sabato 8 aprile 2017

La riflessione
Italia, un paese arretrato? Magari...



Oggi usiamo l’ascia intellettuale.  Non si potrebbe,  perché  si rischia di  semplificare troppo le cose. Perciò chiediamo scusa in anticipo al lettore. Veniamo subito al punto.   
A prima la vista,  la narrazione  -  per usare un termine in voga -   del’Italia "paese arretrato",  può essere pericolosa, e per due ragioni. La prima,  cognitiva,  perché rimanda a un’idea di frattura, di separatezza temporale, fra un prima e un dopo. La seconda, ideologica,  perché  l’idea di frattura può essere  usata in chiave politica  per "penalizzare"  gli “arretrati”,  liquidati come  "prigionieri" del  prima,  e   "premiare" invece coloro che sono ritenuti  al passo con i tempi, gli uomini "liberi"  del  dopo
E chi stabilisce ciò che viene prima e ciò che viene dopo?  Ciò che ha più valore, insomma? Difficile fissare il confine  una volta per tutte. Il discrimine viene fissato sempre in relazione ai valori condivisi.  Accontentiamoci però di un fatto, certo. Che il concetto di  arretratezza è ideologicamente polivalente e che, cosa importante,  indica, sorvolando sui contenuti storici, il possesso collettivo di una certa dose di creatività sociale.  Perciò,  benché  pericoloso dal punto di vista cognitivo e ideologico, può però essere utile dal punto di vista  sociale e politico. Indica, che esiste, in controtendenza,  un progetto teso a contrastare l'arretratezza, o comunque sia, almeno due idee di una data realtà storica.  Se si vuole,  per buttarla sullo spaghetti western, una ragione per vivere e  una per morire. Socialmente s'intende. 
Facciamo ora alcuni  esempi  dal punto di vista politico, per illustrare le differenti  interpretazioni dell’arretratezza italiana che si sono susseguite  sull'onda  delle rispettive  narrazioni "temporalmente" dominanti. Detto altrimenti: sulla scia di  quel  "politicamente corretto",  caratteristico di   ogni tempo. L’Italia  uscita dal Risorgimento, secondo la narrazione liberale, era unita,  sovrana e parlamentare, quindi  avanti politicamente, rispetto all’Italia  pre-unitaria, divisa in piccoli regni autocratici e bizzosi;  il fascismo, a sua volta,  secondo la narrazione in camicia nera,  proprio perché fondato sul partito unico (come si strombazzava), era invece  politicamente avanti  rispetto all’Italia liberale,  divisa in inutili  e corrotti  partiti, popolati  di chiacchieroni; per contro,  l’Italia repubblicana, secondo la narrazione  catto-comunista, era  avanti politicamente rispetto  all’Italia fascista, perché  "finalmente"  tornata alla libertà e al pluralismo partitico, però incorrotto e  dalla parte del popolo e  non  dei gerarchi fascisti, dei notabili liberali  e dei nobili reazionari .
La narrazione liberale era contro il legittimismo degli aristocratici; la narrazione fascista, anti-liberale e anti-legittimista; la narrazione catto-comunista andava contro quella fascista, liberale e legittimista.   
Cosa dire? Che esisteva comunque, distorta o meno, una qualche idea dell'Italia. Se si vuole, come anticipavamo,  un progetto rispetto al prima e al dopo.  E oggi? Chi è arretrato? Chi no?  Boh!
Ci spieghiamo meglio.   Il pericolo  legittimista, almeno così pare,   non è più alle porte, quindi silenzio. Del liberalismo si è persa traccia, o comunque, come si sente ripetere,   è  roba difficile,  da professori e cittadini informati, impone troppo senso di responsabilità individuale; il fascismo  è ridotto a quella macchietta da circo che prometteva di essere; il catto-comunismo a  teoria e pratica dello stato assistenziale e dell'individualismo protetto.
Insomma,  non c’è un prima. E neppure un dopo.  L’Italia non si interroga più, nel bene come nel male.  Vive alla giornata, immersa nel  presente senza fine: una condizione  letargica,  dove però si sogna il reddito di cittadinanza.  Di vivere a sbafo, insomma. Fuori dalla storia, fuori dall’Europa, fuori dal mondo.  
Ecco l’ultima narrazione italiana.  Che malinconia.   


Carlo Gambescia