martedì 27 gennaio 2009

Riflessioni sul Giorno della Memoria




Dal punto di vista delle relazioni fra i popoli è più importante dimenticare o ricordare le sopraffazioni subite collettivamente in passato, anche le più feroci ?
Per rispondere a questa domanda si deve dare prima riposta a una questione fondamentale: qual è la differenza tra memoria individuale e memoria collettiva?
Sul piano individuale si può dimenticare o ricordare, diciamo così, una cattiva azione ricevuta attivando le proprie facoltà cognitive individuali e riducendo l’ emotività al minimo.
Ma sul piano collettivo? Tutto resta più difficile, dal momento che le azioni del dimenticare e ricordare presuppongono un sistema di valori e simboli collettivi che vanno a costituire la memoria collettiva. Che, a sua volta, non è mai la somma delle memorie individuali, ma un inglobante che preesiste e orienta per istituzioni l’individuo. E al quale il singolo attinge più in termini emotivi che cognitivi. Pertanto, mentre la memoria individuale è una corda sempre tesa tra ragione e sentimento, la memoria collettiva resta ancorata alla riva delle emozioni.
Di qui, dal momento che le emozioni, come insegna la psicologia, seguono un andamento ciclico, la necessità di un apparato simbolico, per trasformarle in realtà o sentimenti istituzionali stabili (o quasi). Di regola, infatti, si parla di spirito, senso e sentimento delle istituzioni.
Il Giorno della Memoria che oggi si celebra parla il linguaggio sentimentale delle istituzioni, puntando sulla costruzione simbolica del ricordo del male (effettivo) ricevuto dal popolo ebraico ( http://www.corriere.it/cronache/09_gennaio_26/giorno_memoria_f2c838b0-eba4-11dd-92cf-00144f02aabc.shtml ). Purtroppo il linguaggio delle emozioni è discontinuo. E per consolidarsi richiede un crescente sostegno istituzionale e simbolico. E nello spazio di tempo (difficilmente quantificabile) che intercorre tra stato nascente e istituzionalizzazione, l'attività di consolidamento provoca forti reazioni di segno contrario, dal momento che la società, come insegna la sociologia, non è costitutivamente una tabula rasa. Innescando così un meccanismo conflittuale, spesso al rialzo, tra istituzioni rivolte alla costruzione della “nuova memoria” e istituzioni dirette alla conservazione, della “memoria preesistente”. Un conflitto la cui intensità cresce o diminuisce in relazione alla profondità, in termini temporali e valoriali, del contenzioso tra gli attori sociali in conflitto.

Inoltre, piaccia o meno, ma in un mondo sociale dominato da emozioni e simboli, gli appelli, anche se moralmente giustitificati, alla ragione collettiva e al pacifico confronto pluralistico, di regola, rischiano di restare inascoltati: quel che può valere per il singolo, come si diceva all’inizio, non vale, purtroppo, per il gruppo sociale, e soprattutto per istituzioni e valori simbolici collettivi, stratificatisi nei secoli e depositarie di pre-giudizi opposti.
Il che non significa che la spirale dei contrasti non possa entro un certo numero di secoli stabilizzarsi e la società recepire istituzionalmente, spesso per puro istinto di conservazione, i nuovi valori. Resta però difficile dire con esattezza quando. E a che prezzo.
Forse, sul piano collettivo, sarebbe preferibile dimenticare.

Carlo Gambescia 

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