mercoledì 20 novembre 2024

Giorgia Meloni e le parole come pietre

 


Quando Giorgia Meloni replica alle critiche, oppure contrattacca quasi sempre in modo tagliente, viene subito da pensare che sarà molto difficile liberarsi di lei.

Perché funziona così: Giorgia Meloni viene attaccata dalla sinistra su un fatto specifico, lei risponde in modo sarcastico, e finisce lì. Non c’è un rilancio da parte della sinistra. E soprattutto, quando e se la polemica prosegue, si discute della replica della Meloni, quindi si accetta di scendere su un piano a lei congeniale.

Si pensi, per fare un esempio, alle discussioni sui social: a un certo punto non si sa più di cosa si discute e soprattutto delle cause della discussione. Ci si “attacca” ai commenti successivi. In questo modo però il cuore della questione si trasforma in miraggio. C’è un’espressione dialettale (“ in romanesco”) che rende bene l’idea: “buttarla in caciara”.

Facciamo subito un esempio. Si prenda la vicenda dell’attacco ai giudici italiani da parte di Musk. Come abbiamo scritto (pardon per l’autocitazione), siamo davanti al

“disprezzo tipico del cesarista, o aspirante autocrate, verso i giudici. Trump, Musk e gli altri esponenti delle destre europee non accettano la divisione dei poteri né la funzione di garanzia del giudice, il ruolo di contrappeso di un potere terzo. Per dirla fuori dai denti, Musk ha mollato un calcione allo stato di diritto. Il mantra autocratico del cesarista è semplicissimo: il potere politico di Cesare non deve incontrare ostacoli. Soprattutto quando è votato da tutto il popolo o da una larga maggioranza di esso. Per il cesarista la minoranza non merita alcun rispetto e il giudice deve attenersi al volere della maggioranza. O, altrimenti, come dichiara Musk, ‘ andarsene’ ” (*).

Si tratta di qualcosa di veramente grave. E qual è stato il comportamento di Giorgia Meloni? Da manuale del depistaggio argomentativo.

Nell’immediatezza, cioè la settimana scorsa, la Meloni ha taciuto, non sappiamo se concordando o meno il suo silenzio con Mattarella. Che invece è subito intervenuto, rivendicando il principio della sovranità nazionale. Il Presidente della Repubblica, dispiace dirlo, ha comunque commesso un errore, spostando il tiro dalla difesa dello stato di diritto ( tema indigesto per la destra) a quello delle difesa della sovranità nazionale ( cavallo di battaglia della destra).

Dopo di che – la cosa è di ieri, – Giorgia Meloni è finalmente intervenuta, prima elogiando Mattarella come difensore della sovranità nazionale, poi annientando in modo sarcastico Musk. Ecco le parole di Giorgia Meloni:

‘Tra le tante imprese portate a casa da Elon Musk c’è pure quella di far rivendicare la sovranità nazionale alla sinistra: credo sia più difficile che andare su Marte’ ironizza. E a una domanda sul botta e risposta tra Musk e il capo dello Stato, Sergio Mattarella, Meloni risponde: ‘Penso che le parole del Presidente della Repubblica siano state importanti, sono sempre contenta quando sento difendere la sovranità nazionale ‘ “ (**).

Per ricapitolare: grazie  all'aiutino, intenzionale o meno,  di Mattarella e ai riflessi  lenti della sinistra, Giorgia Meloni  è riuscita a trasporre  l’intera questione sul piano della difesa della sovranità nazionale, aggirando così  la  questione dello stato di diritto a rischio in Italia.  

Ha scelto un terreno congeniale alla destra, capace di far scaldare il cuore populista di molti italiani, anche di sinistra, perché l’ antiamericanismo in Italia ha natura trasversale. Si è dato fuoco alla polveri del nazionalismo: atteggiamento arcaico e pericoloso, largamente fuori tempo, ma non nell’ Italia dimentica della catastrofe del nazionalismo fascista.

Sul piano della poco nobile arte del depistaggio argomentativo, dell’esaltare la pagliuzza nell’occhio dell’avversario, occultando la trave nel proprio, Giorgia Meloni è abilissima, una vera virtuosa del sarcasmo traspositivo. 

I suoi fanatici sui social inneggiano  istericamente alla  capacità  di "Giorggia"  di "asfartare" i nemici. Un clima non proprio da club britannico. Che lei incoraggia, offendendo la logica. E i suoi stessi fans che non si rendono conto di essere presi per il naso.

Si tratta di una “tecnica” collaudata: Femminicidi? La colpa è dei migranti difesi dalla sinistra. Il migrante affoga? La colpa e dei trafficanti di esseri umani, difesi dalla sinistra. E così via.

Ovviamente, fino a quando Giorgia Meloni non decide, come accaduto, di ricorrere al "Piano B". Cioè di scegliere il silenzio e atteggiarsi a vittima della sinistra. 

Anche qui, ecco qualche esempio. Il fascismo? Roba di ottant’anni fa, cavalcata dalla sinistra, perché non ha altri argomenti. I giovani del partito che inneggiano a Hitler e Mussolini? Quattro gatti, strumentalizzati da una sinistra che ha violato la privacy di Fratelli d’Italia. E così via.

Ovviamente tutto ciò avviene grazie alla complicità pavloviana di larga parte dei mass media, a rimorchio da anni dei social e delle piazze televisive. Sicché il depistaggio da argomentativo si tramuta in comunicativo muro di gomma.

Non sarà perciò facile liberarsi di un avversario così pericoloso, capace di usare le parole come pietre.

Abbiamo criticato l’atteggiamento della sinistra. Però va anche detto che se la sinistra spostasse verso l’alto l’asticella dello scontro sociale, rischierebbe l’accusa di fomentare disordini, favorendo così un giro di vite. Se, per contro, la sinistra continuasse a sposare la causa della passività, rischieremmo invece di ritrovarci tra dieci anni con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, La Russa o Nordio al Quirinale e con una nuova Costituzione autoritaria e plebiscitaria. E  magari con l'Italia nelle braccia della Russia e della Cina.

Un bel dilemma. Che fare? La parola ai lettori.

Carlo Gambescia

(*): Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2024/11/musk-e-la-legge-del-piu-forte.html .

(**)Qui: https://www.adnkronos.com/politica/meloni-musk-cosa-ha-detto-oggi-la-premier_7jNOA62kDCXuzyk5POCTAe?refresh_ce .

martedì 19 novembre 2024

G20 Rio. Chi è liberale e chi no

 


Come spiegare in che cosa consiste la differenza tra un leader liberale e un leader statalista? In modo semplice, senza tanti giri di parole?

Si prenda il G20 di Rio. Si è parlato di povertà e fame nel mondo in chiave come al solito decisamente anticapitalista. La cosa però torna utile per spiegare la differenza di cui sopra. Ad esempio la posizione di Giorgia Meloni è più vicina, se non addirittura simile, a quella di Lula, un socialista, quindi statalista tutto d’un pezzo, che a quella di Javier Milei, un liberale, amico della libertà e del libero mercato.

Si legga, in proposito, questa dichiarazione di Milei:

” ‘La maggior parte dei governi moderni, per malizia o ignoranza, insiste sull’errore secondo cui per combattere la fame e la povertà è necessario più intervento statale e più pianificazione centralizzata dell’economia’ , ha esordito Milei. Poi ha aggiunto che ‘ogni volta che uno Stato ha avuto una presenza al 100% nell’economia, che è solo un modo carino di chiamare la schiavitù, il risultato è stato l’esodo sia della popolazione che del capitale e milioni di morti per fame, freddo o crimini’ ” (*).

Per Milei, lo stato non è la soluzione ma il problema. Riesca o meno a trasformare la sua Argentina malata di peronismo, Milei è un liberale. Non c’è da aggiungere altro.

Si legga ora la dichiarazione di Giorgia Meloni:

“ ‘ Se vogliamo raggiungere la sicurezza alimentare, dobbiamo prima di tutto difendere il diritto di ogni popolo e di ogni Nazione di scegliere il modello produttivo e il sistema di alimentazione che reputano più adatto alle proprie caratteristiche’. Ogni Nazione, il ragionamento della premier, ‘ha le sue peculiarità e le scelte non possono che partire dai territori, dalle realtà locali, dalla propria cultura’ ” (**).

Per Giorgia Meloni, al contrario lo stato è la soluzione mentre il mercato il problema.

Si rifletta: qual è il corollario politico del suo ragionamento. Chi difende “le peculiarità ” dei popoli? Lo stato. Quindi in ultima istanza è lo stato che decide se aprire o chiudere al mercato.

Milei fa invece notare che la chiusura al mercato implica “fame, freddo, crimini”.

Chi ha ragione? Milei, che basa le sua tesi su una corretta analisi della storia economica mondiale. Storia che ci insegna che il mercato è apportatore di ricchezza. E che nel 1724 si viveva male. Nulla a che vedere con il 2024 . Di più, la povertà e la fame resistono in quei paesi dove autocrazia, corruzione e protezionismo hanno la meglio, come in Venezuela, Russia, Cuba. O in Africa e Asia dove prevalgono le dittature nazionaliste.

Più ci si chiude “dentro casa”, diciamo così, evocando i demoni dell’identità, più si torna indietro alle economie preindustriali. Quando, in un’economia bloccata, dove i beni non circolavano, bastava un cattivo raccolto per provocare la morte di centinaia di migliaia di persone.

Il libero mercato e diciamo pure la tecnologia alimentare hanno permesso di risolvere ciò che era un problema basico dell’umanità: la popolazione cresceva, però che cosa accadeva? Che a un certo punto, poiché il mercato era frazionato in tanti piccoli stagni (comunali, regionali, nazionali), i prodotti non circolavano, e così non si riusciva a nutrire tutti. Di conseguenza, il sovrappiù sottoalimentato moriva. E si ricominciava, fino a una nuova crisi e così via. E così è stato fino a quando scienza, tecnica e mercato non hanno permesso, negli ultimi tre secoli, una moltiplicazione dei beni che, dal punto di vista retrospettivo, ha del miracoloso.

Pertanto, invece di strapparsi i capelli sui 700 milioni di poveri, oggi esistenti, più o meno la decima parte dell’umanità, e di maledire “il capitalismo”, si dovrebbe ricordare e sottolineare, anche con giusta soddisfazione, che nel 1724, i poveri erano quasi i nove decimi dell’umanità (***).

Il sistema capitalistico funziona. Però per funzionare ha necessità di frontiere aperte e massima libertà individuale di viaggiare, migrare, commerciare, inventare. Ma diremmo pure di conoscersi, amare, ammirare, scoprire.

A tale proposto, non si può non definire inquietante quanto dichiarato da Giorgia Meloni sul rapporto tra tecnologia e beni alimentari. Si legga qui:

È ‘fondamentale il ruolo della ricerca’ ma ‘non per produrre cibo in laboratorio’ che significherebbe andare verso un mondo nel quale ‘chi è ricco potrà mangiare cibo naturale e a chi è povero verrà destinato quello sintetico’. E’ uno dei concetti che, secondo quanto si apprende, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito al G20 di Rio de Janeiro, ripetendo che quello non sarebbe ‘il mondo nel quale voglio vivere’ ” (****).

Roba da complottisti alimentari, stupidaggini che partono da due pre-assunti sbagliati. Il primo, antiscientifico che attribuisce al cibo sintetico un valore non nutritivo. Il secondo, classista, che preconizza una futura realtà piramidale di tipo fantascientifico.

Insomma, Giorgia Meloni, naviga intellettualmente (parola grossa) tra pregiudizi antiscientifici e fantascienza. E questo perché la sua cultura della tentazione fascista la spinge inevitabilmente a odiare il libero mercato e disprezzare la libertà tout court. Soprattutto quando parla di difesa delle identità collettive, la Meloni cade nello stesso errore storico del nazionalista che vedeva e vede nella libertà individuale non un’opportunità ma un ostacolo.

Un’ultima cosa. In Italia la sinistra ha vinto le regionali in Emilia-Romagna e in Umbria. La cosa può anche fare piacere a coloro che avversano il governo Meloni. Però c’è un fatto: che, al momento, questa sinistra (a maggior ragione se in “campo largo”) non è liberale. Addirittura estremizza le sue posizioni anticapitaliste.  Si pensi solo alla monomania welfarista.

Detto altrimenti: è lontana da Javier Milei come lo è Giorgia Meloni. 

Cosa significa?   Nulla di buono. Che la sinistra estrema e la destra estrema si toccano.

E questo è un grosso problema.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/19/milei-firma-la-dichiarazione-finale-del-g20-ma-la-critica_4f5ccf3d-d80f-4648-9929-810587296b57.html .

(**) Qui: https://www.adnkronos.com/politica/g20-italia-alleanza-contro-fame-e-poverta_72BKtivE1zMMO2navzshm1?refresh_ce#google_vignette .

(***) Sul punto si vedano: Sergio Ricossa, Storia della fatica, Armando 1974 (economista) e Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici, Euroclub, Milano 1996 (storico). Nonché, Hans Rosling, Factfulness. Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo, Rizzoli 2018 (medico e statistico).

(****) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2024/11/18/meloniitalia-aderisce-convinta-allalleanza-contro-la-fame_a069fbe7-5214-4c89-81af-74c2f58f3859.html .

lunedì 18 novembre 2024

Femminismo di destra?

 


Qual è il lascito principale del Novecento? Diciamo maledetto? L’ ideologia come braccio armato dell’intolleranza. Cioè del pensare, ma sempre contro qualcuno o qualcosa. Parliamo di un odio capillare, sistematico, organizzato, incarnato dal fascismo, dal nazionalsocialismo, dal comunismo.

A differenza del liberalismo, che prima di ogni altra cosa (quindi anche dei possibili difetti “ideologici”) è una mentalità aperta e tollerante, l’ideologia divide il mondo in buoni e cattivi. E al tempo stesso, cerca di appropriarsi delle idee altrui, riconvertendole in proprie. Le famigerate Gramsci-strategie a destra, che hanno ormai superato i cinquant’anni.

Si pensi a una tematica come quella femminista, che non è altro che un portato della moderna idea di eguaglianza, nel senso di perseguire la parità di diritti tra uomo e donna.

Nonostante questa diversità di Dna culturale, la destra, soprattutto quella al governo in Italia, dalle radici fasciste, sembra rivendicare ciò che si potrebbe definire il femminismo di destra, come provano convegni, incontri e pubblicazioni. 

In realtà qualsiasi tentativo di collegare destra, “quella” destra, e femminismo assume inevitabilmente valore ossimorico. Per dirla alla  buona, si pensi ai famosi cavoli a merenda.

La destra ha sempre posto l’accento sulla madre, o comunque sulla donna impegnata nelle attività di cura: lavoro domestico, di maestra, infermiera, ma anche “soldatessa” come nel caso della famose “Ausiliarie” della Repubblica di Salò, impiegate però nelle retrovie in attività appunto di cura e di sussistenza.

Nonostante ciò, può anche essere comprebsibile che un partito, che ha come leader una donna, Giorgia Meloni, presidente e “madre”, come non a caso si sottolinea, si sforzi di delineare la figura della donna di destra. Un’operazione però molto a tavolino, puro costruttivismo ideologico in stile Novecento.

Che tuttavia – ecco il pericoloso strascico ideologico – assume l’aspetto della ricerca di identità contro qualcosa. Per capirsi: A non può essere B. Quindi siamo davanti a un discorso non inclusivo. Nel caso specifico si va contro l’idea di una famiglia fluida (semplificando). Il concetto di esclusione per la destra è un fattore unificante. Il che spiega la lotta all’ultimo sangue contro la famiglia B che non può essere famiglia A, lotta che accomuna uomini e donne di destra.

Ciò significa due cose: 1) che il femminismo di destra è tradizionalista e 2) che si impone di combattere il femminismo di sinistra, visto come veicolo, altro tema gradito agli uomini di destra, di cultura woke, cancel, transgender: l’ultimo grido in tema di cultura catalizzante l’odio della destra.

Il femminismo di destra in parole povere si schiera con la normalità, o meglio con ciò che ritiene sia la normalità, a partire dalla difesa della famiglia tradizionale. Un vero e proprio assunto storico e logico.

Perché? Per il semplice fatto che la cultura di destra rifiuta il liberalismo, e rifiutandolo, disprezza il pluralismo, quindi l’idea stessa di una famiglia plurale. E, cosa più grave ancora, il diritto, uguale per tutti e tutte, di sposarsi o mettersi insieme con chiunque si desideri, con i diritti che ne discendono in termini di prole, gestione familiare, eccetera.

Insomma, una volta sfrondato il femminismo di destra dagli inutili orpelli della retorica contro la sinistra, non resta che una visione tradizionalista, prima che della donna, del mondo. Il pre-assunto dell’ assunto di cui sopra.

Un vicolo cieco. Perché tradizione significa ripetizione del medesimo attraverso la trasmissione generazionale. Pertanto già nell’atto stesso di tradere (trasmettere, tramandare) si rivela la negazione di ciò che non viene trasmesso (giudizio di valore incluso).

E poiché la tradizione è  invitabilmente gerarchia (di valori e di uomini in primo luogo), la parità dei diritti, concetto moderno per eccellenza, con tutto quel che ne consegue, è qualcosa di totalmente inaccettabile per la destra.

Di qui, una volta esauritosi il fumo propagandistico degli attacchi portati contro la sinistra, si può scoprire quel nulla  che caratterizza un pensiero che non ha mai accettato la modernità. E  che quindi non è del mondo (moderno) e che  non vuole neppure parlare al mondo (moderno). La negazione sublima l'incapacità.

Si pensi a una grande questione come quella della maternità surrogata, che la destra ha liquidato brutalmente come “utero in affitto” e tramutato in reato universale. Un problema di libertà della donna meschinamente retrocesso a comportamento sanzionabile penalmente.

Ecco un bellissimo esempio di femminismo di destra. Roba da vergognarsi.

Carlo Gambescia

domenica 17 novembre 2024

Mille ma non più mille? La dichiarazione G7 sull’Ucraina

 


Si dice che la diplomazia non debba mai usare toni forti. E che il senso di una dichiarazione debba essere colto tra le righe. Insomma, per farla breve, i confini tra diplomazia e ipocrisia non sono mai ben delineati.

Come si può cogliere allora il senso di un documento diplomatico? Non tanto da quello che dice ma da quello che non dice.

L’ipocrita, in generale, è chi parla o agisce fingendo virtù o altre buone qualità: sentimenti che in realtà non ha. L’ipocrita dissimula, al fine di ingannare gli altri per guadagnarne il favore.

Scendendo di un gradino, l’ipocrita politico è chi dice di volere una cosa, ad esempio la pace, mentre il realtà ne vuole un’altra, la guerra. Ovviamente vale anche il contrario: si parla di guerra , ma sotto il tavolo si fa piedino (di pace) con il possibile vincitore.

Sotto quest’ultimo aspetto si legga la dichiarazione, di “sostegno a Kiev”, rilasciata, su iniziativa dell’ineffabile Giorgia Meloni, attualmente alla presidenza G7, in vista, come si scrive, “del millesimo giorno dall’inizio della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina”. Dichiarazione ovviamente concordata con gli  altri leader.

Sostegno duraturo all’Ucraina.
Noi, i leader del Gruppo dei Sette (G7), riaffermiamo il nostro fermo sostegno all’Ucraina per tutto il tempo necessario.
Rimaniamo solidali nel contribuire alla sua lotta per la sovranità, la libertà, l’indipendenza, l’integrità territoriale e la sua ricostruzione. Riconosciamo anche l’impatto dell’aggressione della Russia sulle persone vulnerabili in tutto il mondo.
Dopo 1.000 giorni di guerra, riconosciamo l’immensa sofferenza sopportata dal popolo ucraino. Nonostante queste difficoltà, gli ucraini hanno dimostrato una resilienza e una determinazione senza pari nel difendere la propria terra, la propria cultura e il proprio popolo.
La Russia resta l’unico ostacolo ad una pace giusta e duratura. Il G7 conferma il proprio impegno a imporre gravi costi alla Russia attraverso sanzioni, controlli sulle esportazioni e altre misure efficaci.
Restiamo uniti con l’Ucraina
” (*) .

Se ci si passa l’espressione “la ciccia” della dichiarazione è nella chiusa: “Il G7 conferma il proprio impegno a imporre gravi costi alla Russia attraverso sanzioni, controlli sulle esportazioni e altre misure efficaci”.

Non si parla di fornitura di armi (truppe, per carità…), ma di “altre misure efficaci”. Il massimo della genericità. Ovviamente, “per tutto il tempo necessario”, come si legge. Tanto la pistola è scarica. Insomma, in un momento così grave, si sceglie l’indeterminatezza, o peggio ancora la superficialità. Quasi un’ offesa all’intelligenza del popolo ucraino.

Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti d’America prendono tempo. Con la presidenza Trump alle viste può essere compromettente  parlare di armi all’Ucraina. Armi che però sono l’unico mezzo efficace per evitare che Kiev soccomba.

Che dice, in sostanza, il documento? Sanzioni economiche sì, aiuti militari ni. Non si chiude del tutto la porta, però, da quel che si capisce, se gli Stati Uniti dovessero fare un passo indietro, sarà difficile che gli altri membri assumano il compito di rifornire militarmente l’Ucraina. Diciamo che è possibile ma poco probabile.

Ovviamente Zelensky, che conosce le regole diplomatiche, ad alto tasso di ipocrisia, ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, anche perché del piano di pace di Trump si sa poco, e ancora meno delle eventuali reazioni russe. Quindi è prudente attendere, per scoprire le carte di amici e nemici. Ottima scelta.

Fin qui la diplomazia. Però, per dire le cose fuori dai denti, il bicchiere degli aiuti militari all’Ucraina è mezzo pieno o mezzo vuoto? Diciamo che, stando a Borrell, l’aiuto militare americano è del 25 per cento superiore a quello europeo (**). Di conseguenza, se gli Stati Uniti a gennaio dovessero fare un passo indietro, per l’Europa sarebbe complicato colmare il vuoto. Soprattutto per questioni legate ai tempi di una riconversione bellica, anche se parziale, dell’economia europea.

Ovviamente volere è potere. Se l’Europa volesse potrebbe riconvertire la propria economia in chiave militare (“regoletta” di coerenza, che non vale solo per le “riconversioni ecologiche”, buoniste). Il problema è che l’Europa sembra essere caduta prigioniera della propaganda pacifista, una forte pressione, anche a livello mediatico, che indebolisce le difese immunitarie europee. Comunque sia, la riconversione militare, richiede tempo, e all’inizio, grosso modo almeno per un anno secondo gli esperti, la linea di rifornimento bellica subirebbe seri contraccolpi, con gravi conseguenze per le linee di difesa ucraine.

Il nostro pensiero è che per l’Ucraina si preparano tempi durissimi. Gli Stati Uniti, si avviano a recitare il copione, con le pagine macchiate di caffè, del 1914-1917 e 1933-1939: quello di un isolazionismo stupido e controproducente che finirà per favorire Russia e Cina e altri possibili servitori geopolitici.

D’altra parte, con una Nato priva del sostegno americano, l’ Europa, debole e disunita, potrà fare ben poco. La triste ratio della dichiarazione G7 a trazione Meloni potrebbe essere: “Mille ma non più mille”. Il contrario insomma di quel che si celebra a parole.

Il che spiega il trionfo di un’ipocrisia, per dirla con Machiavelli, che è dissimulazione della debolezza, non della forza. In qualche misura di necessità si fa virtù. O per dirla con François de La Rochefoucauld, per l’ennesima volta abbiamo la prova che purtroppo “l’hypocrisie est un hommage que le vice rend à la vertù”.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.governo.it/it/articolo/dichiarazione-di-sostegno-all-ucraina-da-parte-dei-leader-g7/27056.
(**) Si veda qui ad esempio: https://www.analisidifesa.it/2024/11/quasi-tutti-consegnati-gli-aiuti-militari-statunitensi-allucraina/ .

sabato 16 novembre 2024

La telefonata di Scholz a Putin

 


"Confusione/Confusione /Mi dispiace/ Se sei figlia della solita illusione" cantava Lucio Battisti… Ecco, il primo apporto di Trump, ancora privo dei pieni poteri, è quello di  accrescere la confusione, già presente sul campo, ovviamente anche diplomatico. E qual è l’illusione? Quella di far venire a miti consigli Mosca rilanciando su parole e frasi fatte, tratte dal repertorio pacifista. Del resto, Trump, come dice,   tempo  24  ore  risolverà tutto. 

La stessa telefonata di Scholz a Putin, di cui oggi parlano i giornali, non è altro che la figlia vigliacca della “solita illusione” pacifista. “Perché morire per Kiev?”, come fu per Danzica fino al 1939. E Scholz, cedendo all’invasore e al clima di incertezza instaurato da Trump, che però promette di risolvere problemi come Mister Wolf,  ha alzato per primo il telefono. Il pavido, quando la confusione incalza, cede. “Buonasera Dottor (Putin)”, cantava tanti anni fa una bella ma lagnosa Claudia Mori, gorgheggiando al telefono con l’amante…

Al di là delle battute canore, gradite o meno, da più due anni ci siamo assunti su queste pagine l’ingrato compito di Marco Porcio Catone. O più modernamente di una specie di Dottor Stranamore. Cioè di sottolineare la necessità di dare una salutare lezione a Mosca fornendo le armi necessarie e gli uomini all’Ucraina aggredita dai russi. Non per bellicismo congenito. Ma per contrastare la sindrome del conquistatore, o del carciofo geopolitico che il conquistatore si vuole mangiare foglia dopo foglia.

Da una parte noi, come pochi altri osservatori, a evocare la guerra, dall’altra i tanti, troppi pacifisti, di ogni colore, persino fasciocomunisti, tutti disposti a cedere all’arroganza russa, perché la pace, eccetera, eccetera.

Si dirà che però armi sono state fornite, aiuti di vario genere anche. Certamente, ma di malavoglia. Senza una linea strategica. Solo per tirare avanti nella speranza di un miracoloso ritiro russo. Quindi, dell’ idea verdoniana , per capirsi, dell’amore per l’Ucraina che è bello finché dura. Di qui incertezza sugli scopi e confusione sui mezzi da usare. Si pensi solo alle oziose discussioni sulla natura offensiva o difensiva delle armi, cedute all’Ucraina. Per la cronaca (storica), inizio anni Trenta, con il Giappone in Manciuria, armato fino ai denti e con Hitler che affilava i coltelli, alla Società delle nazioni si discuteva delle stesse ridicole tematiche. Per poi finire, come tutti sappiamo.

In questo quadro confuso a Occidente, circa le finalità della guerra, Zelensky e la classe dirigente ucraina, inclusi i quadri militari, hanno mostrato dinanzi a un nemico superiore sotto il profilo militare, ma inferiore sotto quello delle motivazioni morali, di avere idee chiare, coraggio, con sconfinamenti, ma solo qualche volta, nel visionario (Trump e Musk possono esserlo, Zelenski no?), nonché dotati di una eccellente capacità di resistenza, che va doverosamente estesa all’intero popolo ucraino. E in particolare alle donne: madri, mogli, figlie che onorano i caduti, trattenendo fieramente le lacrime. Si pensi alla forza tranquilla dei giusti. Si parla di trentamila soldati morti e di diecimila vittime civili. Con la pace di Trump e Scholz sarebbero morti invano.

Certe parole oggi non si usano più. Anzi, quasi se ne proibisce l’uso nel dorato mare di latte e miele pacifista. La parola eroe è mal giudicata.

Tuttavia il popolo ucraino, per come si è difeso, al fronte come nelle città bombardate dai russi, merita pienamente la definizione di eroico. Altro che le lotte italiane per il “salario minimo” e l’ “aumento delle pensioni”. Da un parte un popolo di liberi cittadini, l’Ucraina, dall’altro un manipolo di sudditi, la Russia. Sono parole forti, ma non abbiamo paura di pronunciarle.

Soprattutto quando si pensa a un fatto molto semplice: che sarebbe bastata più decisione da parte dell’Occidente euro-americano per rovesciare le sorti della guerra. Più gusto per sfida. E invece la melassa pacifista, in cui annega la cultura europea, non ha aiutato. Come pure, non ha facilitato il compito della Nato l’ambiguità di non pochi leader politici , a cominciare dai silenzi di Giorgia Meloni. E ora, con l’avvento di Trump, sarà più facile, sfruttare il ventre molle dell’Europa: una cultura pacifista, a destra come a sinistra, fine a se stessa. Insomma, la telefonata di Scholz non è che la punta dell’iceberg.

Tutto sommato Biden, che non dimentichiamo si è ritirato in modo ignobile dall’Afghanistan, sull’Ucraina si è mostrato più deciso. Ora però con Trump, malato tra l’altro di esibizionismo, e con un’Europa, regina dell’anfibologia politica, che non vede l’ora di allinearsi al nuovo egoistico pacifismo americano, la sorte dell’Ucraina rischia di essere segnata.

Confusione, vigliaccheria, rodomontismo, non è la prima volta che accade nella storia dell’ Europa moderna. Si pensi alle spartizioni della Polonia alla fine del Settecento. Ultima quella tra nazisti e comunisti nel 1939-1940. Oppure al silenzio occidentale dinanzi all’insurrezione ungherese nel 1956. E infine al vergognoso ritiro americano dal Vietnam nel 1973 e alla caduta  dello Shah di Persia nel 1979.

E per oggi basta così. Troppa vergogna sulle nostre povere spalle di osservatore metapolitico di un Occidente sull’orlo dell’abisso.

Carlo Gambescia

venerdì 15 novembre 2024

Umbria Ring

 


In un paese normale, diciamo dalle radici protestanti (poi spiegheremo perché), il candidato di turno avrebbe fatto un passo indietro. E invece, anche questa volta, un’ inchiesta giudiziaria è diventata quasi una medaglia da appuntarsi sul petto.

Il caso è quello di Donatella Tesei, Presidente della Regione Umbria, anzi “Governatrice”, della Lega, che, nonostante sia incappata in un’inchiesta giudiziaria, si presenterà domenica prossima agli elettori per un secondo mandato, sostenuta dalle destre.

Quali accuse ? La Tesei risultava indagata ( e l’uso dell’imperfetto ha una sua giustificazione) con l’accusa di abuso d’ufficio in relazione alla gestione dei fondi del Piano di sviluppo rurale. Dopo di che, però, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha inviato al Gip la richiesta di archiviazione alla luce dell’abolizione del reato di abuso d’ufficio, cavallo di battaglia del Ministro delle Giustizia Nordio, che risale al luglio di quest’anno. Richiesta subito accolta dal Gip. Il quale ha archiviato l’indagine a carico della “Governatrice” e di Paola Agabiti , assessore. L’indagine, sembra di capire risaliva al mese di ottobre . I fondi, alcune centinaia di milioni, erano pervenuti all’azienda agricola del marito della Agabiti, a sua volta, come detto, indagata e “archiviata”, azienda presso la quale lavorava il figlio della Tesei (*).

Giustamente nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, però per una questione di onore personale, di correttezza e trasparenza istituzionale il nome di un candidato a una carica politica dovrebbe essere immacolato. “Dovrebbe”, perché poi, destra e sinistra, a turno, cioè in base all’appartenenza politica del candidato, fingono di ignorare questo fatto. Fischiettano e si guardano intorno.

Ad esempio, lo stesso fatto che il reato di abuso d’ufficio non sia più tale, non escluderebbe, come nel caso Tesei, la ricaduta morale. Detto altrimenti: ciò che può essere legale (giuridicamente), può non essere legittimo moralmente.

Perché in Italia si tollerano queste cose? Perché i politici sembrano essere privi di rigore morale? Perché un’inchiesta giudiziaria talvolta diventa addirittura un fiore all’occhiello? Una specie di ferita di guerra, da esibire, come faceva Berlusconi?

Si pensi al caso della Tesei, che però, come detto, per la Procura della Repubblica, non è più un caso. Quindi i nostri sono ragionamenti puramente di scuola. Che vanno oltre le persone coinvolte o meno.

Vanno invece evidenziati due aspetti tipicamente italiani, o comunque tipici dei paesi a modernizzazione tardiva. Che ritroviamo spesso in vicende simili.

In primo luogo, il familismo, fondamentale segno di arretratezza culturale. In secondo luogo, l’altrettanto arcaico sistema del controdono politico: il voto come dono al quale il candidato eletto risponde con un controdono. Un “Kula Ring” (Anello di Kula), secondo la terminologia dell’etnologo Malinowski, non basato sullo scambio di conchiglie e monili, come tra gli indigeni delle Trobriand, ma di voti per finanziamenti pubblici. Saremmo davanti a un “Umbria Ring”. Saremmo, perché l’inchiesta è stata archiviata. E quindi non si può non tenerne conto. Ripetiamo, ipotesi di scuola.

A questo si aggiunga, il criterio controriformistico (nel senso della Controriforma cattolica) della doppia verità secondo la fede politica. L’appartenenza, un tempo religiosa, oggi politica, lava la colpa individuale, il peccatore, ma non il peccato che continua a valere per l’avversario politico. Insomma, un specie di “pass” per la giravolta politica, che conduce inevitabilmente alla distruzione di ogni forma di responsabilità morale individuale a prescindere dall’appartenenza.

Ci siamo limitati  a ricordare solo alcuni aspetti della questione.  Si badi: non che nei paesi, per così dire protestanti, dove l’etica capitalistica si è sviluppata precocemente oggi non esista corruzione o certa irresponsabilità politica ai limiti dell'infantilismo politico come nel caso di Trump.

Tuttavia, ovunque sia passato il treno della rivoluzione puritana, il senso di responsabilità individuale   - diciamo gli anticorpi morali -   è sicuramente superiore rispetto ai paesi a tradizione controriformistica, come l’Italia e la Spagna. Dove ad esempio un premier socialista, nonostante le inchieste giudiziarie, è tuttora in carica.

Carlo Gambescia

(*) Qui per una ricostruzione della vicenda: https://www.ilsole24ore.com/art/umbria-governatrice-tesei-indagata-fondi-agricoli-chiesta-l-archiviazione-AGxGfCr .

giovedì 14 novembre 2024

“DOGE”. Trump non è liberale né liberista. Punto.

 


La storia del “DOGE” (Department of Government Efficiency) annunciato da Trump, con al comando Elon Musk e Vivek Ramaswamy ( un uomo d’affari repubblicano di provata fede trumpiana), va subito chiarita perché non si tratta assolutamente di una scelta liberale né liberista.

I principali think tank italiani, o “serbatoi di pensiero”, che si qualificano liberali, dovrebbero subito smontare mattone per mattone una misura che in realtà è di tipo statalista. In pratica si annuncia di voler istituire un altro Dipartimento. Quindi siamo davanti a un atto di natura politica all’insegna del trumpiano L’ État c’est mois. Altro che la neutralità politica predicata dal pensiero liberale.

Scrive Trump che il compito del nuovo Dipartimento per l’Efficienza Governativa è  quello di “aprire la strada alla mia amministrazione per smantellare la burocrazia federale, sforbiciare le regole in eccesso, tagliare gli sprechi e ristrutturare le agenzie federali”.

Il punto è che una politica liberale non consiste nel moltiplicare i controllori dei controllati, ma più semplicemente nel ridurre il numero dei controllati. Se B controlla C, il problema non si risolve introducendo A perché impedisca a B di controllare C. Ma si elimina semplicemente B.

Il primo liberale (inconsapevole) della storia fu il filosofo francescano Guglielmo di Occam, che con il suo cosiddetto rasoio, consigliò vivamente ai suoi interlocutori, di non moltiplicare, sul piano ragionamento, gli enti non necessari: “Non sunt moltiplicanda entia sine necessitat”. Il succo del suo discorso valido, per ogni ambito e tempo, è di non fare inutilmente con molte cose ciò che si può fare con poche.

Concetto estraneo a Trump. Altrimenti avrebbe rinunciato al DOGE. Frutto invece di una scelta che risponde al criterio politico della minaccia. Per tenere al guinzaglio l’ammnistrazione si impone la moltiplicazione dei controlli. E ci si guarda ben dal ridurre i controlli e conseguenti spese per foraggiare i controlli. Spese, che al di là del valore economico (alto o basso che sia), rinviano alla sconsacrazione di un importante questione di principio: che si fa con molto ciò che si potrebbe fare con poco. Si ignora la lezione di Occam.

Il Presidente vuole imporre la propria volontà politica incutendo il timore di un imminente danno o pericolo che consiste nella soppressione di un ente governativo e nel licenziamento dei suoi membri, se non si obbedirà al nuovo corso. Il che implica che l’alito fedito del governo federale appesterà l’aria più di prima. Altro che fare di nuovo grande l’America… Solo prove tecniche di Big Government

Per semplificare il concetto: il liberista elimina i controlli, lo statalista travestito da liberista li accresce. Si inventa come Trump nuovi dipartimenti. Detto alla buona: nuovi megaministeri.

Del resto Trump – altro errore di alcuni osservatori – non è liberale, perché odia giudici, leggi e minoranze, né liberista, perché, oltre ad essere un protezionista, ai normali controlli istituzionali, politici ne vuole sovrapporre un altro, di tipo iperpolitico, sociologicamente fondato sulla richiesta, più o meno esplicita, di un atto di sottomissione al nuovo ordine, pena il licenziamento.

Al cosiddetto Spoils system, una pratica che risale ai tempi di Jackson e che consiste nella tacita regola che gli alti dirigenti della pubblica amministrazione cambiano con il cambiare del governo, Trump sovrappone  la Spada di Damocle del dipartimento che controlla tutti gli altri dipartimenti. Una specie di Superministero , di cui ancora non si conoscono regole e prassi, con incarico alla minaccia: o paghi il pizzo politico o sei fuori. Roba da racket. Altro che stato minimo…

La retorica trumpiana sui troppi freni rimanda non tanto ai freni economici quanto ai politici. Trump vuole tutto il potere per sé. Ragiona come Tony Soprano. Il che non è esattamente in sintonia con il principio liberale della separazione o divisione dei poteri. E neppure con quello dello sbandieratissimo Law and Order, che invece vale solo per i migranti…

Trump si comporta da monopolista del potere, da accentratore dell’offerta politica. La natura del DOGE prima che economica è politica.

Sono cose che vanno chiarite e divulgate, come dicevamo, dai principali centri di ricerca liberali. Proprio per evitare equivoci.

Carlo Gambescia