mercoledì 27 febbraio 2008

Elezioni, economia, società

Giustizia distributiva o redistributiva? 




Sia Veltroni che Berlusconi spesso hanno accennano, e particolarmente in questi giorni di campagna elettorale, alla giustizia distributiva. Sarebbe perciò il caso di fare un minimo di chiarezza non solo su questo concetto ma anche su quello di giustizia redistributiva. E come? Il lettore non si spaventi: contestualizzandoli sociologicamente.
Certo, in tempi come questi, nei quali la pratica della chirurgia estetica di massa, gestita dal mercato, va sempre più diffondendosi, per la gioia dei borghesi piccoli piccoli, non è facile parlare di giustizia distributiva e redistributiva. Nessun timore: chi scrive non è improvvisamente impazzito, perché, come vedremo, tra questi due fatti in apparenza lontani, vi è un collegamento. Ma cerchiamo di essere più chiari: i due termini benché possano sembrare simili, in realtà hanno significati profondamente diversi. Vediamo quali,
La giustizia distributiva si concretizza con l’assegnazione a ciascuno di ciò che gli spetta secondo un certo principio valevole per tutti. La giustizia redistribuitiva, invece, si realizza correggendo (pur con intensità e modalità storiche diverse) le ingiustizie sociali. La giustizia distributiva privilegia la sfera dell’utilità o della funzionalità, mentre la giustizia redistribuitiva quella della moralità sociale o del consenso. Ma vediamo ora che cosa significa nella nostra società questa suddivisione concettuale.
Nella società capitalistica la giustizia distributiva è opera del mercato che, come spesso si legge, dà a ciascuno secondo le proprie capacità. Mentre quella redistribuitiva, ci dicono, è messa in atto dallo stato, che con la fiscalità finanzia i servizi sociali, dando a ciascuno, secondo bisogni fondamentali, spesso sanciti costituzionalmente.
Nelle democrazie occidentali del secondo dopoguerra il pendolo distribuzione/redistribuzione per circa trent’anni (dal 1945 al 1975: i“Gloriosi Trenta”) ha oscillato verso il polo della giustizia redistribuitiva, per poi cambiare direzione all’inizio degli anni Ottanta, volgendosi verso quello della giustizia distributiva e quindi del mercato. Con questo non vogliamo assolutamente sostenere che i “Gloriosi Trenta” siano stati l’apoteosi della socialità e della moralità sociale, il capitalismo è quel che è: nessuno dà nulla per nulla. Ma più laicamente, crediamo, che il mix pubblico-privato, tipico delle economie tardo-capitalistiche, in quegli anni, si tradusse in qualche briciola di benessere in più per i lavoratori, soprattutto negli anni Sessanta.
Il vero punto è invece un altro: di qui a qualche anno rischiano di sparire anche le briciole. Perché quanto più si estende la sfera del mercato – come sta avvenendo – tanto più si favorisce il predominio dell’utilità e della giustizia distributiva. Ognuno di noi rischia perciò di vedersi assegnato solo ciò che gli spetta sulla base (ecco il principio valevole per tutti) del proprio“peso” o utilità economica rispetto al funzionamento della “macchina capitalistica”. Che funziona male, o comunque per cicli (spesso con ricadute speculative); che moltiplica intorno sé la diseguaglianza, e che infine viene considerati, e non solo dai suoi esegeti, indistruttibile ed eterna.
Ecco perché oggi si parla sempre meno di giustizia redistribuitiva. La sfera del mercato, estendosi, va erodendo quella dello stato: la sfera della giustizia redistribuitiva e della moralità sociale, come criterio che consolida i rapporti tra classi e ceti sociali diversi. sono ridotte.
Del resto se l’unica forma ammessa di giustizia resta quella del mercato, o dell’utilità, e se solo attraverso il mercato – come proclamano i media– è possibile dare forma e concretezza ai propri diritti, che senso ha invocare la giustizia redistribuitiva?
Dal momento che grazie al mercato, e alla divisione“capitalistica” del lavoro, ciascuno di noi avrebbe quel che merita (attenzione, essere contro questo tipo di divisione non significa essere contro la divisione del lavoro come criterio sociologico).
Insomma, siamo davanti alla logica spietata della società come "impresa totale". Dove "nessun pasto può essere gratis", come scriveva provocatoriamente Milton Friedman. Di più: secondo i profeti del mercatismo neoliberista è giusto che i ricchi divengano più ricchi e i poveri più poveri. Perché i primi sono quelli che contribuiscono maggiormente alla crescita del sistema economico, mentre i secondi sarebbero solo di peso.
Ovviamente i politici si guardano bene dal dichiarare pubblicamente tutto ciò. Magari parlano di giustizia distributiva con riferimento al mercato, come avviene in questa campagna elettorale, dando per scontato che nessuno degli elettori riuscirà a capire il reale ( e terribile) significato delle loro parole. Che qui invece noi tentiamo di spiegare.
Anche perché la melassa mediatica che ci sommerge, cerca di nascondere i lati più ripugnanti della povertà. Si preferisce parlare della chirurgia estetica di massa, come conquista sociale (e così veniamo al nostro apparentemente strampalato quesito iniziale). Un “traguardo” che si può tagliare (guarda caso) solo a patto di essere “attivi su” e "flessibili" su un mercato, di cui devono però accettare preventivamente le ingiuste regole distributive. Se ci si passa la battuta, siamo davvero al “credere, obbedire e combattere”, ma questa volta per se stessi, e di riflesso, per il mercato capitalistico. Perché solo un lavoro sicuro consente il possesso di quel pugno di euro per sottoporsi all’intervento che finalmente ci farà belli come quei saltimbanchi e buffoni che animano, si fa per dire, le domeniche televisive a reti unificate.
Come se ciò non bastasse, si continua a celebrare il mercato capitalistico come la più alta forma di meritocrazia. E qui pensi ai continui accenni di Berlusconi e Veltroni a proposito del "necessario ritorno della meritocrazia". Omettendo però di ricordare due cose fondamentali.
In primo luogo, i meriti sono stabiliti in base a una scala di valori (efficienza, produttività, flessibilità, ecc.) fissata non da chi è in fondo o al centro della piramide sociale, ma da un grumo di occhiuti “custodi”del capitalismo: monopolisti, alti burocrati privati, avvocati d’affari, membri influenti delle grandi famiglie del capitalismo, ex capi di stato, economisti e politologi a gettone, speculatori finanziari, ecc.
In secondo luogo, quanto più si decantano le virtù del mercato, tanto meno si criticano i suoi vizi, che sono tanti, forse troppi. E, soprattutto, si rinuncia a correggerne le ingiustizie, attraverso politiche redistribuitive. Di quale tipo?
Introducendo, ad esempio, un “limite” all’arricchimento o comunque un’imposta, in ambito nazionale e (perché no?) continentale, sui grandi patrimoni e sui capitali borsistici speculativi. I cui proventi andrebbero a finanziare opere di utilità sociale (scuole, università, istituzioni culturali e di ricerca, poli sanitari, infrastrutture, ecc.)
Di solito alle nostre tesi vengono rivolte le seguenti critiche: per alcuni le politiche redistribuitive rischiano di uccidere il mercato; per altri si dovrebbe invece puntare su una giusta miscela di pubblico e privato. Insomma il trucco consiste – così ci spiegano – nello “spremere” senza uccidere lagallina dalle uova d’oro: il capitalismo.
Le cose però non sono così semplici.
Da un lato, la crisi delle politiche redistribuitive implica la crisi del consenso al sistema: più crescono le distanze sociali, più la società si disgrega, rischiando l' ingovernabilità. Mentre una saggia politica redistribuitiva imporrebbe una accorta riduzione delle distanze sociali.
Dall’altro lato, il capitalismo si è fatto talmente arrogante da meritare una lezione. E, crediamo, che solo dopo che avrà espulso le sue tossine speculative, si potrà cominciare a ragionare sul giusto mix di pubblico e privato. In tempi duri, niente mezze misure: probabilmente è giunto il momento di opporre all’utilitarismo distributivo del mercato, l’antiutilitarismo redistribuitivo dello stato o comunque di identità politiche capaci di tenere testa alla “rapacità” di pochi, ma potenti predoni.
Le grandi ricchezze e l’uso speculativo che ne viene fatto sui mercati finanziari mondiali offendono gli uomini, soprattutto i più poveri. Di qui la necessità di una nuova parola d’ordine per quei movimenti politici e sociali che aspirino a sfidare il principale tabù del nostro tempo, la ricchezza: "Lotta alle grandi fortune speculative e accorciamento delle distanze sociali!".
Una parola d'ordine nella quale Veltroni e soprattutto Berlusconi non si riconosceranno mai...

Carlo Gambescia 

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