venerdì 16 settembre 2011

Nuovi lussi...
Il diritto alla pensione secondo il professor Ferrera



«I diritti sono una cosa seria, ma proprio per questo bisogna riconoscere che non sono tutti uguali. Alcuni (quelli civili e politici) tutelano libertà e facoltà dei cittadini e sulla loro certezza non si può transigere. I diritti sociali sono diversi: conferiscono spettanze, ossia titoli a partecipare alla spartizione del bilancio pubblico, che a sua volta dipende dal gettito fiscale e dal funzionamento dell'economia. Dato che al mondo non esistono pasti gratis, i diritti sociali non possono essere considerati come delle garanzie immodificabili nel tempo. Il loro contenuto deve essere programmaticamente commisurato alle dimensioni della torta di cui si dispone e all'andamento dell'economia e della demografia» (*). Così Maurizio Ferrera, professore di Politiche sociali e del lavoro presso l’Università di Milano, nonché editorialista di punta del “Corriere della Sera”, giornalone favorevole, e da anni, a privatizzare anche l’Arma dei Carabinieri…
Due osservazioni.
In primo luogo, un diritto o è tale o non è. Il riconoscimento di un diritto da parte dell’ordinamento o c’è o non c’è. Non può andare e venire secondo necessità politiche. Non è come una squadra di calcio, magari di provincia, che tutti gli anni rischia di retrocedere in serie B. È vero che il diritto ( e dunque i diritti…), sociologicamente, è una forma organizzativa che riflette scelte di tipo politico, scelte redistributive che possono mutare nel tempo. Tuttavia, quando, come nel caso del professor Ferrera, si decide, “prima”, di condividere la moderna e neo-illuministica cultura delle Carte dei diritti (come si evince dai suoi primi lavori su welfare e pensioni di cittadinanza) (**), dopo”, non si possono stilare classifiche calcistiche... O la coerenza argomentativa è un optional? E poi classifiche, ad uso e consumo di chi? Confindustria? Fmi? Bce? Moody’s Corporation?
In secondo luogo, la cultura mercatista alla Ferrera, scherza con il fuoco. Perché se è vero che in Italia con le pensioni d’invalidità si è costruito il consenso, rimane altrettanto vero che con le pensioni tout court si è garantita la continuità di un potere d’acquisto, che ha favorito due beni pubblici per eccellenza: sviluppo e pace sociale. Certo, esistono vincoli di bilancio, il settore va razionalizzato, l’età gradualmente elevata, il diritto-principio però non va toccato, pena la sempre possibile delegittimazione del sistema politico, sociale ed economico. Perciò Ferrera rischia l' autogol quando, storcendo il naso, critica il fatto che oggi « l’aver lavorato per 35 o 40 anni, indipendentemente dalla congruità dei contributi versati, è diventato il presupposto fondativo dell’accesso alla pensione». Cerchiamo di essere seri. Quale poteva e può essere «il presupposto fondativo»? I soli contributi versati, come sostiene l’editorialista del Corrierone? O, più giustamente, come proclamano le Carte dei diritti, il valore, incalcolabile, del diritto a vivere un'esistenza dignitosa, proprio dopo aver lavorato 35 o 40 anni ? E poi, per dirla tutta, il diritto da vecchi a una vita degna dell’altrui rispetto e libera dalla paura di finire sotto i ponti, può essere collegato, in assoluto, a una busta paga?

Carlo Gambescia
..

(**) Come summa delle Carte precedenti, si veda la Dichiarazione Onu del 1948, all' articolo 25 .



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