Oggi cercheremo di andare oltre la questione dei dazi.
Si rifletta. L’espressione “volontà di potenza” può suonare antiquata a molti, soprattutto in un’epoca in cui si proclama la pace come fine ultimo della politica globale. Eppure, l’ascesa di Donald Trump segna il ritorno vistoso di una logica di forza all’interno della stessa società occidentale, ritenuta ormai “pacificata”. In sostanza, si afferma un principio brutale: “Sono forte, dunque impongo la mia volontà al mondo”. Anzi “ me lo prendo”.
Trump — e non pochi ancora non lo hanno capito — ragiona come un Luigi XIV: “Lo Stato sono io”. Nonostante il profilo istituzionale di tipo repubblicano, il magnate è portatore di un principio monarchico assoluto, a cui si somma un elemento di tipo demagogico e transtorico, che ritroviamo nel cesarismo, antico e moderno. Quest’ultimo è stato ben analizzato da Roberto Michels nella sua Sociologia del partito nella democrazia moderna (*).
Trump, come abbiamo scritto più volte, è animato da una volontà di potenza che rappresenta un elemento di discontinuità nella stessa storia politica degli Stati Uniti. Diciamo pure: una sorta di unicum.
E qui dispiace che molti americani che lo hanno votato abbiano dimenticato — o ignorato — questo passo fondamentale di The Federalist:
“Un’ambizione pericolosa si nasconde più spesso sotto la speciosa maschera dello zelatore dei diritti del popolo, che non sotto le difficili sembianze di chi si preoccupa della solidità e dell’efficienza del governo. (…) La maggior parte di coloro che hanno poi sovvertito la libertà delle repubbliche, hanno cominciato la loro carriera tributando al popolo un ossequio cortigiano: hanno cominciato da demagoghi e sono finiti tiranni”(**).
Questo passo — tanto chiaro quanto profetico — ci aiuta a comprendere un fenomeno che potremmo definire come “trionfo dell’ignoranza politica”: di una emotività naive, primitiveggiante. L’elezione di Trump non è stata un caso razionale, ma emotivo: l’effetto di una democrazia che, come avvertiva Bryan Caplan nel suo The Myth of the Rational Voter (***) tende a premiare la percezione sopra l’analisi, il pregiudizio sopra il dato, l’emozione sopra il ragionamento. E qui si torna al concetto di “democrazia emotiva” elaborato da Theodor Geiger (****).
Ci scusiamo per la digressione. Ma è tale solo in apparenza. Perché la venefica miscela chimico-politica tra assolutismo e demagogia va ben oltre la questione contingente dei dazi. Che oggi, peraltro, sembra spaventare molti: Trump ha appena proclamato che imporrà all’UE un dazio del 30 per cento. La pubblica opinione europea è in allarme.
Ma il vero punto è un altro: un destabilizzatore, animato da una colossale volontà di potenza, non si fermerà cedendo sui dazi. Ogni volta alzerà l’asticella.
Il suo obiettivo non è la difesa dei diritti del popolo, ma il diritto — inteso in senso brutale — di sottomettere e comandare gli altri popoli. Questo è il fatto nuovo rispetto sia alla storia americana, sia agli ultimi ottant’anni di relazioni internazionali.
Se non si comprende questa cesura, si continuerà a trattare Trump come un normale interlocutore, con cui si possa — prima o poi — trovare un’intesa. Ma Trump non vuole mediare. Vuole sottomettere. E non avrà pace finché — praticamente mai — non avrà perseguito il suo scopo. Che, ripetiamo, non è quello di trattare, ma di dominare.
Sul piano della politica mondiale, Russia, Cina, Europa non dovrebbero assolutamente fidarsi di un personaggio simile. Che andrebbe, idealmente, isolato, se non addirittura messo politicamente al tappeto. Contando magari su una riscossa delle forze liberal-democratiche americane.
Qui, però, la questione si complica. Perché Russia e Cina, a differenza dell’Europa, condividono in fondo gli stessi ideali di potenza che muovono Trump. Il che implica, allo stesso tempo, cooperazione su obiettivi limitati e conflitto su obiettivi imperiali.
Per capirsi: Ucraina, Israele, Iran rientrano nel quadro degli obiettivi limitati, pur sempre pedine di scambio. Al posto di Israele non dormiremmo sonni tranquilli. Quanto a Zelensky, è già sotto sfratto. Come, del resto, l’Iran.
Al momento, l’Europa, con i suoi pacifisti, i suoi aspiranti e zelanti schiavi trumpisti e putinisti, la sua credenza nelle trattative “all’acqua di rose”, la sua poca voglia di battersi, è tagliata fuori dal grande gioco del conflitto-cooperazione tra differenti volontà di potenza.
Concludendo: i dazi, per l’Europa, sono l’ultimo dei problemi.
Carlo Gambescia
(*) R. Michels, La sociologia del partito nella democrazia moderna, intr. di J.Linz, il Mulino, Bologna 1966.
(**) A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, Il Federalista, Nistri-Lischi, Pisa 1955, p. 52. Il passo è di Hamilton (n. 9).
(***) B. Caplan, The Myth of the Rational Voter: Why Democracies Choose Bad Policies, Princeton University Press, Princeton 2007.
(****) T. Geiger, Democrazia senza dogmi. La società tra sentimento e ragione (1963), in Id., Saggi sulla società industriale, a cura di P. Farneti, Utet, Torino 1970).

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