mercoledì 26 gennaio 2011

Liberalismo, il nemico?
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Su un punto destra radicale e sinistra dura e pura sembrano andare d’accordo. Quale? Che tutti i liberali siano arcifavorevoli alla sfrenata libertà mercato. Ma è vero? Dipende.



Mano visibile o invisibile?

Partiamo da una domanda apparentemente bizzarra: la rivoluzione industriale fu voluta dagli uomini oppure no?
Un dotto chierico, ad esempio Monsignor Fisichella, risponderebbe che, in ultima istanza, la rivoluzione industriale fu voluta dalla provvidenza. Un intelligente conservatore laico, come Sergio Romano, vi scorgerebbe il prezioso frutto del faticoso sviluppo delle istituzioni umane. Uno storico, sensibile al fascino del marxismo, come Luciano Canfora chiamerebbe in causa la volontà di predominio economico della classe borghese sulle altre. E un liberale come Hayek? Stupirebbe tutti, affermando che la rivoluzione industriale non fu voluta da nessuno. Perché? A suo avviso in quei febbrili anni della seconda metà del Settecento, gli inglesi inventavano, producevano e commerciavano, perseguendo i propri interessi, senza rendersi conto di ciò che stavano creando. Per capirlo ci volle almeno mezzo secolo, quando milioni di individui compresero, in pieno Ottocento di avere creato “inintenzionalmente” la società capitalistica e liberale. E per alcuni, i famigerati proletari di Marx, fu una brutta scoperta…
In realtà, l’ accoppiamento liberalismo-mano invisibile, così amato da Hayek, che implica la credenza nell’automatica composizione-trasformazione degli interessi privati in pubblici, fa sorgere il Bene (il giusto ordine sociale) dal Male (gli interessi, spesso egoistici dell’uomo). Una scelta discutibile, per due ragioni.
In primo luogo, perché a meno che non si abbia in tasca il segreto della storia, l’ordine capitalista e liberale non può essere considerato l’incarnazione finale del Bene sulla Terra. Probabilmente per alcuni è meno ingiusto di altri “ordini” storici, ma ciò non ha nessun valore morale assoluto.
In secondo luogo, una volta accettato il principio che dal Male può nascere il Bene, tutto diventa possibile: qualsiasi azione umana, anche spregevole, può essere giustificata a posteriori, ponendo come limite la sola “utilità sociale”, cioè la sua compatibilità con un ordine sociale ritenuto giusto, solo perché esistente.
In realtà, per tornare all’ “inintenzionalità” della Rivoluzione Industriale, va detto che senza l’espansione della potenza coloniale inglese, iniziata nel Cinquecento e imposta al popolo dai ceti dirigenti “modernizzatori” (borghesi e in parte aristocratici), difficilmente ci sarebbe stato così tanto progresso economico in Inghilterra. Pertanto la classe dirigente inglese sapeva benissimo quel che faceva. Altro che mano invisibile..
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Le eccezioni che non confermano la regola
Però - ecco il punto - non tutti i liberali accettano l’idea di armonizzazione automatica degli interessi particolari. Vanno così distinti - il lettore si allacci le cinture - quattro liberalismi.

Innanzitutto , va ricordato il “liberalismo liberista”. Si tratta di una corrente di pensiero che risale, saltellando tra i due, a Hume e Smith per poi giungere fino a Mises, Hayek e al primo Nozick, con il pendant, piuttosto imbarazzante, per la povertà di pensiero rispetto ai padri fondatori austriaci trasmigrati nell’Illinois, della scuola economica di Chicago (Friedman, Becker e minori che riducono l'uomo a un fantoccio economico). E’ un liberalismo giuridico-economico, fondato sull’idea di “stato minimo” ( o “guardiano notturno”) e sull’armonizzazione spontanea degli interessi. E, semplificando, che ama poco le tasse.
Dopo di che va citato il “liberalismo ultraliberista” (libertario o anarco-capitalista), che ha molti punti di contatto con la Scuola Austriaca. E che oggi è rappresentato da pensatori come Murray N. Rothbard e Walter Block, per citarne soltanto due. Se, tutto sommato, il libertarismo di Rothbard, resta ancorato a un’istanza etica, quello di Block è teratologico, dal momento che definisce legittime, e rientranti nella spontanea armonia degli interessi, le attività dell'usuraio e dello spacciatore perché non lederebbero i diritti di persone adulte e consenzienti… Gli ultraliberisti respingono persino l’idea di stato minimo, al quale sostituiscono, sconfinando nell’utopia, il libero esercizio pre-politico dei diritti individuali. In fondo, è un liberalismo naturalistico-darwiniano, basato anch’esso, e in modo ancora più esasperato, sulla composizione spontanea degli interessi. E che, per farla breve, se potesse, abolirebbe le tasse.
Inoltre - e tre - va segnalato il “liberalismo interventista” (o fiscalista) che nasce con Bentham, si sviluppa con John Stuart Mill e matura, forse troppo, con Keynes. Per questa corrente di pensiero, lo stato, oltre a farsi garante di leggi e diritti, deve favorire eguali condizioni “di partenza” per tutti i cittadini. Deve “intervenire”, e fin dove possibile livellare gli interessi attraverso il braccio fiscale. Appartengono al liberalismo interventista i contrattualisti, che pur differenziandosi dalla linea anticontrattualista (Hume-Bentham-Mill-economia del benessere), sono ben rappresentati da un gigante come Locke e (passando per Kant), da Rawls. E’ un liberalismo che ha molti punti di contatto con la socialdemocrazia. E qui si pensi a figure di liberalsocialisti come Bobbio e Dahrendorf. Insomma, siamo davanti a un liberalismo che vuole comporre artificialmente (attraverso l’ ”artificio” delle tasse elevate) gli interessi e condizioni, spesso molto diversi, dei cittadini. E che quindi ama, talvolta anche troppo, pigiare sull’acceleratore fiscale.
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Arrivano i nostri... O i loro?

Esiste infine un quarto liberalismo realista dal volto umano, perché respinge liberismo e ultraliberismo, senza però amare troppo l’ interventismo fiscale liberalsocialista.
Faremo solo alcuni nomi famosi: Tocqueville, Pareto, il Max Weber ardente liberale e nazionalista tedesco, Croce, Ortega, Röpke ( e l'economia sociale di mercato tedesca, invisa ad Hayek), Aron, Berlin e in parte Freund.
Per questi pensatori, in linea di principio, gli interessi non si compongono spontaneamente né artificialmente. Semplificando al massimo: per i liberali realisti il diritto di proprietà, senza una “decisione” politica” che lo introduca, e soprattutto una forza pubblica che lo sostenga, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. La “composizione degli interessi”, non è armonica né sociale, ma ha sempre natura politica: il contratto privato senza una spada “pubblica” che lo garantisca, può facilmente essere violato. Inoltre, per il liberalismo realista la costituzione scritta, che un popolo si è dato liberamente, rischia di restare un puro e semplice pezzo di carta, se alle spalle non ha un esecutivo coeso e deciso, capace di attuarla e all’occorrenza difenderla “politicamente”, anche usando la forza, dai suoi nemici interni ed esterni.
Il liberale politico, per dirla con Tocqueville, sa che la libertà umana è limitata, nel senso che “intorno a ogni uomo è tracciato un cerchio fatale che egli non può oltrepassare” neppure appellandosi al mercato. Ma sa pure che “dentro alla vasta circonferenza di quel cerchio, egli è potente e libero”.
Insomma, un liberalismo “tosto” che non abdica al mercato o al fiscalismo. Con il quale sarebbe necessario confrontarsi. Intanto sul piano intellettuale. Soprattutto per farla finita con certi stereotipi antiliberali da operetta. Perché è vero che una società non deve essere amministrata come un’ azienda. Ma neppure come una caserma o un soviet.

Carlo Gambescia 


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