giovedì 17 ottobre 2013

Il libro della settimana: Pietro Di Muccio de Quattro, Il golpe bianco di Edgardo Sogno,  con una nota dell’editore, Liberilibri 2013, pp. 142, euro 15,00 -   .


Siamo dinanzi a un libro tutto  italiano. Ecco la prima riflessione  sorta, fin troppo spontaneamente,  dopo aver letto l'avvincente pamphlet scritto da  Pietro Di Muccio  ( per ragioni di brevità, scusandoci, "tagliamo" il pur elegante cognome), Il golpe  bianco di Edgardo Sogno  (Liberilibri).  Per quale ragione “tutto”  italiano? Perché certe cose  -  dispiace ammetterlo -  possono accadere solo da noi. E purtroppo continuano a succedere. 
Per dirla fuori dai denti, il clamoroso arresto di Edgardo Sogno, avvenuto  a pochi settimane dalle elezioni politiche del 1976,   e il suo  proscioglimento nel settembre 1978, in piena "unità nazionale",  rappresentano l’archetipo  del  modus operandi,  devastante  anche sotto il profilo mediatico, di certa magistratura italiana.  Non per nulla a mettere in prigione  Sogno,  classe 1915,  antifascista,  partigiano “bianco” e Medaglia d’Oro al Valor Militare, accusandolo di  presunte  trame golpiste ( in concorso con  altre persone, tra le  quali spiccava per fama Randolfo Pacciardi),  fu un  giudice istruttore, Luciano Violante, poi  eletto deputato nelle liste del Pci, anno di grazia 1979.  E destinato a luminosa carriera politica. L’esatto contrario della sfortunata sorte toccata a Sogno: da allora assurto nell’immaginario dei media, non solo di sinistra, al rango di  macchietta “controrivoluzionaria” (nella migliore delle ipotesi),  o di   scherano  della “reazione fascista in agguato” (nella peggiore).
Inoltre,  Violante,  come il Commendatore del “Don Giovanni” mozartiano,  continua ad aleggiare tra le pagine  del pamphlet:  ne è  il “convitato di pietra".   Perché, in partenza, come spiegano editore e  autore, il libro  doveva essere una riedizione del Golpe bianco, scritto da Edgardo Sogno e pubblicato nel 1978  per le  montanelliane ( o giù di lì)  Edizioni dello Scorpione.  Ma,  come scrive mestamente l’editore,  «nel timore che qualche riga d[i quel, ndr] libro potesse essere usata a pretesto  per accampare lesioni da parte delle persone  criticate da Sogno, ed in primis dall’ex giudice istruttore, abbiamo rinunciato al progetto» (p. 9).
Cosa dire?  Intanto,  che nei famigerati  Anni Piombo, un piccolo editore libertario, correva meno rischi di oggi. Non resta che piangere amarissime lacrime sul destino della libertà di stampa in Italia. Che malinconia.
Tra l’altro, Violante all’ invito dell’editore di fornire un contributo non ha  dato risposta, come si confà  -  e sia detto con il massimo rispetto  -   a ogni buona statua parlante, che non può non    esigere  il pentimento del Don Giovanni di turno.  Ma Edgardo Sogno è morto  nel 2000.  E  - azzardiamo -   editore e  autore, per fortuna viventi (e ci auguriamo molto a lungo)  di cosa  dovevano o  devono  pentirsi?   Di pubblicare e scrivere buoni libri?   
Insomma, stringendo,   il volume è un testo sul “ brutto guaio passato” da  Sogno, come si direbbe da Roma in giù. E vi sono  raccolte, nell’ordine:  una tagliente nota editoriale,  l'agguerrita   introduzione del Di Muccio alla mancata riedizione del volume di Sogno,  e (in appendice) due sentenze: quella istruttoria di proscioglimento  (Tribunale di Roma, 1978) e quella  del processo intentato da Sogno nei riguardi di Luciano Violante per falsità ideologica in atto pubblico (Tribunale di Venezia, 1975),  conclusosi con il non luogo a procedere, «perché il fatto non costitui[va] reato». 
Il lettore potrà scoprire da solo la fragilità del teorema di  Violante, il primo di una inquietante serie di castelli in aria: pindariche fortezze bastiani di serie B  che hanno intossicato - e intossicano -  l’attività di una  magistratura NIMBY, rivolta a individuare cospirazioni  sempre nel giardino dell'avversario ideologico di turno e mai nel proprio… Un teorema, come si evince,  edificato sulle  palafitte  di collegamenti politici, mai provati, tra Sogno, antifascista a tutto tondo, e la  destra neofascista.  Una fragilità  che viene messa in luce, e molto bene,  dalle due sentenze. In particolare dalla prima (quella romana). Mentre la seconda (quella veneziana) resta utile per capire - certo,  fra le righe -   in che cosa consistesse, quel che il Tribunale di Venezia, respingendo la tesi della falsità ideologica sostenuta da Sogno,  definì    l’  «eccesso di zelo» del giudice Violante.    
Ripetiamo, al di là della pur eccellente ricostruzione dei fatti,  ciò che al contempo affanna e consola  è l’intuizione di un archetipo sociologico. E di che cosa? Come accennato, del modus operandi di certa magistratura italiana NIMBY.  Ma lasciamo la parola a Pietro Di Muccio: «Qui  troviamo in nuce  tutti i caratteri soggettivi e oggettivi del processo: l’uomo famoso “attenzionato” da un magistrato allora sconosciuto che forma su di lui un fascicolo processuale composto da voci giornalistiche; la Medaglia d’Oro al Valor Militare che conduce una battaglia politica;  la lettera mai ricevuta e mai vista  da Sogno[dove si accennava a  una  nascente e auspicabile coalizione di  tutti in gruppi di estrema destra, incluso Ordine Nuovo, ndr]; la perquisizione domiciliare di Sogno disposta da Violante alla ricerca della fantomatica lettera; il tentativo di addebitare a Sogno, secondo l’asserzione del decreto di perquisizione, l’organizzazione di tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali Ordine Nuovo, dopo lo scioglimento di quest’ultimo; il processo di Venezia a carico di  Violante su denuncia di Sogno per falsità ideologica in atto pubblico» (p. 41).
Che dire? Forse  basterebbe cambiare qualche nome per precipitare  subito nella più sconcertante attualità…  
Infine, come si  nota acutamente,  va ricordato che Sogno fu giudicato « penalmente innocente non perché volesse o non volesse  fare un “golpe bianco”, cioè liberale, cioè anticomunista e antifascista, ma perché, nel modo in cui l’aveva predisposto e a livello dei preparativi cui era giunto, il suo divisato “strappo costituzionale” non costituiva  affatto o non costituiva ancora una condotta delittuosa, vale a dire un reato vero e proprio, bensì una lecita, sebbene vigorosa e radicale, attività di opposizione, non cospirazione politica. Niente di eversivo penalmente parlando» (p. 53). In buona sostanza, Sogno lottava alla luce del sole ( scrivendo e organizzando seminari e convegni) per l'istituzione  di una  repubblica presidenziale... Un autentico tabù politico per la Prima, per la Seconda e forse pure per la Terza Repubblica...   
Di qui, il proscioglimento, perché il fatto non sussisteva. Per  citare dalla sentenza del giudice Francesco Amato, «manca […] la prova della congiura; resta per Edgardo Sogno, il dissenso. Ma la Repubblica, che trae la sua invincibile forza dall’esaltazione e dalla pratica dei principi democratici, non criminalizza il dissenso, che anzi è esso stesso un aspetto della legalità costituzionale”. 

Concludendo, negli anni Settanta,  Edgardo Sogno  nonostante tutto  trovò  un  giudice a Berlino.  Oggi lo troverebbe ancora?

Carlo Gambescia

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