Il libro
della settimana: John C. Calhoun, Disquisizione sul governo, intr. di Luigi
Marco Bassani, Liberilibri, pp. XCVII-104, Euro 16,00.
L’importanza di John Caldwell Calhoun (1782-1850), pensatore e uomo politico
statunitense, nonché il valore e l’attualità di un libro come Disquisizione sul
governo non possono passare inosservati. Di qui la necessità di offrire ai
nostri lettori almeno due recensioni. La prima è di Teodoro Klitsche de la Grange, la seconda nostra.
Gli approcci sono diversi. Ma, come si scoprirà, pur seguendo strade differenti
i due recensori finiscono per incontrarsi. Buona lettura. (C. G.)
Calhoun,
il costituzionalista ritrovato
di Teodoro Klitsche de la
Grange
Scrive Luigi Bassani nell’accurata introduzione «il lettore
italiano si trova fra le mani un gioiello della scienza politica vecchio di
oltre centossessant’anni, un’opera che sta al fianco dei grandi capolavori
dell’ingegno umano e che è il prodotto più sofisticato dell’Ottocento
americano. Ohibò – esclameranno i nostri venti e colti lettori – non ne avevo
mai sentito parlare”. In effetti chi scrive ne aveva sentito parlare (o meglio
letto chi ne aveva scritto) ma tra “addetti ai lavori”».
L’interesse che suscita la traduzione di Calhoun (che ci auguriamo presto
seguito da altre) è dovuto almeno a tre ragioni.
La prima è che fa parte di quel modo di affrontare Stato e costituzione tipico
di un’epoca in cui non erano stati rigidamente (e “scolasticamente”) scissi
politica e diritto pubblico, con gran beneficio per entrambi, ma soprattutto
per il secondo che così non rischiava (come poi spesso capitato) di perdere
senso e collegamento con la realtà politica e talvolta con la stessa
problematica (più importante) della materia che regola (fino a un certo punto,
ma questa è nella logica delle cose).
La seconda è collegata al rapporto con la realtà economica: che Calhoun «fosse
una sorta di «Marx rovesciato», in quanto aveva in comune con il filosofo di Treviri
il senso della storia come lotta irriducibile fra i vari interessi economici,
salvo prendere apertamente le parti dell’aristocrazia sudista, la master
class», come scrive Bassani nell’introduzione, citando Hofstadter.
L’uno e l’altra fanno si che Calhoun, morto nel 1850, avesse previsto il
prossimo scoppio della guerra di secessione: logica conseguenza dei problemi
costituzionali ed economici rimasti irrisolti, e che, non potendolo essere col
diritto, lo sarebbero stati con la guerra (come scriveva de Maistre, «laddove
non c’è sentenza c’è battaglia»).
L’approccio di Calhoun semplifica e chiarisce l’accesso alla problematica
costituzionale.
Il primo quesito posto dall’assetto federale degli USA. è se sovrani sono gli
Stati ovvero la “struttura” federale. Se, come argomenta Calhoun, la Costituzione è un
“contratto” tra Stati, e il potere di revisione costituzionale è rimesso alla
ratifica di una larghissima maggioranza degli Stati, conseguenza della
sovranità statale (e non federale) è che uno Stato abbia il diritto di non
applicare, perché nulla, la legislazione federale (nullification) e anche di
secessione, se non è altrimenti componibile il dissidio con la federazione.
Il tutto poneva il problema, percepito in Europa, se la Federazione fosse
realmente uno Stato sovrano. Due grandi pensatori europei, contemporanei di
Calhoun se lo erano posto: Hegel e Tocqueville. Secondo il filosofo, l’America
era uno Stato “tuttora in divenire... è uno Stato federativo: ma questi, per
quel che concerne i rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori” e ricorda
la guerra con l’Inghilterra, considerata anche da Tocqueville, in cui quattro
Stati non avevano mandato truppe a combattere gli inglesi. Nel caso d’eccezione
per antonomasia, cioè la (dichiarazione di) guerra la federazione era partita
zaino in spalla e il New England era rimasto a casa. Per cui Hegel concludeva
che l’America non è uno Stato “finito” come compagine politica, perché il
processo di “formazione dei suoi momenti elementari è ancora in corso”. A concluderla,
sull’essenziale problema della sovranità, furono le cannonate nordiste a
Gettysbourg.
Come scriveva Tocqueville «è in guerra che si rivela, nel modo più visibile e
pericoloso, la debolezza di un governo; e ho mostrato come il difetto inerente
ai governi federali sia appunto quello di essere molto deboli»; il guaio è che
ciò era originato proprio da controversie costituzionali. «All’epoca della
guerra del 1812, il Presidente ordinò alle forze militari del Nord di portarsi
verso le frontiere; il Connecticut e il Massachusets, i cui interessi erano
danneggiati dalla guerra, rifiutarono di inviare il loro contingente. La
costituzione, essi dissero, autorizza il governo federale a servirsi della
milizie territoriali in casi di insurrezione o di invasione; ora, nel caso
presente, non c’è né insurrezione né invasione. Aggiunsero poi che la stessa
costituzione, che dava dell’Unione il diritto di chiamare le milizie in
servizio attivo, lasciava agli Stati il diritto di nominare gli ufficiali; ne
derivava, secondo loro, che anche in guerra nessun ufficiale dell’Unione aveva
il diritto di comandare le milizie».
E Tocqueville prosegue: «Queste teorie assurde e distruttrici ricevettero non
solo la sanzione dei Governatori e del corpo legislativo, ma anche quella delle
Corti di giustizia di questi due Stati».
Questo rapido confronto tra la più nota delle tesi di Calhoun e le opinioni dei
due pensatori, pone un problema, acutamente visto dagli europei: se i poteri
federali erano così limitati, e non ci fossero state quelle cannonate decisive
per interpretare la
Costituzione, gli USA avrebbero avuto mai il destino
imperiale che la Storia
del XX secolo ha loro riservato?
Sicuramente non è possibile svolgere guerre o anche missioni militari ai
quattro angoli del pianeta se non si ha un grosso esercito federale (e i mezzi
economici per armarlo ed equipaggiarlo) e non si può contare sulle forze armate
statali perché guerre e missioni militari in continenti lontani non sono
riconducibili né ad insurrezioni né ad invasioni.
L’altra idea di Calhoun (tra le molte che il lettore può trovare nello
scritto), cioè quella della «maggioranza concorrente» è contraria
all’evoluzione degli Stati federali basati sul principio democratico, come
notato da Carl Schmitt. Scrive il giurista tedesco «Nella stessa misura in cui
avanzava la democrazia, diminuiva anche l’autonomia politica degli Stati
membri. negli Stati Uniti d’America questo sviluppo inizia con l’approvazione
del popolo nei singoli Stati (in opposizione addirittura a questi Stati) della
costituzione federale... Le teorie federalistiche di Calhoun (per gli Stati
Uniti d’America) e di Max von Seydel (per il Reich tedesco) sono perciò
superate non perché – considerate secondo i giusti concetti del diritto
federale – fossero in tutto false, ma perché lo sviluppo democratico e in
particolare la conseguenza democratica della rappresentazione di un popolo
unico e indiviso all’interno di una federazione nazionalmente omogenea doveva
condurre all’unità statale»; tuttavia «se si riconosce questo, anche ciò che in
quelle teorie federali rimane esatto può essere di nuovo tranquillamente
apprezzato e utilizzato nella dottrina della costituzione».
Teodoro Klitsche de la Grange
Calhoun
e il “giovane Ercole” americano
di Carlo Gambescia
Merle Curti, il grande storico americano dell’Università del Wisconsin,
in un libro tuttora prezioso, The Growth of American Thought definì l’opera di
John Calhoun, riferendosi in particolare a Disquisition on Government , «un
ardito e originale sforzo per risolvere uno dei grandi problemi della
democrazia, la protezione delle minoranze» ( trad. it. Neri Pozza, 1956, p.
432). Che poi l’« ardito e originale sforzo» di Calhoun fosse collegato alla
difesa della società sudista e schiavista, restava secondo lo storico un vero e
proprio peccato originale, che tuttavia non rendeva meno interessante il suo
pensiero. Curti, uno storico allievo di Turner (il padre della teoria
sull'importanza della frontiera nella storia americana), era un progressista
tutto d'un pezzo passato attraverso il ferro e fuoco del Novecento. Perciò si
tratta del riconoscimento di un avversario. Insomma, un apprezzamento che
tuttora vale il doppio.
In effetti, sfogliando Disquisizione sul governo, non si ci può non interrogare
sull’ erudizione con cui Calhoun affronta con grande preveggenza la questione
del rapporto tra maggioranze e minoranze in democrazia. L’ottica scelta è
quella preferita dai pensatori di largo respiro, capaci di muoversi con
enciclopedica e spiazzante sapienza tra conoscenze storiche, filosofiche e
sociologiche. Sono doti che il pensatore americano condivide con giganti del
calibro di Tocqueville. Anche se, come nota Luigi Marco Bassani nella densa
introduzione, Calhoun, a differenza di Tocqueville, troppo ottimista e
fiducioso nel ruolo catartico del potere associativo, si schiera con Hobbes (
il che, però, come vedremo, è vero fino a un certo punto...). Scrive Bassani :
Calhoun « da gran realista politico, sostiene che l’esperienza storica ha
ampiamente dimostrato che “il potere può essere arginato solo dal potere e non
dalla ragione o dalla giustizia e qualunque restrizione all’autorità che non
sia sostenuta dalla forza di un eguale potere antagonistico si è dimostrata
inefficace e pratica”» ( p. XXVII).
Perciò la grande questione individuata è come opporsi al potere assoluto della
maggioranza. Tocqueville, senza tanti complimenti, parla, come è noto, di
tirannia della maggioranza. Ma ne riferìsce in termini di conformismo culturale
e sociale diffuso: si fa una cosa perché la fanno gli altri. Di qui, secondo il
pensatore francese, l'importanza, per la sua ricaduta sociologica,
dell’associazionismo sociale come fattore reattivo e di diversificazione
culturale Per contro, Calhoun affronta la questione in chiave esclusivamente
politica. Si legge in Disquisizione sul governo: «È difatti l’unicità del
potere ad escludere il diritto di veto e a creare un governo assoluto, e non il
numero di coloro che sono investiti del potere stesso. La maggioranza numerica
è un potere unico, e non ammette minimamente il potere di veto, tanto quanto il
governo assoluto di un singolo uomo o di pochi individui. Essa rappresenta la
forma del governo assoluto assunta dalla democrazia o dal governo popolare,
come d’altronde il governo di un singolo o di pochi individui rappresenta la forma
dei governo assoluto assunta dalla monarchia o dall’aristocrazia – e a questi
accomuna la medesima tendenza all’oppressione e all’abuso di potere » (p. 36).
Quale rimedio si propone al potere unico della «maggioranza numerica»? Calhoun
punta sul potere frazionato della «maggioranza concorrente ». Cosa vuole dire?
« Il governo della maggioranza concorrente, al contrario (…) evita che si
verifichi qualsiasi oppressione , fornendo ad ogni interesse, fazione o ceto –
laddove vi siano classi sociali nettamente delineate – i mezzi per tutelarsi
autonomamente tramite il diritto di veto su ciascuna misura intesa a promuovere
gli interessi particolari di una parte a discapito di un’altra. Esso finirà
quindi con l’indurre i vari interessi, fazioni o ceti, a seconda dei casi, a
desistere dai tentativi di adottare misure mirate a favorire la propria
prosperità a spese di quella degli altri, obbligandoli così, per di più ad
accordarsi su misure volte ad accrescere la prosperità di tutti, come unico
mezzo per scongiurare una interruzione nell’azione del governo e, di
conseguenza, il peggiore di tutti i mali: l’anarchia. Con questo tipo di
resistenza, legale e incisiva, i governi basati sulla maggioranza concorrente
evitano ogni forma di oppressione e rendono superfluo il ricorso alla forza –
cosicché il compromesso, e non la forza, diventa il principio di conservazione»
(pp. 37-38).
Il che, in soldoni, significa due cose: in primo luogo, che un parlamento
statale deve deliberare all’unanimità, puntando sul compromesso preventivo e
non sulla pura forza dei numeri; in secondo luogo, che una federazione di stati
deve sempre tenere nel debito conto la possibilità, che anche uno solo degli
stati che la compongono, possa dissentire su un provvedimento respingendolo (
Calhoun parla di “nullification”); di qui, come nel caso del parlamento
statale, la necessità di puntare sul compromesso preventivo.
Ma in che modo? E poi con la ricerca dell’unanimità a tutti costi non si
rischia la paralisi politica? No, perché, secondo Calhoun, il patriottismo ne è
l’elemento portante e risolutivo. Seguiamo il suo ragionamento: « Il governo
basato sulla maggioranza concorrente, (…) evita qualsiasi tipo di abuso e ogni
tentativo di oppressione, e di conseguenza l’intero complesso di sentimenti e passioni
che porta alla nascita di discordie e conflitti in seno alle diverse fazioni
della comunità. Ciascuna di queste, difatti, verrà spinta dalla impellente
necessità di evitare che l’azione di governo venga sospesa (…); e inoltre verrà
spinta dal potente impulso dell’amore per il proprio Paese. E giungerà a
considerare l’eventuale sacrificio dei proprio interessi particolari
sull’altare della sicurezza di tutti, e quindi anche della propria, ben poca
cosa in paragone alle sciagure che ricadrebbero sul complesso dei cittadini, e
dunque su di sé, nel caso continuasse a perseguire ostinatamente una linea di
condotta opposta. Le ragioni per convergere sarebbero così cogenti e d’altra
parte in simili circostanze quelle per opporsi così deboli che ci sarebbe davvero
da meravigliarsi, non nel caso in cui si giungesse a un compromesso, ma nel
caso in cui questo non si realizzasse» (pp. 66-67).
Perciò se alla base delle tesi di Calhoun c’è Hobbes, va aggiunto che si tratta
di un Hobbes, come del resto ha ben visto anche Bassani, riveduto e corretto
alla luce della creativa socialità naturale teorizzata da Aristotele,
tramutatasi in moderno amore di patria. Potremmo avvicinare il consociativismo
calhouniano a quello delle liberal-democrazie welfariste, frutto post-bellico
del capitalismo sociale di mercato, oggi rimesso in discussione dai processi di
globalizzazione e conseguente grave “snazionalizzazione”. Pertanto non
definiremmo Calhoun, come invece propone Bassani, un «liberale a tutto tondo».
Diciamo che il suo liberalismo è di tipo politico più che economico. Ed è
perciò funzionale non tanto alle necessità astratte del libero-scambio quanto
alle necessità concrete del governo dello sviluppo nazionale. Come attesta la
accettazione calhouniana nel 1816 di un regime protezionistico, seppure
moderato, per sostenere il rafforzamento, degli Stati Uniti: un “giovane
Ercole” secondo la sua suggestiva definizione
Da questo punto di vista sarebbe interessante un confronto con il pensiero di
Friedrich List, padre dello Zollverein e profeta di un liberalismo nazionale
teso a conciliare - funzionalmente - libero mercato all’interno e protezionismo
all’esterno. Ricerca molto utile, anche per scoprire qualcosa di più sui
possibili rapporti tra i due pensatori. E per una semplice ragione storica:
List soggiornò negli Stati Uniti tra il 1825 e il 1832. Jacksoniano di ferro
venne in seguito nominato dal neo-presidente Usa, console degli Stati Uniti ad
Amburgo. Durante il suo soggiorno List, entrando a gamba tesa nelle durissime
polemiche americane pro o contro le tariffe doganali, pubblicò un pamphlet
filo-protezionista Outlines of Americam Political Economy, di grande successo,
e proprio nello stesso periodo in cui usciva anonimo il South Carolina
Exposition and Protest di Calhoun, dove invece si contestava in chiave
anti-protezionista il forte aumento della tariffe doganali cui puntava il Nord
per danneggiare il Sud.
Carlo Gambescia