venerdì 19 maggio 2023

G7 Hiroshima. A proposito di trattative

 


Sul piano strettamente politico l’idea di non combattere e di trattare, cioè di sostituire al campo di battaglia il tavolo circolare delle trattative, avrà più o meno un secolo. Su quello delle utopie forse di più.

Siamo davanti a un’idea ragionevole e nobile. Certe pagine kantiane al riguardo si rileggono sempre con piacere. Fanno bene allo spirito. Tuttavia, come del resto anche Kant sapeva, gli uomini non sono né ragionevoli né nobili. Se lo sono, lo sono in modo rapsodico. E purtroppo la politica – anzi diremmo la metapolitica – non può fare i conti con le cose come dovrebbero essere sul piano degli ideali, ma sulle cose come sono realmente sul piano storico e sociologico. Machiavelli la chiamava “realtà effettuale”.

L’ idea delle trattative sostitutive alla guerra,  inclusiva di strutture istituzionali apposite (ONU e prima ancora SdN),  prese particolare forza dopo la Seconda guerra mondiale. Anche se ancora non si capisce perché, visto che con Hitler non aveva funzionato.

A credervi tuttora non sono in molti: qualche uomo d’affari, gruppi pacifisti, i leader religiosi ma neppure tutti ( si pensi all’opposto pensiero del papa e del patriarca di Mosca sull’invasione russa dell’Ucraina).

Cosa ci dicono storia e sociologia, anzi cosa dice la metapolitica sul punto specifico? Ha un fondamento reale l’idea di sostituzione delle trattative al campo di battaglia?

Diciamo che fino al 1918 ha prevalso la forza. Idea in atto, per così dire, che ha animato gli uomini fin dall’ l’antichità greca e romana.

Di che idea parliamo? Quella di conquista e distruzione del nemico. Ma si potrebbe andare ancora più indietro fino alla natura offensiva (cioè di eliminare i nemici comuni) del primo trattato della storia, sancito ufficialmente, quello tra Egiziani e Ittiti (fine Secondo millennio a. C.).

Il cristianesimo ampliò, in chiave teologica, il concetto di armistizio o tregua (ma anche quello di guerra giusta). Concetto ovviamente  sconosciuto presso  altre civiltà  non cristiane,  ad esempio   Indiana e Cinese. 

Stesso discorso per l’Islam nelle due versioni araba e persiana. Inoltre non si confonda la  sincera volontà di trattare da pari a pari per amore della pace, con  la debolezza, cioè l’accettazione di trattative come sconfitta mascherata, come nel caso dell’estrema arrendevolezza di Greci, Romani, Ottomani, dinastie cinesi nelle fasi decadenza.

I principali trattati moderni (ricordiamo solo i principali): Vestfalia, Utrecht, Vienna, Versailles-Saint-Germain- Neuilly, eccetera, Parigi) rinviano al dopoguerra, non al durante o addirittura al prima della guerra.

Purtroppo l’ antico principio della vittoria, e se necessario distruzione del nemico, sembra tuttora dominare nonostante le buone intenzioni dei pacifisti.

Ovviamente, le buone intenzioni di pochi sono usate come paravento ideologico da parte dei governi per accusarsi reciprocamente di non volere la pace, di non volere trattare, eccetera. Puro gioco retorico. Razionalizzazione-realizzazione dei propri desiderata a spese del nemico.

Se da Hiroshima uscirà qualcosa di buono – ma non crediamo – non sarà perché Russia e Ucraina si sono convertite alla religione dell’ amore per la  pace universale,  ma perché la sulfurea e feroce dinamica della guerra ( i russi non pensavano di trovare una forte resistenza e di subire così tante perdite), potrebbe imporre un armistizio. Ça va sans dire per favorire la riorganizzazione delle parti in conflitto, eccetera, eccetera.

Invece è difficile dire se uno dei due contendenti fosse crollato subito, quale sarebbe stata la reazione del vincitore: la cosa dipendeva e dipende da alcuni precisi ma insondabili fattori: capacità di resistenza militare, peso dell’ideologia, senso della misura (o meno) dei leader.

Va comunque sottolineato che il caso delle trattative post sconfitta avrebbe confermato quanto abbiamo fin qui detto: che da qualche migliaio di anni si tratta dopo non prima, talvolta durante, ma sempre in chiave armistiziale, di tregua, quindi non di pace duratura. Cosa, quest’ultima, che l’esperienza metapolitica smentisce.

Pertanto che verrà fuori da Hiroshima? Nel migliore dei casi una fragile ipotesi di armistizio. In caso contrario, e qui a parlare non è lo studioso ma l’uomo che ha fatto una precisa scelta di campo, l’Occidente dovrà continuare ad armare l’Ucraina, fino a quando la Russia, mordendo il freno e accettando la sconfitta, non abbasserà le armi.

Allora sì, come insegna la metapolitica, che si potrà trattare.

Carlo Gambescia

giovedì 18 maggio 2023

Il medioevo ecologista

 


L’autodistruzione di una società storica non è  un fenomeno nuovo. 

Il processo è il seguente:  all'improvviso  si mettono in discussione i valori che hanno fatto forte una società. Per fare un esempio molto facile gli antichi  romani non volevano più combattere, quindi fare i romani, come i capitalisti di oggi non amano più il mercato, la concorrenza. Insomma non vogliono più  fare i capitalisti.

Perché? La società, alla fin fine, è un meccanismo auto-riproduttivo basato sul principio del minimo sforzo. Ci spieghiamo.

A un certo momento, sulla base della valutazione, ovviamente positiva, di ciò che si è raggiunto, si tende a tirare i remi in barca. Sicché il guerriero non combatte più e si affida ad altri, magari per occuparsi di letteratura e dei suoi bisogni spirituali. Si rammollisce. Mentre il capitalista, non compete, non investe, non innova, vuole godersi la vita, sbadiglia e si affida allo stato. Pareto parlava di “redditieri”. Un modo elegante per definire il capitalista smidollato.

Si perde la combattività: ci si illude che la società continui a riprodursi secondo le linee guida, diciamo eroiche, di prima. Invece la società continua a riprodursi ma solo per inerzia: si pretende di vivere di rendita mentre le rendite diminuiscono perché non si conquista e non si compete più. E così via fino al suicidio finale, frutto di cecità storica e sociologica. Magari si va a fondo con un “aiutino” dall’esterno: una guerra, una rivoluzione, un’ invasione, una conversione etica o religiosa collettiva.

Sotto quest’ultimo aspetto, l’ ecologismo è sulle orme del cristianesimo, dal momento che predica un’etica contraria a quella che ha fatto la forza della nostra civiltà. Si rifletta. I cristiani predicavano la pace in una società guerriera, gli ecologisti proclamano la pace economica in una società fondata sul conflitto concorrenziale.

Si rinnegano i valori fondanti e di conseguenza si minano le basi culturali della nostra società, favorendone la decadenza. Quanto stiamo per dire può sembrare azzardato dal punto di vista dei raffronti storici, ma la pace costantiniana, come accettazione del culto cristiano, e conseguente libertà di praticarlo, è addirittura un passo indietro rispetto all’attuale accettazione da parte dei governi dell’idea di “transizione ecologica”.

E ciò, ripetiamo, accade in Occidente, punto di avvio di una rivoluzione prima commerciale poi industriale, che ci ha fatto diventare ricchi, migliorando, per ricaduta, il tenore di vita anche dei popoli non occidentali. Un affare, per tutti.

Dicevamo un passo indietro. Perché? Costantino affermò la parità del cristianesimo con gli altri culti in un quadro ancora politeistico. Per contro i governi di oggi, sostenuti da una pubblica opinione di conversi, spesso invasati, procedono a passi da gigante verso il monoteismo ecologista. La chiusura dei “templi capitalistici” potrebbe essere vicina, più di quanto comunemente si creda. Sarebbe la fine della nostra civiltà.

A questo pensavamo, proprio ieri, osservando le reazioni collettive agli allagamenti in alcune parti dell’Italia. Roba da invasati. E parliamo della gente comune, non solo dei mass media.

Inutile dire: “Leggete Plinio il vecchio, la Naturalis Historia, studiate l’orografia (appenninica) dell’Italia, date un’occhiata alle prudenti leggi sul rimboschimento racchiuse nei codici Borbonici e alle cronache sul secolare malgoverno dei papi ( e non solo) nelle Romagne”.

“No – rispondono gli invasati – è tutta colpa del mutamento climatico e del capitalismo che lo causa”.

Che dire? Se continua così, la chiusura dei templi capitalistici è vicina.

Risparmiamo al lettore i raffronti storici con il buio medioevo. Ecologista.

Carlo Gambescia

mercoledì 17 maggio 2023

Fazio e la “merda” culturale della destra reazionaria

 


Nel dopo Fazio  rischia di  tornare  a galla tutta la “merda” culturale di certa destra reazionaria, per dirla con Marx (che però usava questo termine a proposito dei “processi di produzione” capitalistici). Il termine è volgare. Ci scusiamo con i lettori, ma non ne abbiamo trovato uno più calzante.

Il punto è che in Italia la destra reazionaria  non ha mai avuto, già  all’indomani della Rivoluzione francese, grandi pensatori.  Robetta o quasi insomma… Il che spiega il nostro termine…

Per fare paralleli con la Francia. Non vi fu un Joseph  de Maistre italiano. Monaldo Leopardi era una macchietta.

Solo per dirne un’altra: Taparelli d’Azeglio fu una rimasticatura di Bonald. Ma l’Italia non ebbe neppure giornalisti del calibro di Maurras: grande organizzatore politico, altro che Prezzolini che vedeva nemici ovunque e litigava con tutti. Infine, ecco l’atomica culturale: mai esistiti un Taine e un Renan italiani.

Ma non è mai apparso sui radar neppure un Sorel italiano. I sindacalisti rivoluzionari italiani, molti del quali confluirono nel fascismo, come del resto i nazionalisti (soffietto del nazionalismo francese), non furono che una pallidissima versione dei confratelli francesi. Leone e Labriola (Arturo), che invece scrissero libri non banali, non possono essere definiti né di destra, né fascisti. Julius Evola, infine, è una parafrasi di Joseph Arthur de Gobineau.

Ovviamente, restano Marinetti e D’Annunzio. Forse Malaparte e una penna preziosa come Ojetti.  Su Gentile, pensatore in stile destra storica, liberale costruttivista da stato etico e  fascista per caso,  forse caratterialmente,  sospendiamo il giudizio.  Comunque sia,  in due secoli, le figure ricordate sono proprio pochino.

Anche perché il dopoguerra italiano vede a destra il deserto. Con un’unica oasi: Longanesi. Che però non ha avuto eredi. Resterebbe Del Noce (Augusto), che in realtà, più che demaistriano, per sua stessa ammissione (in polemica amichevole con Bobbio), si autodefinì rosminiano: dicesi anche cattolico-liberale e difensore dell’uguaglianza cristiana. Del resto Del Noce, primo della classe – come asseriva Giano Accame, che giustamente la maggior parte delle “intelligenze scomode” le aveva scovate all’estero – tubò con tutti, anche con gli ultimi della classe (i neofascisti), ma non sposò nessuno.

Oggi la cultura di destra, quella del testimone di pietra fascista, non avendo nulla da dire, se non ovvietà tipo “dio, patria e famiglia”, se la prende con l’egemonia della sinistra. Di cui Fazio sarebbe l’ultima incarnazione salottiera. Per la serie la volpe e l’uva.

Fazio, può anche non piacere, ma è un grande professionista. Il che significa arte delle relazioni, possedere cultura senza farla pesare, non annoiare mai.

Ora, però,  la destra, questa destra controrivoluzionaria, all’uva-Rai c’è finalmente arrivata. 

Ma con alle spalle zero tituli… Fazio da chi verrà sostituito? Da Veneziani? O da Buttafuoco? Dal solipsismo mussoliniano e dai ritratti dei militi della Wehrmacht ricavati dai vecchi numeri di “Signal”?

Certo,  il solo pensiero di  Veneziani   in diretta  con Orbán e di  Buttafuoco a  quattr’occhi con Marine Le Pen, può muovere  il riso. Ma è un riso amaro.

In realtà, per dirla brutalmente, se la cultura libera si trova in mutande la colpa è anche dei liberali. Perché in Italia, dopo Einaudi e Croce, è mancata una vera cultura liberale. Il liberalismo italiano si è diviso, ancora più decisamente in una destra (che oggi appoggia il governo) e una sinistra (filosocialista), con non pochi professori (ma è vizietto anche della destra liberale) attenti alle virgole e agli accenti, ma poco alle ragioni della libertà. Alcuni fanno gli austriaci, altri i liberal, ma, tutti insieme,  se la fanno sotto. Perché "tengono" cattedra e famiglia.

Diciamo  distratti verso  la libertà a priori:  quella teorizzata da un pensatore come Hayek (pochissimo letto in Italia). Detto altrimenti: ognuno per sé e libertà per tutti. Una costituzione di massimo dieci articoli e tanta iniziativa individuale.

Purtroppo ai liberali italiani è mancato il coraggio, oltre che culturale, politico, di tipo thatcheriano. La Lady Ferro, dice la leggenda (ma fino a un certo punto), una volta, durante una riunione politica con i suoi,  sbattè  sul tavolo una copia di Legge, legislazione e libertà: “Ecco, leggete, ciò che dobbiamo fare è tutto dentro questo grande libro di Hayek”.

Dottrinarismo? Come quello di Guizot? Che poi cadde, più di centocinquant’anni fa. Forse. Però è meglio cadere sulle buone battaglie, che seguire la corrente. Si chiama anche liberalismo.

La parabola verso sinistra di una rivista liberale come “Il Mondo” e le solitarie battaglie dei radicali  sono i due volti di una crisi che ha lasciato spazio a un liberalismo politico destrorso, per una metà democristianizzato, e per l’altra confindustrializzato (ma neppure tanto).

È ovvio che in questo deserto per la sinistra sia stato facile avere partita vinta. E oggi che è in ritirata, torna a galla, eccetera, eccetera.

Carlo Gambescia

martedì 16 maggio 2023

L’invasione russa dell’ Ucraina e il ruolo degli intellettuali

 


Parlare del ruolo degli intellettuali è complicato, perché la figura stessa dell’ intellettuale presenta non pochi problemi, non solo definitori. Soprattutto sotto l'aspetto sociologico.

Il ruolo è qualcosa che viene attribuito socialmente, insieme allo status. Per capirsi: sei questo (status), allora devi fare questo (ruolo). Ad esempio sei un generale (status), allora combatti (ruolo), sei un insegnante, allora insegna, sei uno spazzino, allora, eccetera, eccetera.

Si può parlare dello status e del ruolo di un intellettuale? Di fatto non esistono. Come dicono i dizionari il termine è usato più come aggettivo che come sostantivo.

Oppure, altra cosa, l’intellettuale è parcellizzato in tante figure: un professore, un giornalista, uno scrittore, un artista, un regista, perfino un attore. Alla fin fine, per parafrasare il giovane Nanni Moretti, l'intellettuale è uno che vede gente, fa cose, prende appunti, eccetera,eccetera.

Ora, l’intellettuale, senza un vero status e un ruolo, come può influire socialmente? Diciamo oggi (lasciando da parte le questioni storiche)?

Trovando una collocazione. Possibilmente nei punti strategici sotto l’aspetto mediatico. Si pensi alla figura, molto in voga, dell’opinionista.

Fermo restando che sarà sempre difficile che le idee dell’intellettuale si trasformino in decisioni politiche, dal momento che i tempi della cultura (lunghi) e della politica (brevi), non collimano se non come mode politico-culturali che lasciano il tempo che trovano. Il che spiega, sia detto per inciso, la trasformazione dell’opinionista in influencer (ma questa è un’altra storia).

Però tempistiche a parte (tra cultura e politica), le decisioni politiche, come ogni decisione umana, producono conseguenze.

Pertanto, a filo di logica, per un intellettuale, produrre conseguenze, soprattutto nell’ immediatezza, è cosa molto difficile, se non impossibile.

A questo punto, si penserà – entrando finalmente nel merito del nostro articolo – dinanzi all’invasione russa dell’Ucraina un intellettuale cosa doveva fare? Proprio perché impotente doveva e deve tacere. Astenersi, non perché mancassero e manchino gli strumenti per capire, ma più semplicemente perché la politica è una cosa la cultura un’altra. Soprattutto la tempistica, come detto.

Però esiste una controindicazione: una volta che si è scelta di dire comunque la propria – cioè si discute della guerra, si soppesano le responsabilità dell’una e dell’altra parte, eccetera – parlare di neutralità intellettuale diventa inutile. Perché il solo soppesare le ragioni dell’una e dell’altra parte porterà inevitabilmente a dare ragione agli uni e torto agli altri e viceversa, o come si dice a dividere le responsabilità.

Posizione quest’ultima – secondo alcuni – addirittura salomonica.

In realtà non è proprio così. Si rifletta. Durante una guerra, che non è altro che  la prosecuzione della politica con altri mezzi, il semplice fermarsi a soppesare (qui torniamo alla diversità dei tempi tra cultura e politica), significa permettere che la sorte dei contendenti si decida sul campo. Però cosa significa questo? Che vincerà, il più forte, il più coraggioso, il più temerario, il più feroce e così via.

Pertanto, in termini di effetto di ricaduta, non si può parlare di una vera neutralità. Come abbiamo detto la vera neutralità è restare fuori e continuare a fare le proprie cose come se nulla fosse. Il che però la dice lunga sulla natura autodistruttiva del puro uso dell’intelletto. Perché la neutralità allo stato puro lascia le cose come sono, nel bene come nel male. Certo, la ricordata differenza dei tempi tra cultura e politica, può diluire fino ad annullare l’influsso sugli eventi della scelta interventista o neutralista.

Però si rifletta su un punto. Negli anni Trenta del Novecento – non ci si faccia sedurre dal pacifismo di un pugno di intellettuali di sinistra, a quel tempo totalitari quanto i loro nemici di destra – il neutralismo di larghissima parte degli intellettuali lasciò il campo libero alla politica. Sul punto esiste una letteratura sterminata. E finì come tutti sappiamo. Con una catastrofica guerra mondiale.

Se invece di battersi il petto per la pace strizzando l’occhio al comunismo, si fosse affrontato subito Hitler, forse le cose sarebbero andate diversamente. Oppure no. Il forse quando si parla di storia è sempre d’obbligo. Anche per quanto dicevamo a proposito della differenza di tempi tra cultura e politica. Sebbene la storia qualche cosina dovrebbe pure insegnare…

E purtroppo, oggi, sta accadendo la stessa cosa: chi parla di pace, di follia, eccetera, atteggiandosi a neutralista, magari in buona fede per carità, strizza l’occhio ai russi. Oggettivamente. Brutta parola, ma non ne conosciamo altre che calzino così bene.

Allora qual è il ruolo degli intellettuali, dopo l’invasione russa dell’Ucraina? Chi ritenga che Putin sia della stessa stoffa di Hitler non può non schierarsi con Kiev. Chi invece lo ritenga una specie di Dolfuss appoggi pure Mosca.

Però, ecco il punto, in tutti e due i casi lo si dica apertamente.

Carlo Gambescia

lunedì 15 maggio 2023

L’occupazione a mano armata della Rai

 


Chiediamo scusa per l’insistenza, ma la destraccia neomissina di Fratelli d’Italia sta occupando la Rai, con lo stesso piglio “carroarmatesco” con il quale Hitler un tempo invase la Polonia. Un’occupazione manu militari. Detto altrimenti:  a mano armata.

La gente comune neppure si rende di quel che sta succedendo. Al massimo, scuote le spalle. “Cose da giornalisti”.. “Tutti venduti”… E così via.

In realtà ci permettiamo di dire una cosa che forse  un  giorno assumerà il sapore della profezia.

Fazio  ha lasciato  la Rai. Ma anche Vespa è a rischio. Parliamo di  un vero genio della televisione capace di inventarsi uno speciale su Zelensky dall’Altare della Patria, invitando però – attenzione – testate e reti concorrenti. Ecco il liberalismo di Bruno Vespa. Per ora in sintonia con la politica neo-atlantista di Giorgia Meloni. E quindi tollerato. Ma domani?

Se Giorgia Meloni dovesse cambiare idea, visto che, culturalmente parlando, è rimasta missina, e perciò anti-americana e nazionalista. Si noti a tale proposito come ha sfruttato la visita di Zelensky in chiave antifrancese, dipingendo l’Italia – neanche tre mesi dopo il mancato incontro con Zelenzky, allora “parigino” – come il principale alleato europeo dell’Ucraina: questa è Giorgia Meloni, leader di un partito, che definiamo neomissino, perché con il fascismo ha mantenuto lo stesso rapporto, diciamo confidenziale, che aveva con  il famigerato Ventennio  il Movimento Sociale Italiano. Partito, mai dimenticarlo,  fondato da un gruppo di reduci della Repubblica di Salò. Quindi un partito ancora più estremista  del fascismo caduto il 25 Luglio.

E la Rai che fa? Come Garibaldi obbedisce. Anche il Tg di Rai 3 resta molto cauto, si omette qualche cosina, si fa una leggera fronda, una “frondina” Che, francamente, è pochino. Vedere per credere. Per ora il Tg3 finisce in “ino”.

E qui veniamo al punto: riempire la Rai di simpatizzanti di Mussolini e cacciare via o spingere all'addio  Fazio, che poi è  la stessa cosa, significa: 1) fare fuori un grande professionista, che può piacere o non piacere, ma tale resta; 2) essere privi di qualsiasi spirito liberale.

Per capirsi, Vespa – altro grande professionista, ripetiamo – non è sicuramente un uomo di sinistra, ma resta comunque un liberale: allo speciale ha invitato tutti. Giorgia Meloni che è fascista dentro vuole cacciare via tutti per “poltronizzare” i suoi fedelissimi. Cosa vogliamo dire?  Che Vespa, liberale, Fazio lo avrebbe  tenuto.

Si può replicare, che Fazio, rispetto a Vespa, è più sbilanciato a sinistra. E che pure la sinistra ha lottizzato in Rai. Esatto. Però qui si sta andando al di là della  lottizzazione. Il rischio, oltre alla programmazione, già nelle  mani sudate di qualche servitore azzimato e palestrato, è quello della tabula rasa a livello informativo: con due reti fascio-leghiste e una rete frondista all’acqua di rose. Che abbaierà a comando della zarina, che regna e governa da Palazzo Chigi.

Si dirà che la Rai non conta nulla, esistono i social, eccetera, eccetera. Il che è vero. Ma fino a un certo punto, perché Viale Mazzini, comunque la si metta, è sempre in cima agli ascolti (tg e programmazione), con una media di ascolti giornalieri, in prime time (fascia oraria tra le 20.30 e le 22.30), pari a 7,53 milioni (39,4% share), contro i 7,19 di Mediaset (37,6% share). E Mediaset non è sicuramente di sinistra. Perciò si  provi  a immaginare  che razza di bombardamento fascio-destrorso – “Tutto va ben Signora la Marchesa” – rischiano quasi quindici milioni di italiani (*).

E nessuno alza un dito. Che tristezza.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.startmag.it/economia-on-demand/rai-mediaset-e-la7-quali-tg-perdono-piu-spettatori-report-agcom/

domenica 14 maggio 2023

Un popolo di piagnoni e di codardi

 


Perché ieri, stando almeno alle immagini trasmesse, Zelensky non è stato accolto dai romani come si doveva? Perché, come si dice,  non c’era "popolo"?

Certo, la giornata era piovosa, i controlli di sicurezza stringenti, gli spostamenti rapidi. Però, a parte una rappresentanza di ucraini residenti a Roma, la visita romana di Zelensky sembra essere scivolata addosso ai romani. E pensiamo anche agli italiani.

Neppure uno striscione. L’unico era contro… Parleremmo di un’indifferenza che in fondo non è proprio tale perché dettata dai timori per il futuro. Un ospite non proprio gradito perché parla di una guerra di cui non si vuole  parlare, né sentir parlare.

Zelenzky – comunque la si pensi – rappresenta un richiamo alla realtà. E gli italiani, da molti anni ormai, preferiscono non fare i conti con la guerra.

Perché? Le guerre perdute, come l’ultima, spezzano, inevitabilmente, la spina dorsale dei popoli, come pure quelle vinte favoriscono il militarismo. L’Italia, poi, ha subito una divisione nella divisione, a causa della guerra fascista, di aggressione e dalla parte sbagliata. Guerra che perciò ha spezzato per ben due volte la spina dorsale degli italiani: guerra perduta e contro la liberal-democrazia.

A dire il vero, storicamente parlando, non c’è mai equilibrio tra pace e guerra. Se si vuole, semplificando, tra pacifismo e militarismo. Quando lo si raggiunge è sempre frutto, ovviamente dopo le guerre, di compromessi politici e militari che possono durare più o meno a lungo. Il che significa che la guerra, piaccia o meno, è sempre in agguato. E bisogna essere attrezzati, moralmente attrezzati, senza ricadere, ovviamente, nel militarismo. Purtroppo, come recitano i versi di una canzonetta, “Vita difficile, Felicità a momenti”. Quindi, quando necessario, si deve combattere.

L’Italia è nella fase “spina dorsale spezzata”, (per giunta due volte), di conseguenza, non vuole combattere, anche a costo di sottomettersi al nemico.

Un recente sondaggio parla chiaro, otto italiani su dieci sono contrari all’invio di armi, un italiano su due non si schiera, due italiani su cinque sono per far cessare il prima possibile le ostilità, anche a costo di perdite territoriali per l’Ucraina (*).

Figurarsi la reazione di un popolo di piagnoni e di codardi ( non conosciamo altri termini), capace solo di scaldarsi contro i migranti e per i parcheggi liberi, quando, nello scenario del Vittoriano, monumento che non piace agli italiani ( i romani, irrispettosamente, lo chiamano “Macchina per scrivere”), Zelensky, ospite dello speciale di Vespa, ha usato la frusta.

«Io non so cosa significa la vittoria per la gente che ha perso i propri figli in battaglia […]. Sono anziani che hanno sepolto giovani e figli che sono andati a combattere e a morire per la nostra nazione […]. La vittoria non sono solo i territori. Noi vogliamo la giustizia, la esigiamo e vogliamo la pace, ma vogliamo una pace giusta. Per molte persone è importante ottenere questo […]. Se l’Ucraina cade, il passo successivo è la Moldavia e poi i Paesi baltici. Putin arriva lì, forse non Italia, ma i Paesi baltici sono membri della Nato e voi dovrete mandare lì in guerra i vostri figli» (**).

Ecco cosa significa avere la schiena dritta e la spina dorsale intatta.

Carlo Gambescia


(*) Qui: https://www.ipsos.com/it-it/russia-ucraina-ultime-news-italiani-riducono-timori-scoppio-terza-guerra-mondiale-3-monitoraggio-ipsos .

(**) Qui: https://www.open.online/2023/05/13/zelensky-intervista-bruno-vespa/ .

sabato 13 maggio 2023

Gian Marco Chiocci verso il Tg1. La Rai degli impuniti

 


La cosa è grossa. Il fatto che Gian Marco Chiocci sia in predicato di diventare direttore  del Tg1 significa solo una cosa: che questa destra si fa beffe dell’antifascismo.  

Se, come si dice, Chiocci sarà nominato direttore,   Mussolini  tornerà nelle case degli italiani. Più amato di  una famosa cucina.

Esageriamo? Si vedano ai link sotto segnalati due copertine tipo di quando Chiocci dirigeva “Il Tempo”… Pro Mussolini e contro i migranti. Si vedano pure i nostri articoli diciamo così, preveggenti (*).

“Domani” tira fuori presunte storie sulla Meloni e possibili “affari di famiglia” in Spagna (**). Non crediamo sia la strada giusta per combattere questa gente. Non sappiamo suggerire come. Tuttavia, di una cosa siamo sicuri: il fango contribuirà a fare di Giorgia Meloni una vittima in stile Berlusconi. Probabilmente il precedente direttore di “Domani” non voleva prestarsi al  gioco. E De Benedetti lo ha licenziato. Se costoro sono gli avversari della Meloni siamo messi proprio male.

Anche perché, ripetiamo, la possibile nomina di Chiocci al Tg1 – passato dopo “Il Tempo”, come direttore, per il calderone fascio-socialista Adnkronos – significa che Fratelli d’Italia non  teme  nessuno.  A Roma, certa gente viene definita “impunita”. In italiano si dice sfacciato.

Si osservi attentamente l’espressione della Meloni, quando mena il can per l’aia, rovesciando, di fatto, sugli avversari responsabilità politiche che invece sono sue. Un’impunita.

La pesante eredità fascista e razzista, agli atti della storia, viene regolarmente dipinta come un’invenzione degli avversari per non far governare chi eletto democraticamente dal popolo. Le stesse cose che diceva Hitler poco prima di prendere il potere. Serve una bella faccia tosta.

Con Chiocci al Tg1 avremo il telegiornale degli impuniti. Anzi, se continua così, la Rai degli impuniti.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2015/08/suprematisti-allamatriciana-che-tempo.html ; https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2017/12/mussolini-chiocci-e-veneziani-pastorale.html .

(**) Qui: https://www.editorialedomani.it/fatti/meloni-e-gli-affari-di-famiglia-tra-spagna-e-soci-misteriosi-qhtlvfdo .

venerdì 12 maggio 2023

Un giornalismo che “tiene famiglia”

 


Chi scrive ricorda battute e risate in redazione, al limite del cinismo, anzi spesso oltre, su poveri disgraziati. Ovviamente, anche punte di moralismi un tanto al chilo, salvo poi scrivere, soprattutto in politica, l’eterno articolo cerchiobottista: “ Oh, è il quarto pezzo di oggi”. Capirete che fatica, per uno che fa il giornalista di professione…

Però, finché il cinismo restava nelle redazioni, diciamo allo stato liquido, la cosa non era preoccupante. Fisiologica. È con Tangentopoli che cambiarono le cose. I moralisti presero il potere nelle redazioni. Però a corrente alternata. Se la vittima era di destra, giù botte. Se invece di sinistra, sorrisi e pacche sulle spalle. E poi quel ripetere di continuo: “Ma quali assoluzioni… La moglie di Cesare non deve essere toccata neppure dal sospetto”.

Un principio, lo ammetto, che, sebbene esplicitato fin troppo, ha un senso e un valore, soprattutto quando si tratta di funzionari pubblici e di ruoli e incarichi delicatissimi. Però deve valere sempre, con tutti, a prescindere dalle preferenze politiche.

Detto questo, quel che merita attenzione è il silenzio della destra e della sinistra giornalistiche, sulla nomina di Vittorio Pisani a capo della polizia. Le “cronache” si sono concentrate, come si dice nelle redazioni sportive, sul mercato dei calciatori: Tizio di qua, Sempronio di là, vince quel presidente , perde quell’altro, e così via. Insomma, tipo campagna acquisti. Come se gli aneddoti da retroscena politico fossero l’unica cosa importante.

Pisani dette parere negativo alla scorta per Saviano, che poi comunque fu accordata. Il che, anche se i retroscenisti politici – tutti – non commentano (quando si dice il caso), rappresenta una chiara indicazione politica. Lato destro. Nessuna neutralità affettiva da funzionario dello stato. Il che preoccupa.

Saviano può piacere o meno come scrittore (a me non piace), però, fatte le debite proporzioni (per carità), Pisani ha negato la scorta a Rushdie. È vero, come ho letto, che molta gente comune lotta contro la camorra senza scorta. Però un simbolo è un simbolo. Non è di destra né di sinistra. Come Falcone e Borsellino.

Quanto ai trascorsi giudiziari di Pisani è vero che fu assolto con formula piena. Come è altrettanto vero che ha arrestato numerosi camorristi. Però, come dicevamo, la moglie di Cesare, eccetera, eccetera.

Al di là di tutto questo, ciò che va sottolineato, ripetiamo,  è il silenzio della stampa, di destra come di sinistra. Quello della destra è intuibile. Quanto alla sinistra, crediamo sia in corso un gelatinoso processo di assuefazione collettiva al governo Meloni. E che in particolare sui funzionari – dalla Rai alla Polizia – la sinistra, già stregata  dalla lottizzazione, mandi giù tutto. Nella speranza di rifarsi in seguito.

Quanto ai giornalisti, come ho sentito ripetere tante volte, persino dai giovani, “tengono famiglia”. Certo, di mestiere si vendono banane… Che vuoi  che sia…

Carlo Gambescia

giovedì 11 maggio 2023

Valditara, Ministro socialista del Merito

 


E per fortuna che Giuseppe Valditara è Ministro dell’Istruzione e… del Merito. Intanto è Ministro in quota Lega, dopo essere passato per An, PdL, Futuro e Libertà. Diciamo un piè veloce della politica.

Del resto si sa come vanno le cose. Diventa Ministro non chi è bravo, ma chi deve occupare una casella ministeriale su indicazione del partito di appartenenza. A dire il vero Valditara è anche docente universitario, autore tra gli altri di un testo, uscito nel 2018, intitolato Sovranismo. Una speranza per la democrazia: lettore avvisato mezzo salvato.

Pure Conte, che sta all’opposizione,  è professore. Nella commissione che lo consacrò ordinario, faceva capolino il suo socio di studio. Per puro caso, secondo Conte. Ovviamente, non è il caso di Valditara. Ci mancherebbe altro.

Dicevamo Ministro del Merito. Però la prima cosa che Valditara ha detto a proposito della protesta studentesca sul caro affitti è che la colpa è dei sindaci, in particolare di sinistra. E per quale ragione? Perché – la sostanza del suo discorso è questa – non hanno calmierato il mercato degli affitti. Capito? La destra, che si dichiara liberale, vuole l’equo canone. Cioè il dirigismo. Fa le pulci stataliste ai sindaci di sinistra… “Io sono più statalista di te”…

Possibile che Valditara non abbia letto almeno Alessandro Manzoni? La pagina dei Promessi sposi in cui si spiega, a proposito dell’assalto a forni, come la colpa fosse proprio del calmiere?

L’altra possibilità ventilata da Valditara, almeno così abbiamo capito, è quella dello stanziamento pubblico. E qui pare sia d’accordo anche La Bernini, Ministro dell’Università, altra a liberale a cento carati (ovviamente si fa per dire). Si potrebbe pescare, si dice, in un nuovo Fondo per gli affitti, secondo la logica dell’aiutino. E sulla base di quali criteri? Il Ministro del Merito, non si è ancora pronunciato. Ma, se proprio aiutino deve essere, che lo si agganci alla media dei voti e agli esami superati.

Al momento però tutto tace. In Italia lo studente somaro è specie protetta. Ci si proclama dalla parte del merito e del mercato (Valditara oggi è in quota  Lega, che ai tempi di Bossi qualche sussulto liberale pure lo ebbe), e poi invece si parla di aiuti pubblici, senza fissare paletti.

Evidentemente, per il Ministro del Merito uno studente somaro e uno studente bravo pari sono… Capito? Da ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi bisogni.

Questo però è socialismo. Che buffonata.

Carlo Gambescia

mercoledì 10 maggio 2023

Elezione diretta. Il pericolo del caudillo

 


Prima liberiamo il campo dalle chiacchiere.Le riforme istituzionali non si possono fare insieme, perché sono divisive e di solito giocate dai partiti, gli uni contro gli altri armati, per agguantare il potere. 

Ovviamente, se alla fine, per sfinimento, si giunge al compromesso, lo si presenta come risultato di un percorso condiviso, un capolavoro storico, eccetera, eccetera. Quindi basta con le inutili mitologie.

In Francia, che ne ha avute cinque di repubbliche, ogni riforma costituzionale ha diviso il paese. Nella Germania di Weimar, sulla costituzione il paese si spaccò in due (nazisti e comunisti si coalizzarono contro). Nella Spagna postfranchista, dove pure le riforme della Transizione furono abbastanza condivise, si rischiò il colpo di stato.

Pertanto le riforme costituzionali, anche nel microcaso italiano dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, dividono sempre. Perché ogni partito teme di essere ingannato dall’altro, eccetera, eccetera.

Il vero problema è chi fa riforme, come, e da dove viene. Se i partiti sono affidabili, perché appartengono alla tradizione liberal-democratica e riformista, le divisioni come pure i contenuti non sono preoccupanti. La Francia, nonostante nel secondo dopoguerra sia passata attraverso due repubbliche, era ed è un paese dalle salde tradizioni liberal-democratiche. Anche la Spagna monarchica, nonostante tutto, negli ultimi quarant’anni si è ben assestata nella democrazia.

Invece, sotto questo aspetto, che un partito neofascista, come Fratelli d’Italia, proponga l’elezione diretta del Presidente della Repubblica è oggettivamente pericoloso. Chi tifava per Mussolini non può non aver mantenuto un temibile riflesso autoritario e populista. Anche perché, cosa sospetta, non si parla dei futuri poteri del Quirinale. In sé l’ elezione a diretta, a parità di poteri, non significa nulla.

Ora delle due l’una: o Giorgia Meloni è istituzionalmente e politologicamente anafalbeta, o ha un piano segreto per edificare la Repubblica Presidenziale, che, quando si dice il caso, è sempre andata forte in Sudamerica, la patria di certi signori, dalle maniere brusche, conosciuti sotto l’appellativo di caudillo.

Detto altrimenti, la Repubblica Presidenziale funziona dove esistono tradizioni liberal-democratiche (vedi Stati Uniti, anche se con il populista Trump rischiava di saltare tutto), dove persiste una mentalità autoritaria e populista, anche in uno solo dei partiti che si contendono il potere, la Repubblica Presidenziale rischia di tramutarsi in una caricatura della democrazia.

Dal quel che oggi si legge, la Schlein ha detto no perché esisterebbero problemi più gravi come la transizione ecologica, il carovita, la disoccupazione, eccetera. Che cima.

Mentre la Meloni, come osservato, si è limitata a proporre l’elezione diretta. E a glissare sulla “ciccia” (i poteri del futuro presidente eletto dal popolo). Molte parole si sono spese sulle procedure: commissione parlamentare sì, commissione parlamentare no. Fumo.

In realtà il problema è rappresentato dal rischio di ritrovarsi al Quirinale un La Russa con i pieni poteri. Un caudillo all’Italiana.

Per questa ragione, il Partito democratico, avrebbe dovuto inviare a Palazzo Chigi – certo, irritualmente – Gianfranco Pasquino, politologo di sinistra ma preparatissimo. Il solo che avrebbe potuto stanare Giorgia Meloni. E non una fanciulla, o poco più, che di politologia costituzionale non sa nulla.

Così purtroppo vanno le cose. È la sinistra stessa a farsi del male.

Carlo Gambescia

P.S. Nel caso, Fratelli d’Italia disporrebbe di un politologo “di area” all’altezza di Gianfranco Pasquino? No. Il penultimo è stato Carlo Alberto Biggini, allora però governava Mussolini,  l'ultimo Fisichella, con Fini, un professore che la sa lunga, che però, ora, ha il dente avvelenato… Tutto qui.