venerdì 30 giugno 2017

  Fra poche ore sarà staccata la spina
 Je suis Charlie (Gard)




In Italia la notizia  non è stata “coperta” adeguatamente,   se non dai  media cattolici, neppure tutti. Parliamo della vicenda di Charlie Gard, il bimbo  britannico  di appena dieci mesi, affetto da una malattia incurabile.  Tra poche ore sarà staccata la spina.  La Corte Europea dei diritti dell'uomo   ha recepito  le precedenti sentenze delle  “domestic courts” che ordinavano lo stop alle cure e il divieto di qualsiasi altra terapia sperimentale, anche all’estero a spese dei genitori.  Sancendo come si legge, sull’ottimo  blog di Marina Castellaneta, professore associato di diritto internazionale, che 

"rientra nel margine di apprezzamento degli Stati la decisione di sospendere la ventilazione artificiale e di non consentire l’accesso a cure sperimentali delle quali non è stata dimostrata l’efficacia. L’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto alla vita, non può essere interpretato nel senso di affermare un obbligo per gli Stati di fornire farmaci e cure non autorizzate a livello nazionale"  (1) .


Sotto il profilo del diritto positivo la decisione è ineccepibile: procedure rispettate, più livelli di giudizio, grande attenzione al corposo combinato disposto, rispetto della sovranità giuridica dello stato-nazionale, eccetera, eccetera. Tuttavia c’è qualcosa di non convincente,  non tanto nella sentenza in sé,  quanto nei meccanismi  sociologici che sono dietro il funzionamento, anche quando “fisiologico”,  della “macchina” giudiziaria.  Per dirla brutalmente:  riteniamo che il  “dogma legalistico” -  nel senso dell’applicazione, addirittura scrupolosa,  delle procedure, introdotte dal diritto positivo - sia,  potenzialmente,  una  “macchina”,  per  “fabbricare” ingiustizie. Dicesi, eterogenesi dei fini.
Ricordiamo sempre con  timore e  tremore  alcune inquietanti ma illuminanti pagine di Guido Fassò, dedicate alla pericolosa “riduzione giuspositivistica di tutto il diritto a legge dello stato”, riduzione che “servì ottimamente al fascismo per realizzare i suoi fini” (2). Fassò si riferiva  alle  “rivoluzioni legali”, tra le due guerre,  ben valorizzate,  sul piano politico, da un giurista, come Carl Schmitt,  simpatizzante nazionalsocialista. Il quale fu il primo a parlare della cosiddetta “motorizzazione”  del diritto, opera di certo liberalismo sociale, welfarista,  come  strumento, criticabile ma  utile, per realizzare  una “rivoluzione legale” a sfondo totalitario.
Non a caso abbiamo citato due studiosi di sponde opposte.  Fassò opponeva  al “dogma legalistico”  il giusnaturalismo cristiano,  puntando sulla  "creaturalità"  della persona, antecendente al diritto positivo, quale riflesso di una imago Dei che trascende le miserie umane.  Schmitt, invece, prospettava l’ ulteriore politicizzazione del diritto positivo, frutto di  un  ordine concreto, emergente,  che scorgeva nella persona il  prolungamento  di un destino storico che si  fondeva, attraverso il culto del capo, nella naturalistica triade stato-movimento- popolo  (3).
Trascendenza contro immanenza del diritto.  Da un lato  (Fassò),  la scelta di vivere o morire è rimessa a Dio, dall’altro (Schmitt),  attribuita  al Fürher. L’uomo, insomma, viene  comunque ritenuto incapace di scegliere liberamente.  Deve sempre appoggiarsi a qualcosa di  più grande: Dio, il capo carismatico  oppure - ecco la nostra "provocazione" -  stati e super-stati sovrani, tribunali e leggi,   come nel caso di Charlie. 
Drammatizziamo  troppo?  O peggio, il ragionamento è scorretto?  Tutto questo giro vizioso  di parole, per   far passare, furbamente, il   concetto che la Corte Europea (dopo), le "domestic courts (prima), il top istituzionale del liberalismo giuridico,  negando la libertà di scelta si muovono  contro Dio e contro gli uomini? Su Dio sospendiamo il giudizio, sono questioni di fede, individuali. Quanto agli uomini, il discorso invece si fa  collettivo e sociologico. Quindi va affrontato. 
All’inizio, abbiamo parlato di “macchina” giuridica. Il punto è proprio questo, le istituzioni, il passaggio dal dire al fare: “la macchina”, insomma.  Che in quanto tale ha una  sua propria logica interna,  finissima ed evoluta,  quanto si voglia,   ma 1) conchiusa in se stessa; 2) iterativa; 3) conflittuale. Ci spieghiamo meglio
Dal punto di vista sociologico, dove c’è una procedura, c’è una burocrazia che la applica, che quindi innesca, come dire, “in automatico”,  dinamiche routinarie, ma anche di  competizione per le risorse;  competizione, che  si muove su due piani: a) quello della vitalità di una funzione,  nel caso quella giudiziaria, costretta  a giustificare se stessa, la propria specificità, attraverso il funzionamento e i "risultati";  b) quello delle risorse, anche simboliche,  per poter funzionare;  risorse contese,   palmo  a palmo,  alle altre istituzioni ( si pensi solo ai ricorrenti conflitti, tra ordine giudiziario e legislativo, per non parlare dei conflitti interni alle istituzioni stesse, divise, a loro volta,  in sub-culture, eccetera). In sintesi, una “macchina”, con vita propria che  decide della “vita altrui”. Dal punto di vista di una specie di grado zero sociologico, siamo a davanti  a una vera e propria lotta per l'esistenza.
Si dirà, tutte stupidaggini. Romanticismo sociologico.  Non possiamo tornare all’amministrazione della giustizia sotto il fico. I cittadini sono tutelati proprio dalle forme  del diritto positivo e in prospettiva,  dall’interazione tra diritto positivo e diritto vivente, interazione della quale   il giudice e i legislatori sono i migliori interpreti e veicoli.  Perché criticare una bellissima conquista del liberalismo moderno? 
Giusto.  Però, proprio per le ragioni che abbiamo spiegato, il carattere di  “macchina” dell’istituzione concreta giustizia, è indiscutibile. Una “macchina” che  tende ad essere invasiva, e non per ragioni ideali, ma di sopravvivenza sociologica,
Come contrastarla? In chiave liberale, of course. Perché non lasciare all’individuo, il diritto di decidere, liberamente, come curarsi, come vivere, come morire?  Senza interferire: basterebbe una scrittura privata, depositata presso un notaio. Perché non opporsi, una volta per tutte,  all’ insopportabile e  illiberale  ansia welfarista di dover tutelare a ogni costo l’uomo dalla culla alla tomba?  Per poi, in realtà  opprimerlo,  perseguitandolo  perfino nel letto di un ospedale, estendendo il potere di  burocrazie, giudiziarie o meno,  che pensano solo a giustificare la propria esistenza. 
Per  tutte  queste ragioni,  noi stiamo con Charlie. E soprattutto con i suoi genitori. Che forse hanno commesso un errore, dovevano difendersi, come dire, non "nel"  processo, ma "dal" processo. Si chiama disobbedienza civile. Ed è la più alta forma di liberalismo. Che vola alta, ben al di sopra di tribunali e stati.     

Carlo Gambescia                                             
        



(2) Guido Fassò, Storia delle filosofia del diritto, vol. III. Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna  1972, p. 378.


(3) Carl Schmitt, Principii politici del nazionalsocialismo, a cura di Delio Cantimori,  Sansoni, Firenze 1935.