabato e all’istruzione. Pur non essendo ideologicamente impegnati nel progetto sionista, e non avendo storicamente promosso in prima linea la colonizzazione dei territori occupati, questi partiti hanno spesso appoggiato governi favorevoli all’espansione degli insediamenti, in cambio di garanzie sui propri interessi religiosi e istituzionali.

Invece sul versante nazional-religioso, spicca  la coalizione di estrema destra  all'insegna del Sionismo  Religioso che riunisce formazioni come Tziyonut Datit, Otzma Yehudit e Noam. A differenza dei partiti ultraortodossi, questi gruppi uniscono il fondamentalismo religioso a un progetto politico esplicitamente sionista e territoriale, respingendo qualunque compromesso con i palestinesi. Tra i suoi esponenti, Itamar Ben-Gvir, attuale ministro della Sicurezza nazionale, è noto per le sue posizioni ultranazionaliste e anti-arabe. In passato ha espresso ammirazione per Baruch Goldstein, autore del massacro di Hebron del 1994, e ha militato in movimenti eredi dell’ideologia di Meir Kahane, bandita in Israele per razzismo.

Queste forze, oggi determinanti nei fragili equilibri parlamentari israeliani, forniscono a Netanyahu l’appoggio necessario per reggere un governo complesso e profondamente polarizzante. E proprio in questo contesto si avverte talvolta la tentazione – forse anche la deriva – di piegare l’idea di elezione divina a una logica di esclusione, privilegio etnico, dominio spirituale. Una torsione antiliberale di un concetto che nasce altrove, e che con la contingenza politica ha poco a che vedere. Un fatto che però va segnalato, perché la verità, anche quando scomoda, non si seleziona a piacimento.

Tutto ciò, però, non giustifica in alcun modo l’odiosa equiparazione tra Israele e la Germania nazista. Netanyahu, pur contestato, resta il leader di un governo eletto democraticamente. Sebbene, anche questo va detto, la sua coalizione sia la più a destra della storia d’Israele, promotrice di riforme giudiziarie contestate dai settori laici e liberali, con proteste di massa nel 2023, proprio per il timore di un’erosione dello Stato di diritto.

Le politiche di Netanyahu possono (e devono) essere criticate, come avviene in ogni sistema liberale, ma non è un dittatore. Non ha costruito forni crematori, non ha promulgato leggi razziali, non ha teorizzato uno sterminio etnico.

Va tuttavia ricordato che l’azione militare israeliana su Gaza ha sollevato interrogativi e accuse a livello internazionale, tra cui l’apertura di un’indagine da parte della Corte Penale Internazionale per presunti crimini di guerra, su entrambi i fronti.

Ciò però non significa che ogni critica a Israele sia antisemitica: è essenziale distinguere tra l’opposizione alle politiche governative e l’odio verso l’identità ebraica.La comparazione con Hitler è semplicemente un insulto alla verità e alla memoria. E chi la ripete, consapevolmente o meno, partecipa a un processo di banalizzazione del male e di demonizzazione dell’unico Stato ebraico del mondo. Processo che trova sponde tanto a destra quanto a sinistra, nell’alleanza impura degli estremismi.

Le estreme, come spesso accade, finiscono per incontrarsi nel disprezzo. Oggi lo fanno in quella che potremmo definire una teologia rovesciata dell’odio, dove il nemico non è solo Israele, ma l’ebraismo stesso come principio spirituale. I neofascisti disprezzano Israele perché non lo considerano abbastanza “etnico”, troppo legato a valori universali e liberali.

La sinistra radicale lo condanna perché, al contrario, sarebbe troppo identitario, troppo ebraico, troppo legato a una visione nazionale. Addirittura razzista e colonialista. In realtà ciò che davvero dà loro fastidio è l’idea che l’ebraismo incarni una chiamata morale, una vocazione trascendente, qualcosa che rifiuta la fusione indistinta dell’ideologia o del nichilismo. È questo – l’eredità spirituale dell’ebraismo nell’Occidente – il vero bersaglio comune delle estreme.

Qui sta il nodo della questione. L’attacco al concetto di “popolo eletto” è in fondo un attacco all’idea che possa esistere una vocazione morale universale, fondata su una verità non negoziabile. Perché l’ebreo, eletto non da se stesso ma da Dio, sfugge a ogni classificazione ideologica. È “altro” rispetto alle logiche mondane, e proprio per questo disturba.

Occorre tornare a distinguere tra spiritualità e ideologia, tra elezione divina e delirio di onnipotenza. L’ebraismo non ha mai preteso di imporre se stesso agli altri: ha piuttosto portato sulle proprie spalle il peso dell’incomprensione, dell’esilio, della persecuzione. Chi confonde l’elezione con la supremazia, non ha capito nulla. E chi accosta Israele al nazismo, non solo mente: tradisce la memoria.

In un’epoca di analfabetismo storico e spirituale, il compito dei pochi che ancora sanno leggere i segni dei tempi, per usare un linguaggio biblico, è resistere al pensiero semplificato, al cinismo ideologico, alla mistificazione della memoria.

Difendere la verità oggi non è solo un dovere intellettuale: è un atto morale. Il popolo eletto non è un popolo superiore, ma un popolo chiamato. E questa chiamata – radicata nella giustizia, nella responsabilità e nella sofferenza – è ciò che l’odio ideologico non può sopportare. Per questo, oggi più che mai, merita rispetto. E va difesa, anche a costo di essere impopolari.

Carlo Gambescia