sabato 6 luglio 2024

La cultura di destra e la vittoria di Keir Starmer

 


La destra, oltretutto, è ignorante. Bella scoperta si dirà.

Senza fare riferimenti specifici ai vari giornali “organici” al governo Meloni, appena nota la vittoria del laburista Starmer, la prima reazione, diciamo all’unisono, è stata quella di evidenziare la responsabilità dei conservatori: “Troppo morbidi sui diritti civili, troppo liberisti, eccetera”.

Oggi però molti giornalisti di destra, inclusi alcuni direttori, si sono accorti che il Labour di Starmer è moderato, nulla in comune con la sinistra alla Corbyn e alla Mélenchon. Allora subito la musica è cambiata: “La sinistra italiana impari da quella britannica, eccetera”. Per dirla in francese: una figura di merda.

Per passare dal particolare all’universale, questa incultura della destra, soprattutto dalle radici fasciste, si esprime attraverso un provincialismo senza pari. Diciamo che è un’eredità nazionalista. Per fare un esempio macroscopico: chi ha studiato a fondo il fascismo? La destra. No Renzo De Felice, che proveniva da sinistra, convertitosi al liberalismo, o comunque al riformismo, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. Da destra, sono giunti solo studi apologetici o comunque molto di parte. Con una eccezione: A. James Gregor, un professore di scienze sociali, bravissimo, italo-statunitense, ma di formazione tipicamente americana. Conservatore (relativamente diciamo), che però, di sicuro,  non era un fascista.

Si prenda un altro esempio, Giuseppe Prezzolini, grande organizzatore culturale, eccellente divulgatore, vissuto per anni all’estero, in particolare negli Stati Uniti, per poi morire in Svizzera, Prezzolini non sprovincializzò la cultura americana, ma provincializzò (o comunque tentò) la cultura americana, sulle basi, sebbene intelligenti, di certa retorica nazionalista. Il suo incontro con il pragmatismo d’Oltreoceano fu qualcosa di occasionale, senza vere e proprie radici culturali, se non quelle, molto italiane, di un Machiavelli, come teorico dell’arte di arrangiarsi.

Per capire il significato di una vera e propria apertura al mondo, e agli Stati Uniti, si deve rileggere Cesare Pavese, il traduttore di Melville e il cultore di una rinnovata etnologia e storia della religioni. Un uomo di sinistra. Che studiava senza paraocchi nazionalisti. Come del resto Vittorini, altro scrittore, dalle radici siciliane ma universaliste. Come Sciascia, Bufalino, Tomasi di Lampedusa. Altro che Buttafuoco, che invece ha fatto sempre l’elogio del provincialismo.

La destra, per dirla sempre in francese, non sa un cazzo della Gran Bretagna. E’ rimasta ferma alla Sagra di Giarabub: “Ma la fine dell’Inghilterra incomincia da Giarabub…”. Oppure al mito della “Perfida Albione”, mito, tra l’altro, secondo alcuni, di origine napoleonica. Guai però a dirlo ai fascisti prima e dopo Mussolini, fanatici di quel Made in Italy che ai loro tempi si chiamava Autarchia.

Ieri, prima che arrivasse il contrordine, un cretinetto di destra, con pretese intellettuali, pontificava, sul fatto che la sconfitta dei conservatori britannici è figlia del rifiuto di fare la destra. Come per dire, che imparino dalla Meloni.

Certo, trecento anni di parlamentarismo, quindi di fair play ( o quasi) tra maggioranza e opposizione, in religioso silenzio dinanzi a Giorgia Meloni, andata a ripetizioni da Gennaro Sangiuliano e pronta a tramutare  il Parlamento nell’ufficio bolli del catasto.

Carlo Gambescia

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