Dopo la fiducia alla Camera
Perché cresce il consenso
al
nuovo governo Berlusconi?
Piaccia o meno, ma non possiamo non interrogarci sulle ragioni del crescente
consenso sociale al nuovo governo Berlusconi. Un successo, che può preoccupare,
ma frutto di un profondo cambiamento sociale, che va analizzato. Una metamorfosi
che riguarda in particolare quei ceti popolari che in aprile hanno voltato le
spalle alla sinistra nelle sue due versioni: soft (Veltroni); hard
(o quasi, Bertinotti e company).
Una prima riflessione, apparentemente scherzosa.
Per parafrasare il titolo di un famoso film di Elio
Petri, uscito nel 1972, e interpretato da Gian Maria Volonté, si può asserire,
piaccia o meno, che alla fine la classe operaia è andata in paradiso. Certo,
non somiglia a quello vero, visto che si deve comunque continuare a lavorare…
Ma il punto è che i consumi e la qualità della vita, a prescindere dagli
sviluppi non positivi di questi ultimi due anni, sono mutati
“strutturalmente", e in meglio. Basta guardarsi intorno, per scoprire
quanto sia cambiata in trentacinque anni quell’Italia impersonata da un
Volonté, sfortunato campione del lavoro a cottimo. E dove la classe operaia,
costituiva un blocco sociale, schierato a sinistra e riconoscibile persino
dagli abiti indossati. Mentre oggi si concede qualche piccola vacanza sul Mar Rosso,
fa shopping all’Ikea e la spesa nei Discount, si veste con maggiore attenzione,
e soprattutto, sempre più spesso, vota a destra
Per capire il senso sociologico profondo delle politiche di aprile 2008 e
soprattutto per non limitarsi a valutazioni impressionistiche attingeremo
alcuni dati e giudizi dall’interessante studio di Mauro Magatti e Mario De
Benedettis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto delle classe operaia?
, uscito nel 2006 per i tipi di Feltrinelli.
Si tratta di un’indagine sociologica nazionale, frutto di un intenso lavoro di
equipe sul campo, basato sulla combinazione di tecniche di ricerca differenti
(interviste, racconti autobiografici, ecc., sulle quali sorvoliamo per non
appesantire l’esposizione). L’area della survey riguarda una fascia popolazione
tra i 20 e il 49 anni : 1800 soggetti di entrambi i sessi, residenti in
differenti aree geografiche, e con basso livello di istruzione. Gli autori,
infatti, assegnano l’appartenenza del singolo ai nuovi ceti popolari, sulla
base dell’ assenza o meno di un diploma di scuola media superiore ( il 53%
nella fascia di età prescelta). Insomma, per dirla con Pierre Bourdieu, del
quale Magatti e De Benedittis si dichiarano debitori, l’ accesso al “capitale
culturale” (il titolo di studio) si ripercuote, salvo rarissime eccezioni, sul
destino sociale e professionale degli individui, che pur svolgendo lavori degni
di eguale rispetto, non riescono però ad “ascendere” socialmente.
Ma veniamo alle tesi del libro, particolarmente interessanti per capire le
ragioni del successo elettorale berlusconiano.
In primo luogo, il testo ci spiega perché oggi non sia più possibile parlare di
classe operaia. La sua scomparsa, è in parte legata al declino delle ideologie
totalitarie. Ma soprattutto, secondo gli autori, a due fattori postmoderni o
postindustriali, se si preferisce: la sostituzione dell’ufficio alla fabbrica
(terziarizzazione) e della rappresentanza individuale a quella sindacale e
politica (individualizzazione). Due fattori, amplificati dalla globalizzazione,
che hanno prodotto la segmentazione della classe operaia. Che si è così
ritrovata divisa in gruppi professionali e lavorativi: i ceti di cui si parla
nel titolo. Ma perché definirli “popolari”? Perché sono ceti socialmente
“subalterni”, ma non culturalmente inferiori (a prescindere dai titoli): visto
che il “tradizionale” e “popolare” buon senso che li anima, permette loro di
conciliare antico e moderno: ad esempio, risparmio e consumi (si comprano le
scarpe firmate al figlio ma si fa al spesa al discount…). Un circolo di valori
vecchi e nuovi, al cui interno, si compie però “il destino sociale” delle
persone. Una sorte, si badi bene, non solo segnata in negativo dal rischio
dell’ instabilità lavorativa, ma anche, e in positivo, dalla secolare capacità
di mediazione e contaminazione dal basso, mostrata dal popolo, fin dall’inizio
della modernità. Perciò, non si tratta solo di “imborghesimento”, ma
dell’adesione, il più delle volte consapevole, a un modello di vita
individualistico, con i suoi pro e contro. Può piacere o meno, ma seguendo le
analisi di Magatti e De Benedittis, si scopre che i nuovi ceti popolari hanno
accettato, pur con qualche comprensibile esitazione, la sfida della
postmodernità...
In secondo luogo, il libro ci informa sulla condizione sociale ed economica dei
nuovi ceti popolari, nonché sulle loro preferenze politiche, religiose e
istituzionali. Ecco qualche dato (per arrotondamento).
Per quel che riguarda i “profili lavorativi” : il 60% svolge un lavoro a tempo
indeterminato, il 17 % atipico, il 16% autonomo, il 6% nero (soprattutto
donne). Il 70 per cento vive in una casa di proprietà: fatto che indica una
raggiunta condizione di stabilità sociale. La disoccupazione è invece al 13%.
Sorprendenti le valutazioni nei riguardi della “funzione sindacale”: il 16% la
giudica molto positiva; il 40% abbastanza positiva; il 35% poco positiva; l’8,5
%per nulla positiva): per farla breve, c’è un 43/44 % di “popolo” che giudica
piuttosto male il sindacato. Per quel che concerne le preferenze politiche: il
54,7 % si dichiara per il centrosinistra e il 45,3 per il centrodestra. E
quest'ultimo dato ci sembra decisivo per spiegare l’eclatante vittoria di
Berlusconi.
Quanto al ruolo delle istituzioni pubbliche: il 75% ritiene decisivo
l’intervento dello stato nei settori della sicurezza, dell’economia e della
giustizia sociale. Soprattutto il dato sulla sicurezza sembra particolarmente
importante per capire la valanga di voti ricevuti dal centrodestra.
Sul piano delle scelte religiose, l’85% si dichiara cattolico, l’89 % si è
sposato in chiesa, il 96 % ha fatto battezzare i propri bambini, ma solo il 25%
pratica assiduamente.
Il quadro complessivo è quello di un ceto conservatore desideroso di sicurezza
sociale, in tutti i sensi. Chi appartiene ai nuovi ceti popolari ha un lavoro
stabile, vive in una casa di proprietà, ha senso dello Stato, crede in Dio e
non ha un buon giudizio del sindacato: il profilo dell’elettore tipico di
destra…
E qui il vero problema è costituito, come dire, dalla capacità (politica, e
dunque dei governi) del capitalismo di preservare sicurezza e benessere.
Perché, ad esempio, qualora la fascia del lavori flessibili dovesse estendersi,
e il ruolo delle istituzioni ridursi, malcontento, sfiducia, senso di
insicurezza, per ora contenuti, potrebbero estendersi. E così anche il rischio
di pericolose oscillazioni tra forme di individualismo nichilistico e di rigida
chiusura identitaria.
Resta poi un fatto non secondario: “ I nuovi ceti popolari”, scrivono gli
autori, “rimangono fondamentalmente favorevoli all’intervento dello stato: il
liberismo in economia è ancora molto marginale tra questi gruppi, che esprimono
una forte richiesta di protezione pubblica. Non a caso, il dato sul ruolo dello
stato in campo sociale riceve un largo consenso, straordinariamente stabile” .
E probabilmente, da come in questi giorni si sta muovendo Berlusconi, ma
soprattutto Tremonti, la destra sembra aver capito la lezione. Ed è possibile
che stia cercando di dare risposta a due richieste collettivamente molto
sentite a proposito di crescita del potere d’acquisito (mediante riduzioni
delle tasse) e della sicurezza ( attraverso una severa repressione, soprattutto
della cosiddetta “microcriminalità”).
Per farla breve: i nuovi ceti sembrano accettare la sfida del capitalismo
postmoderno, ma chiedono di non essere lasciati soli.
E qui il discorso si fa piuttosto interessante sotto l’aspetto politico, perché
il precedente governo di centrosinistra, dispiace dirlo, ma non aveva
praticamente capito nulla... Limitandosi a compiacere i poteri forti e a
liberalizzare in modo indiscriminato, tassando però case e lavoro, eccetera.
Risultato: le fasce sociali più deboli si sono ritrovate esposte ai rischi di
una eccessiva flessibilità. E hanno votato contro, puntando sulla destra.
In conclusione i nuovi ceti popolari, chiedono più Stato. Proprio come pare
sostenere Tremonti... Attenzione: non più statalismo, ma garanzie e protezioni
che rendano i processi di trasformazione economica in atto, più controllabili e
meno socialmente dirompenti. Si tratta di una cultura della socialità pubblica
che il precedente governo Prodi ha mostrato di non possedere.
E per questo è stato punito.
Carlo Gambescia