mercoledì 11 gennaio 2012

Il concetto di limite, 
qualche  riflessione sociologica

Spesso si parla di limiti. Limiti allo sviluppo, alla politica, alla ricchezza, alla povertà, eccetera, eccetera. Il concetto di limite è ambiguo perché indica un confine, un grado estremo, un estensione assegnata a un certo movimento, comunque variabile o misurabile secondo il metro di  chi  stabilisca il confine, il grado, l’estensione. Insomma, il concetto di limite  ha un valore convenzionale. E il valore di una convenzione, non può non dipendere che  dalla volontà di coloro che vi aderiscono per varie ragioni, quattro su  tutte:  convinzione, timore, utilità, emulazione.
Naturalmente esistono limiti non convenzionali: ognuno di noi sa benissimo che un giorno dovrà morire. Il limite della vita umana non è  frutto di  una convenzione.  Ma si può dire la stessa cosa dei fenomeni socioculturali? Le società nascono si sviluppano e muoiono? È corretto trasporre i limiti (non  convenzionali) della vita umana nell’ambito dei fenomeni socioculturali?   Sì, almeno  secondo alcuni pensatori.  No, secondo altri.
Diciamo che il giudizio dipende da un fatto specifico:  l’adesione o meno a un visione ciclica o lineare della storia umana. La ciclicità, come ripetersi degli eventi socioculturali,  implica limiti, mentre la linearità, quale processo  ascensionale verso sorti migliori, li esclude.
Alcuni pensatori hanno creduto di risolvere il problema riconducendo la ciclicità ( segnata da  limiti) all’interno di una visione lineare della storia (priva di limiti) : le singole  società nascono e muoiono mentre  la società universale  non smette mai di procedere verso un futuro migliore. 

Comunque sia,  quando si parla di limiti è bene tenere presente queste tre diverse concezioni  dello “spazio” socioculturale. A chi dare ragione?  O meglio, da quale parte schierarsi?   La parola ai lettori. 

Carlo Gambescia

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