venerdì 28 luglio 2006


Riflessioni (serie o quasi) sulla politica italiana
Tra il dire e il fare...



Alle riflessioni (semiserie) sulle culture politiche italiane è giusto farne seguire una conclusiva (e seria, o quasi) sulla crisi degli ideali politici in genere. E in particolare sul "divorzio" tra ideali e pratica politica. O se si preferisce tra  il dire e il fare.  Un problema che non riguarda solo l'Italia. Ma l'intero Occidente.
Di solito ci si ricorda o ci si accorge di questa cesura quando scoppia qualche scandalo politico e finanziario. Allora, subito, si ritorna a parlare di questione morale e di ruolo guida della classe politica. Si sostiene, e non a torto, che la politica è soprattutto, senso delle regole e onesta condotta di vita da parte dei politici. Governanti e governati, come si diceva nell’Ottocento liberale, sarebbero legati da un patto di protezione e obbedienza, che trae costante alimento dal richiamo ai grandi ideali morali di giustizia e bene comune, che chi governa deve rispettare e perseguire.
Il patto richiede però un clima di costante fiducia e stima reciproca tra chi protegge (il governante) e chi obbedisce (i governati). Per usare una metafora “matrimoniale”, ai due sposi non è richiesto di amarsi ardentemente per sempre, ma come accade nei matrimoni riusciti, solo di consolidare e sublimare la passione nell’ affetto costante, frutto di stima reciproca e fiducia in un progetto condiviso. Sono questi, in breve, i sentimenti che cementano i patti privati, pubblici e politici.
Purtroppo, il problema delle attuali democrazie liberali, compresa la nostra, è che il rapporto fiduciario tra cittadini e classe politica si è incrinato.
Senza farla troppo lunga, si può dire che il periodo della “passione” risale alle grandi rivoluzioni liberal-nazionali ottocentesche. Quello dell’ ”affetto”, o del primo consolidamento, al periodo che precede la prima guerra mondiale (segnato dal progresso sociale ). Mentre quello del secondo consolidamento, va dal 1945 al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Dopo di che si è aperta, e non solo in Italia con Tangentopoli, una fase distinta da scandali politici, finanziari, e dal conseguente “disamore” dei cittadini verso la classe politica: una reazione che i politologi hanno definito “antipolitica”. Dal momento che in Italia, ma anche altrove, ha premiato movimenti politici “populisti”, assai critici verso le istituzioni politiche liberali, così fredde e burocratiche. Del resto già tra le due guerre mondiali, si era avuta una prima crisi di fiducia nei riguardi della democrazia formale e dell’economia liberale. Che sfociò nella democrazia totalitaria, sostanziale, gerarchica e carismatica, poi spazzata via dalla guerra mondiale. E che oggi molti studiosi assimilano sbrigativamente alla democrazia diretta per cui si battono i movimenti populisti contemporanei.
Ma perché la fiducia si è di nuovo incrinata?
In primo luogo, perché è mancato un ricambio sociale effettivo. Le classi politiche continuano tuttora a esprimere una classe dominante o di tipo partitocratico (che proviene dai partiti), o manager-cratico (che proviene dall’ impresa privata e pubblica). La società civile - o comunque, chi non ha rapporti con la politica e l’ economia - è automaticamente esclusa dal potere. E la mancanza di ricambio favorisce corruzione, scandali, e di riflesso quel crescente discredito che rischia di travolgere prima o poi l’intera classe dominante.
In secondo luogo, la caduta dell’Unione Sovietica, ha reso inutile il patto welfarista, che, proteggendo e trasformando le classi inferiori in ceti medi, doveva impedire il temuto contagio rivoluzionario. Tuttavia le politiche liberiste, che sono seguite, stanno provocando, proprio nelle nuove classi medie occidentali, crescente disagio e scontento verso partiti e istituzioni, anche di sinistra, sempre meno attenti verso i bisogni collettivi.
E quanto più si diffondono insicurezza, scontento sociale, e un senso di impotenza individuale, alimentato da scandali di ogni tipo, tanto più cresce tra la gente la tentazione collettiva dell’ antipolitica. Che non è come affermano i politologi liberali una negazione della politica: l’agire politico ha migliaia di anni di vita, e non può nascere e finire con le istituzioni liberali, che hanno appena due secoli di vita. L’antipolitica è anche volontà di partecipazione, cambiamento e bisogno di purezza. E’ un ritorno al momento collettivo della passione e dei grandi ideali. O meglio, rappresenta la domanda di un nuovo genuino patto politico che sappia interpretare il bene comune. E sta ai partiti, mutare rotta e intercettarla.
Ma per quello che riguarda l'Italia, abbiamo già osservato, la frammentarietà delle sue culture politiche (a destra come a sinistra), e quindi l'impossibilità, almeno per il momento di un'inversione di rotta.
Di qui un grande rischio. Quale? Che prima o poi, possa spuntare il solito "buon tiranno"( magari con il beneplacito statunitense) che, con il sorriso sulle labbra e un nodoso bastone nascosto dietro la schiena, promette ai cittadini inquieti pace, sicurezza e benessere...

Sarebbe la fine della politica, la fine della democrazia, la fine di tutto. E chissà per quanto tempo. 

Carlo Gambescia

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