martedì 12 giugno 2012

La crisi economica tra "craze" e tentazioni dirigiste


Che cosa vogliono le Borse? O meglio le società di investimento che vi sono dietro? Fare profitti, comprando e vendendo di tutto. E a danno - esclusi i propri investitori - di tutto e tutti. E più la situazione si fa instabile, più crescono i profitti speculativi. Qualcosa di molto difficile da controllare. Come abbiamo scritto in un post precedente ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/search?q=craze+   )  siamo davanti a un fenomeno  a metà strada tra sociologia, psicologia sociale e antropologia. Ma come si dice, repetita  juvant.
A cosa ci riferiamo? Al craze (mania, smania, voga). Si parla di un atteggiamento di tipo emulativo e aggregante. Semplificando,  il craze può essere paragonato al timore di perdere il treno sul quale tutti stanno invece salendo... Treno che potrebbe passare una sola volta ... nella vita...  Perché perderlo allora?  Il concetto risale a Neil J. Smelser, sociologo americano, autore di un dotto studio  uscito  circa mezzo secolo fa (Theory of Collective Behavior, trad. it. Vallecchi, 1968, pref. di Francesco Alberoni). Il craze, fenomeno collettivo che secondo Smelser  è possibile rilevare  anche in altri campi della vita sociale (bandwagon politico, revival religioso, moda), rimanda come  sfondo   culturale   alla credenza,  piaccia o meno, nella possibilità di arricchirsi. Perciò, attenzione, lo ritroviamo in due precisi momenti:   prima - in termini positivi - alla base di un boom speculativo, dopo - con segno negativo - nella successiva fase di fuga dagli investimenti, per non perdere quel  "treno", per restare  in metafora, che ora  invece va in direzione opposta.  Ma cediamo la parola a Smelser: “L’ansietà sorge dall’incertezza sugli esiti degli investimenti abituali delle ricchezze e dall’incertezza sui modi per valorizzare gli investimenti. Questa incertezza, comunque, non porta al panico finché c’è del capitale con cui risolvere il problema. Questa combinazione unica di incertezza, più una quantità di capitale, produce la credenza generalizzata che le incertezze possano essere superate con l’uso di adeguati correttivi” (trad. it. cit., p. 364).
La  frase  chiave per collegare il craze alla crisi in corso   è  “finché c’è capitale con cui risolvere il problema”. Un capitale garantito - attualmente - dai bassi tassi di interesse e dal rifinanziamento pubblico delle banche. E qui si pensi all’ intervento Ue in favore delle banche spagnole.

Quale alternativa? Far fallire le banche e di  conseguenza tagliare la liquidità e  quindi  la  stessa  possibilità di finanziamento della speculazione.  A che prezzo però?   Di provocare una recessione ancora più grave di quella in atto. Un vicolo se non  cieco, molto molto stretto...  Dal quale, secondo alcuni, si potrebbe uscire, nazionalizzando le banche e introducendo misure dirigistiche. Però il dirigismo imporrebbe il passaggio a un’economia chiusa.  E qui sorge un  altro quesito: dirigismo autarchico, d'accordo,  ma  a quale livello?  Nazionale, continentale, mondiale? A livello nazionale sarebbe possibile, ma con risultati disastrosi per il tenore di vita. A livello continentale, forse, ma sotto l’egida dello  strapotere politico-economico di stati-guida e con costi sociali non indifferenti. A livello mondiale, infine, dirigismo e autarchia, implicherebbero il ritorno a guerre fredde,  sempre suscettibili  di  trasformarsi  in guerre calde...  

Carlo Gambescia

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