giovedì 28 novembre 2013


Il libro della settimana: Giuseppe Bedeschi, La prima  Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile, Rubbettino 2013, pp. 354,  Euro 19,00. 


Non è facile indicare cosa leggere  sulla  storia della Repubblica,  in particolare  la Prima:  un  Titanic istituzionale apparentemente  indistruttibile  fino all'urto mortale contro l’iceberg Tangentopoli. 
In argomento, sono reperibili molti buoni libri, ma di solito consigliamo ad  amici, lettori, studenti  Una storia della Repubblica (Rizzoli) di Giano Accame, brillante scrittore e giornalista di destra  e  Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio) di Silvio Lanaro,  uomo di sinistra e acuto storico dell’Università di Padova. Tra l’altro, i due studiosi, oggi scomparsi,  si stimavano. Chissà, ora di lassù…
Accame si concentra magistralmente  sull’identità italiana, Lanaro sulle discontinuità sociali e antropologiche.  Cosicché i due libri si integrano  a vicenda. E  senza cadere nella retorica celebrativa o di parte  tratteggiano lo scrupoloso  affresco di  un popolo  che, in fin dei conti,  nel secondo dopoguerra  si è mostrato  più maturo della sua stessa classe politica.  Del resto che cosa ha  rappresentato Tangentopoli, al netto delle strumentalizzazione politiche e giudiziarie?   Se non  la disperata  richiesta  dal basso  di una nuova classe politica?  Finalmente  all’altezza di un’ Italia moderna, desiderosa di lavorare,  produrre, studiare,  inventare? E perché no,  anche divertirsi? 
Sul problema dell’inadeguatezza della classe politica si concentra invece il notevole  libro di  Giuseppe Bedeschi,  storico della filosofia che non ha bisogno di alcuna  presentazione,  La prima  Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile  (Rubbettino). Un testo che d’ora in avanti  consiglieremo  -  ecco il perché del  lungo  preambolo… - come  terza lettura “obbligatoria”, anche perché va a colmare un deficit per così dire politico, trattandosi dell’ opera  di uno studioso liberale.  
Ma c’è un altro aspetto da sottolineare. Come per i due libri ricordati,  anche il lavoro di Bedeschi è  interpretativo. Quindi per  un verso si fonda sull’uso  sapiente e discriminante di  ottime  fonti secondarie, per l’altro  prende slancio argomentando intorno a un’idea-forza storiografica.   Per farla breve: se l’opera di Accame indaga ildramatis personae, quella di Lanaro approfondisce  le strutture antropologiche e sociali, il  testo di  Bedeschi, come accennato,  allarga l’analisi  ai problemi   dell’integrazione  politica.  E con l’ occhio  di un  filosofo politico assai  attento ai  reali rapporti di forza.   Cosa vogliamo dire? Che Bedeschi, ottimo  storico della filosofia per l'occasione trasformatosi in  sagace storico della politica italiana,  riesce  ad affrontare e sciogliere  il nodo della difficile convivenza  tra concetti politici e pratica dei medesimi,  rimettendo  la filosofia politica di ispirazione liberale sulle forti  gambe di una analisi della politica concreta. Sotto questo punto di vista  il libro ha un eccellente valore metodologico.  
Il che spiega  pure  il dipanarsi della sua interpretazione  per grandi  blocchi concettuali,  ideologici e politici, puntualmente disattesi, come  si mostra,  nella prassi degli uomini  politici (non tutti, ovviamente) della Prima Repubblica:  dal  centrismo degasperiano, aperto alle istanze liberali  ma subito  entrato in agonia,  alla  graduale  ma comunque poco ragionata, per alcuni irragionevole, apertura dei post-dossettiani ai socialisti nenniani autonomisti per caso; dal centro-sinistra,  palestra per immaturi venditori di libretti dei sogni,  al compromesso  per niente storico  tra la Dc abbarbicata al potere  e  il  Pci berligueriano, ancora ideologicamente arcaico; per finire con il socialismo craxiano,  prometeico tentativo  di condizionare Pci e Dc,  culminato prosaicamente, via CAF, nella disastrosa  crociera senza ritorno di Tangentopoli.
Insomma, il dramma che abbiamo davanti  è quello di una «democrazia bloccata». Ma lasciamo la parola a Bedeschi: «Da Togliatti a Berlinguer […] il Pci, in tutte le sue componenti rimase sostanzialmente estraneo al mondo occidentale, alla democrazia occidentale. Il principale partito di opposizione […] restò sempre, sostanzialmente, un partito antisistema. E se a ciò  si aggiunge che anche la destra missina rimase, durante tutta la Prima Repubblica, nostalgica e fascista, il carattere “bloccato” della nostra democrazia  emerge in tutta la sua drammaticità».
Democrazia “bloccata”  è sinonimo di democrazia senza alternanza, ossia  di un sistema politico privo  della «grande [e] fondamentale risorsa dei sistemi liberaldemocratici». Dove  «chi viene sconfitto va all’opposizione, chi vince va al governo, e così via, seguendo, di volta in volta le scelte degli elettori.  In questo senso «l’alternanza è […] un grande strumento di ricambio dei ceti politici, e perciò di un loro irrobustimento ideale e pratico (nell’arte di governo)». Purtroppo, prosegue Bedeschi, «nell’Italia della Prima Repubblica tutto questo è mancato, con conseguenze gravissime: un partito la DC, e alcuni partiti suoi alleati, sono stati “condannati” a governare. Di qui una inamovibilità del ceto politico. Dei suoi grand commis   , dei suoi “esperti”, dei suoi tecnici ecc. Di qui, anche un continuo aumento della corruzione, grazie a quella inamovibilità. Questa è stata una delle tare più gravi della Prima Repubblica, sulla quale ho insistito più volte nelle pagine di questo libro» (pp. 337-338).
Bedeschi tocca, e brillantemente,  anche altre questioni. Ne ricordiamo solo alcune: la straripante e soffocante  cultura statalista della Democrazia cristiana  e del Partito comunista, non del tutto sgradita neppure al socialismo craxiano, un tema al quale sono dedicate pagine illuminanti; il controverso  dibattito  sul ruolo  del fascismo nella storia d’Italia e nella dialettica rifondativa repubblicana, argomento svolto con  misura, chiarezza e metro defeliciano; la questione non meno importante -  perché dal ritmo  binario… -   del collateralismo sindacale al Pci  e  dell’immaturità sociale di alcuni  grandi imprenditori e banchieri italiani;  la gracilità politica, nonostante il vivace impegno intellettuale, del liberalismo italiano nelle sue varie tendenze.  
Di grandissimo interesse -  un piccolo gioiello di analisi storiografica -  le dense  pagine dedicate al “lungo Sessantotto”, visto giustamente in certi suoi aspetti,  non secondari, come cesura storica dalle conseguenze negative.  Osserva  Bedeschi: « Si affermò nella mentalità del Sessantotto una profonda, irrimediabile frattura fra passato e presente, fra retaggio culturale e azione attuale, fra tradizione e impegno politico. Era un fatto nuovo nella storia italiana, che avrebbe avuto grandissime conseguenze negli anni a venire. Sorse infatti una forma mentis  che negava ogni rapporto fra le generazioni passate e quelle presenti. Il passato era solo da scomunicare e da rinnegare; esso non lasciava nessuna eredità da accogliere e da elaborare» (p. 204).

Un linea di frattura  prolungatasi, purtroppo,  nella cosiddetta Seconda Repubblica.  Ma questa è un’altra storia... Alla quale, ci auguriamo,  Giuseppe  Bedeschi  possa dedicare un nuovo libro,  altrettanto profondo e  interessante.  

Carlo Gambescia

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