mercoledì 8 giugno 2011

Rapporto Istat 
Poveri dentro


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Da giorni sono note le cifre del “Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2010”( http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/ ). L’aspetto più rilevante, variamente commentato da tutti (Governo, Sindacati, Confindustria, Cei), è che un quarto della popolazione rischia la povertà e/o l’ esclusione ( il 24,7 per cento). Siamo davanti a un valore ben al di sopra della media europea ( il 23,1 per cento). Una condizione, per metterla in cifre, che interessa 15 milioni di persone ( in Europa, 114 milioni).

Naturalmente, ci sono vari modi di percepire il rischio povertà. Gli indicatori individuati dall’Istat per monitorare tale obiettivo sono tre: le persone a rischio di povertà dopo i trasferimenti sociali; le persone in situazione di grave deprivazione materiale; le persone che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa.
Resta però una questione fondamentale, che spesso sfugge allo statistico: il ruolo negativo, per dirla con Oscar Lewis, della cultura della povertà,
Si tratta di un forma, se ci si passa il parolone, di secessione o fuga socioculturale: il povero, o aspirante tale (si fa per dire), accetta di comportarsi da povero, interiorizzando culturalmente la condizione di esclusione sociale: alcuni la imputeranno alla società, altri alla propria incapacità, altri ancora a un destino individuale avverso, ma per tutti la povertà sarà, come dire, la tambureggiante colonna sonora dell'esistenza. Detto il modo diverso: il culturalmente povero (il "povero dentro"…) non riesce a sviluppare relazioni sociali e culturali adeguate a una positiva integrazione sociale, se non all’interno della sua stessa cerchia. E spesso, il culturalmente povero giudica inutile qualsiasi tentativo di ascendere socialmente per sé e per la sua cerchia familiare e sociale. Ora, è veramente ingenuo pensare di rispondere al fatalismo culturale con il solo aumento dei trasferimenti sociali individuali. E per una semplice ragione: la povertà "di dentro", va combattuta nei “cervelli”, puntando sulla progressiva scomparsa, o comunque riduzione, della mentalità che contribuisce a perpetuarla. Ma come? Ad esempio, la presenza di periferie-ghetto non giova assolutamente alla mobilità sociale e professionale, e quindi allo sviluppo di aspettative positive di inserimento sociale. Ancora: una società bloccata, come l’italiana (forse per alcuni sarà una scoperta…), dove il 60 per cento dei figli svolge la professione paterna, o comunque rimane all’interno dello stesso segmento sociale, soprattutto se di condizione inferiore, non favorisce lo sviluppo di credenze positive sulla forza della mobilità sociale. Infine, la pessima qualità della scuola e dell’università, di certo, non aiuta... Purtroppo, la politica italiana sembra aver rinunciato a contrastare la diffusione e il consolidamento, prima che della povertà economica, di una cultura della povertà.
Possibile che non si voglia capire che il male dal combattere non è solo economico? O che comunque, economia e cultura dipendono l’una dall’altra?

Carlo Gambescia

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