Diciamo subito una cosa antipatica. David Lynch, ora scomparso, fece bene a scegliere il cinema e la televisione perché la sua opera pittorica, come prova il quadro in copertina, era ed è inguardabile (*). Certo, se poi vi si filosofeggia sopra, tutto è possibile…
Però, a dire il vero, anche la sua opera cinematografica non ha mai destato più di tanto il nostro interesse. Altro giudizio in controtendenza. Sì, guardabile, però con troppi canditi.
Nei suoi film si esagera con i richiami simbolici: troppo di tutto, come quei panettoni con troppi canditi, che alla fine disgustano e rovinano il Natale.
Ovviamente parliamo di un rispettabilissimo cineasta, dedito alle
pellicole d’autore, però con concessioni come “Twin Peaks”, capolavoro
quanto si voglia nel suo genere, ma inizialmente prodotto alimentare.
Nell’opera di Lynch, probabilmente perché regista americano, e che
quindi doveva fare i conti con Hollywood, si scopre un lato alla
Buffalo Bill, che potemmo definire da rodeo onirico. Che pur essendo
onirico resta rodeo. E la critica alla dialettica negativa dell'illuminismo? La si lascia a Marzullo.
Come comproviamo la nostra tesi? Citando, per contrasto, un altro
regista, altrettanto amante delle belle arti, ma anche scrittore
prolifico e non banale, poco tradotto in Italia. Chi? Peter
Greenaway, però britannico, quindi meno coinvolto nei rodei, di quattro
anni più vecchio di Lynch (1942 vs 1946), vivente. Il che spiega pure la vittoria al botteghino per 2 a 0 di Lynch e la buonissima stampa su di lui.
Crediamo sia impossibile trovare nell’opera di Lynch un capolavoro come “Il ventre dell’architetto” (“The Belly of an Architect”), girato da Greenawey, nel 1987, in una Roma, senza isole pedonali, al tempo stesso reinventata ma autentica, vera, polverosa, pesante e corrotta sotto le luci cinefile e notturne di un Pantheon torreggiante che oppone gli antichi ai moderni, mai visto prima.
Un film sulla decadenza, che abbraccia per immagini, trama, recitazione, musiche (di Wim Mertens, compositore di bravura non comune), la crisi dell’idea illuminista di purezza e perfezione, che Greenawey coglie nell’illuminismo negativo dell’Altare della Patria romano, che dovrebbe ospitare una mostra curata dall’architetto, il cui ventre è nel titolo del film. Una mostra su Boullée, anch’egli profeta criptoilluminista di una grandiosità urbanistica che affascinerà persino Hitler.
Greenaway scolpisce per immagini il rovesciamento di una grandezza che non c’è mai stata, o che è sfuggita di mano agli assegnatari storici. Una pericolosa "fame" di grandezza che va da Boullée a Speer? Forse.
Senza esagerare in canditi, che pure non mancano, resta memorabile la chiusa del film. Che consacra il suicidio dell’architetto, Stourley Kracklite, interpretato da un ben diretto Brian Dennehy (lo scerifffo di “Rambo”), che, nonostante la tentazione dell’oro, desidera ancora pianificare grandiose città. E senza badare a spese. Ma come? Se utile e funzionale sembrano ora prevalere? L’Occidente come Crasso, prigioniero dei Parti, sarà costretto a soffocare nel suo oro, versatogli in gola dai carcerieri? No comment.
Basta. Ammalato, tradito, anche dai suoi finanziatori, Kracklite, si lancia dalla terrazza delle Quadrighe, volo finale senza angeli, che simboleggia la capitolazione della ragione davanti agli effetti perversi e imprevisti del suo bisecolare e non facile esercizio. Suicidio dell’Occidente? Il rischio c’è.
Probabilmente sbagliamo, però a Lynch continuano a preferire Greenaway.
Carlo Gambescia
(*) Qui una scelta: https://knightfoundation.org/articles/david-lynch-unified-field-pafa/ .