martedì 12 febbraio 2008

Gruppi di pressione e "democrazia degli interessi"




Preferiamo trattare il problema dei rapporti tra confessioni religiose, società civile e potere politico in termini generali, senza entrare nel merito delle polemiche di questi giorni sugli interventi del Papa. O su altri gruppi religiosi che lamentano il pericolo di una ricorrente e crescente ostilità sociale verso le proprie credenze. Lasciamo perciò che siano i lettori a tirare le somme "politiche"di queste nostre riflessioni teoriche. O come ci piace ritenere "metapolitiche".
Le democrazie contemporanee, istituzionalmente, si reggono sulla dialettica degli interessi. Può piacere o meno ma è così. Semplificando: gli interessi hanno sostituito le passioni. Magari non ancora del tutto, ma comunque in larga parte. Potremmo perciò definire formalmente la democrazia attuale (quella dell’Occidente in particolare) come “democrazia degli interessi”.
Infatti la “regola degli interessi” verte su una (apparentemente) semplice proposizione politica: quanto maggiore è la dialettica tra i gruppi di pressione tanto maggiore è la democrazia. Ovviamente la dialettica implica la trasformazione preventiva, ma in chiave di crescente pluralismo sociale, dei differenti attori sociali in gruppi di pressione economica, sociale e culturale, eccetera. E dunque non di tipo militare.
Si sostiene infatti, ormai anche a livello assiomatico-mediatico, che quanto più una società risulta capace di “contrattare”pacificamente al suo interno i diversi interessi, tanto più riesce a ridurre il rischio del conflitto sociale e politico violento. Di qui però la necessità di fissare preventivamente regole “procedurali” affinché i “contratti” tra i diversi gruppi e le decisioni del potere politico possano avvenire, come si usa dire oggi, in modo "trasparente".
Denunciare un gruppo sociale, religioso, culturale, eccetera, perché si comporta come un gruppo di pressione è perciò in contrasto con qualsiasi democrazia che si regga sulla dialettica dei gruppi di pressione, fondata appunto sul conflitto regolato degli interessi. Dal momento che viene ritenuto normale che i vari gruppi sociali cerchino di influire lecitamente sulla decisione politica, come consentito dalle regole della “democrazia degli interessi”.
La situazione però si complica, quando un gruppo sociale, economico e culturale, vuole partecipare alla dialettica degli interessi, pretendendo però al tempo stesso che gli sia riconosciuto uno statuto giuridicamente superiore rispetto a quello degli altri gruppi di pressione, per ragioni storiche e morali; per farla breve valoriali. E perciò estranee in linea di principio - piaccia o meno - alla democrazia degli interessi.
Tuttavia appena lo statuto di superiorità viene concesso al gruppo in questione, gli altri gruppi sociali, economici e culturali discriminati, passano all’offensiva, invocando, per altrettanti ragioni di tipo storico e morale, l’estensione del riconoscimento e il riequilibrio degli interessi.
La democrazia degli interessi, al contrario di quel che comunemente si ritiene, implica perciò un forte potere politico, capace di imporre e far rispettare “regole” uguali per tutti, senza però limitare la libertà dei singoli cittadini e dei vari gruppi sociali. Il che nella realtà sociale, come è sotto gli occhi di tutti, non sempre è possibile per ragioni legate al carente spirito di autodisciplina dell’uomo, alla disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze, alla diversità culturale delle tradizioni storiche, alla qualità delle élite al potere, eccetera. Di qui il continuo conflitto, non sempre classificabile e "addomesticabile", tra i gruppi sociali e in particolare tra quei gruppi che si muovono sul confine tra gli interessi e i valori. Ma anche le grandi difficoltà di “regolazione”, da parte di un potere politico, che non può essere neutrale, dal momento che, di regola, nelle sue élite, a prescindere dalla qualità delle medesime, rispecchia, gli interessi ma anche i valori storicamente prevalenti, se non proprio dominanti.
Ecco allora che spesso le questioni di interesse, soprattutto dove un gruppo sociale, ad esempio religioso, si qualifica come principale “veicolo" di valori, si trasformano in conflitti, difficilmente “addomesticabili” attraverso il semplice contratto.
Quale soluzione?
Difficile dire. Il ritorno a una democrazia dei valori implica la preventiva comunione pubblica dei valori, non sempre conseguibile, dove sussistono molteplici tradizioni storiche, spesso fortemente conflittuali. Mentre procedere ulteriormente sulla via della democrazia degli interessi comporta il definitivo, e probabilmente coattivo, “raffreddamento” delle ultime isole di “passione” sociale. Il che, considerando che l’uomo non vive di solo di pane, ci sembra difficilmente attuabile, se non a caro prezzo per la libertà di tutti.
Ovviamente, e concludiamo, un potere incerto e sempre in bilico, tra le due forme di democrazia - e qui si pensi alla situazione italiana - perché aspira soprattutto a durare nel tempo, e a qualsiasi costo, contribuisce a rendere la dialettica, più generale, tra interessi e passioni, confusa e soprattutto sempre a rischio di degenerare in una guerra civile senza vincitori né vinti.


Carlo Gambescia

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