sabato 27 luglio 2024

Il fascino della dittatura

 


Capita spesso di leggere elogi, velati o meno, della dittatura, dell’ uomo forte al comando, dei militari come rimedio contro i politicanti, corrotti e chiacchieroni.

Putin, classica figura di dittatore moderno ha non pochi ammiratori in Europa, soprattutto tra i geopolitici rosso-bruni, per usare un termine giornalistico.

La dittatura moderna ha valorizzato l’elemento cesaristico. Nel senso del ricorrere come giustificazione a un mandato democratico, però addomesticato. In qualche misura sarebbe forse più corretto parlare di tirannia: di governo di un solo uomo che viola o elude le leggi esistenti per il bene del popolo, come ipocritamente spesso si sente dire.

Di Putin, ad esempio, si ammira il decisionismo, l’uso della forza militare, l’ordine che regnerebbe in Russia, frutto di un consenso, spontaneo (si dice) e non ottenuto con la forza o con l’inganno.

In quest’ultimo aspetto risiede del vero. In realtà, e non parliamo solo della Russia, ma del rapporto tra potere e consenso in generale, una parte, probabilmente maggioritaria, della gente comune, non chiede altro che ordine e legge, vuole condurre una vita “normale” e non si preoccupa di altro, fin quando non è coinvolta direttamente.

Il fascismo, con i suoi treni in orario, la “mutua”, il dopolavoro, eccetera, non fu sgradito agli italiani. Ma il problema concerne anche le democrazie liberali.

Il concetto da non perdere vista è il seguente: un regime politico (dittatoriale o meno), fin quando non stravolge la vita quotidiana della gente comune non solo è sopportato, ma addirittura sostenuto. Stravolge, in che senso? Ad esempio entrando in guerra, dall’Italia fascista ai generali argentini, oppure subendola come la Francia della Terza repubblica, sconfitta dagli eserciti del Terzo Reich.

Sussiste però una differenza fondamentale: che la dittatura esclude la competizione elettorale o la riduce a farsa, mentre la democrazia liberale la privilegia. Si può criticare, di quest’ultima, l’uso avvocatesco della retorica, la sperequazione dei mezzi economici, la lentezza e la corruzione delle burocrazie, ma non il principio della concorrenza politica che le dittature conculcano o eludono.

Se dalla gente comune si passa all’analisi delle élites politiche, va ricordato che una parte di queste ultime, stregata dal principio di eguaglianza, pretende di introdurlo a tutti i costi, anche con la dittatura. Di qui il fascino delle dittature marxiste e dei vari populismi di sinistra, anche militarizzati. Del resto come si spiegherebbe il perdurante fascino di Cuba e di un populista marxista armato di mitra come Che Guevara?

Ma il discorso può essere esteso anche alle  élites politiche di estrema destra, la stessa destra che tuttora sostiene, senza provare alcuna vergogna, che il fascismo fece cose buone.

Il parlamento, da non pochi di costoro (all’estrema destra come all’estrema sinistra),  è giudicato come una farsa, il liberalismo come una truffa dei ricchi contro i poveri, lo stato di diritto una palla al piede.

Insomma la situazione sembra essere la seguente: la maggioranza della gente, come del resto attesta il non voto, sembra non avere alcuna vocazione politica o propensione verso la dittatura o la democrazia. Basta che le cose funzionino, anche al minimo, ma che funzionino.

Su questo atteggiamento abulico, che rinvia a una socializzazione liberale mancata (o comunque problematica perché impone il costante impegno nei “socializzatori” e nei “socializzandi”), le élites politiche, nemiche della liberal-democrazia, possono tranquillamente edificare le proprie fortune elettorali. Come sta accadendo.

Esiste una soluzione? L’acquiescenza al potere, rinvia a meccanismi inerziali. L’acquiescenza può essere rivolta al bene o al male. La liberal-democrazia è superiore alla dittatura. Ma la cosa non sembra interessare più a nessuno.

Carlo Gambescia

venerdì 26 luglio 2024

Trump & Co. e il dilemma della democrazia liberale

 


Era inevitabile che Trump usasse il passo indietro di Biden come un’occasione per dipingere i democratici come autori di un golpe e nemici della democrazia.

Dall’introduzione storica della democrazia liberale, i suoi nemici – e Trump non è che un epigono – usano i principi democratici per agguantare il potere e poi cancellare la democrazia liberale.

Di regola, viene evocato il potere del popolo, del plebiscito, contro élite dipinte come corrotte, che predicano bene e razzolano male (per dirla alla buona). Da almeno due secoli la stampa di destra pubblica gli stessi articoli e titoli. I nostri Sechi, Belpietro, eccetera, non dicono nulla di nuovo.

Si potrebbe risalire a Napoleone III, foraggiatore di giornali amici e affossatore di un parlamento liberale e di una monarchia costituzionale. Napoleone III prima fu presidente repubblicano poi imperatore per plebiscito.

In seguito Lenin, Mussolini, Hitler usarono i mezzi della democrazia liberale (dalla libertà di stampa allo stato di diritto) per afferrare il potere e poi sopprimere tutto.

Come ci si può difendere dai nemici della libertà che sfruttano la libertà per liquidarla? Mettendoli fuori gioco. Come? Ricorrendo a ogni  mezzo: legale e illegale. E, come vedremo, la cosa  potrebbe non bastare.

Sarebbe ovviamente preferibile la via legale. In Europa, dopo il 1945, in particolare in Germania, si vietò per legge la ricostituzione di partiti nazisti, fascisti e comunisti. Nella Germania occidentale venne istituito un apposito organo che doveva decidere della costituzionalità dei partiti. In Italia, tra le norme transitorie della Costituzione, si introdusse il divieto di ricostituzione del partito fascista.

Nonostante ciò (inclusa una successiva legislazione,   con tentativi perfino  di respiro europeo), oggi in Germania e in Italia, partiti, pur con denominazioni diverse ma di derivazione fascista o comunista, competono ad armi pari con i partiti liberal-democratici, addirittura all’interno del parlamento europeo. In Italia sono addirittura al governo. E il fenomeno riguarda, purtroppo, l’intera Unione Europea.

La legalità non è bastata. Come del resto negli Stati Uniti, dove Trump, grazie al garantismo del sistema giudiziario liberale, è uscito indenne persino dall’accusa di tentato colpo di stato. Il paradosso è nel fatto che il sistema giudiziario statunitense, come in ogni sistema liberale, pur ritenendolo colpevole di varie frodi e abusi (anche sessuali), ha permesso a Trump, a causa di una specie di proceduralismo inerziale, di continuare a insidiare la democrazia liberale.

I suoi avversari si trovano nella strana situazione di competere con un nemico che, una volta al sicuro grazie  a leggi che disprezza e vuole cancellare, rovescia sui democratici le stesse accuse rivolte contro di lui. Trump utilizza il sistema contro il sistema. Per distruggerlo.

Dicevamo del ricorso a mezzi illegali. Illegali rispetto alle norme in vigore, ma perfettamente legittimi rispetto alla difesa dei principi liberali che regolano il sistema. Se la legalità implica la distruzione di una società liberale, va sospesa, per il periodo di tempo necessario a eliminare i suoi nemici in nome della legittimità liberale.

Qui risiede il dilemma della società liberale: una società per pochi, che per reggersi ha necessità dei molti, ma che favorisce, rispetto ad altre società storiche la libertà dei molti.

Per capirsi: a governare, storicamente e sociologicamente sono sempre in pochi, ma, all’interno di queste coordinate metapolitiche, il liberalismo garantisce, rispetto ad altri sistemi, maggiore libertà e migliore tenore di vita. Sono verità lapalissiane eccetto che per i nemici del liberalismo che blaterano, solo per afferrare il potere, di democrazia integrale, articolandola di volta in volta in termini di sovranità popolare, secondo criteri, comunitari, identitari, nazionalisti e razziali. Si potrebbe parlare di una specie di istinto cieco dell’assolutismo politico (sul punto torneremo più avanti).

Si pensi a una dinamica in atto da alcuni secoli tra superlegittimità (la sovranità del popolo, evocata dai nemici del liberalismo come mezzo per distruggere le istituzioni liberali), legittimità (propugnata dai difensori delle istituzioni liberali) e legalità (delle procedure, che mette sullo stesso piano i nemici e i difensori della libertà).

Ovviamente la difesa della legittimità, sulla base del ricorso alla forza, implica alcuni pericoli, che di seguito elenchiamo: 1), quello principale, della volontà di martirio che sfocia nella guerra civile; 2) quello secondario, sempre legato alla martirologia, di ricorso al terrorismo, da parte dei partiti messi fuori gioco; 3) quello di una situazione di stato di eccezione, gestita dalle forze dell’ordine, che rischia di limitare la libertà anche degli stessi membri, in alto come in basso, favorevoli al sistema liberal-democratico.

Il ricorso alla forza, come altre forme di azione sociale, è sempre suscettibile di effetti perversi, contrari alle intenzioni, pur buone, dei promotori.

Il vero punto della questione è che si dovrebbe fare il possibile per non giungere all’uso della forza contro i nemici della liberal-democrazia. Pensiamo ad esempio a una socializzazione liberale e a un’economia di mercato in costante crescita. Insomma a una maturazione che purtroppo la società di massa, con i suoi riti e costumi plebiscitari, non favorisce.

Si rifletta. Già il nostro ragionamento sulla necessità del ricorso alla forza rappresenta un punto a favore dei nemici della società liberale. Fascisti, nazisti, comunisti, oggi mascherati da populisti, sovranisti, isolazionisti, insomma in veste di difensori di un “dato” popolo, si augurano la guerra civile, per poter così dare sfogo a tutto l’odio che hanno in corpo contro la liberal-democrazia. E finalmente distruggerla.

A che scopo? Per imporre una superlegittimità, che, come la storia mostra, dove sono riusciti, non è assolutamente esercitata dal popolo. Cosa che, va ripetuto, rimane impossibile da realizzare in chiave integrale. Infatti, storicamente parlando, la sovranità del popolo ha trovato il suo combinato disposto, per quanto imperfetto, nelle liberal-democrazie. Sotto questo aspetto, metapoliticamente parlando,  da una parte abbiamo  2-3 secoli di esperimento liberale, dall'altra  47-48 di assolutismo.

Conclusioni? Siamo messi male. I nemici della società liberale potrebbero vincere. La storia, tornando sulla questione del “cieco istinto”, parla la lingua dell’ assolutismo, prima per “diritto divino”, poi per “diritto popolare”. Non è facile cambiare le cose.

Purtroppo, sul piano di una specie di superlegittimità, la sovranità, sia nel caso della liberal-democrazia che in quello dei suoi nemici, viene considerata patrimonio del popolo. E il popolo sovrano, come detto, oggi come oggi, segue gli usi e costumi della società di massa. Non immuni da quel cieco istinto assolutista già ricordato.

Bad Moon Rising, per dirla con i vecchi “Creedence”. E non solo sugli Stati Uniti.

Carlo Gambescia

giovedì 25 luglio 2024

Esoterismo liberale

 


Cosa c’entra il liberalismo con l’ottimo libro di Bérard e La Fata? Presto detto.

Che cos’è l’esoterismo tra verità e contraffazioni (Solfanelli*) è uno dei pochi libri, forse l’unico, che tratta la materia in modo, oltre che scientifico, senza apriorismi di tipo ideologico. Fa “parlare” tutti, e in questo senso è tollerante, quindi liberale.

Diciamo che l’ “umilità cognitiva”, virtù caratteristica dello studioso Aldo La Fata, è riccamente apprezzata anche dal suo interlocutore Bruno Bérard, brillante studioso di storia delle religioni e di metafisica (senza dimenticare la puntuale postfazione di Jean-Pierre Brach). E da questa condivisione è nato un ottimo studio.

Come si è capito si tratta di un libro-intervista, o per meglio dire di un libro-dialogo tra due specialisti della materia, che però cercano di parlare al mondo. Qui la differenza con altri lavori prodotti dalle le varie tribù degli esoterismi armati di un esclusivismo che per un  verso gratifica per l’altro nullifica, come spiegheremo più avanti.

Intanto, non un aspetto della materia è dimenticato. La lista è lunga: esoterismo e scienza; esoterismo e religione; storia dell’esoterismo ( o meglio “una storia”), esoterismo ed esoteristi; esoterismo e mistica, esoterismo ebraico, islamico, cristiano, hindù, buddhista, taoista, moderno.

Centrali, almeno a nostro avviso, sono i capitoli sul rapporto tra “esoterismo e metafisica” e tra esoterismo e “umiltà cognitiva” ( qui, i nostri ringraziamenti agli autori per aver ripreso e sviluppato la nostra terminologia). Non meno interessanti i capitoli sulla biografia intellettuale di La Fata e quello conclusivo sulla natura dell’esoterismo.

Dal punto di vista del recensore il volume può essere affrontato seguendo due modalità: 1) in termini di critica interna ( analisi dei punti, delle virgole, eccetera, puntando sul richiamo della foresta delle differenti scuole, di qui però i possibili sposalizi, divorzi, anatemi e conflitti ermeneutici nella più benevola delle ipotesi); 2) in termini di critica esterna tesa a capire e sviluppare il valore metapolitico dell’esoterismo, racchiuso nel volume.

Sotto quest’ultimo aspetto, che è quello che abbiamo scelto (anche per ragioni disciplinari), il volume di La Fata e Bérard rimanda a un approccio che vede nell’esoterismo un “fenomeno di mediazione” (che dialoga con la scienza, la metafisica, la religione), fautore di transizioni sociali. Un fenomeno, che, come sembra di capire, va al di là della dimensione quantitativa del “gruppo esoterico”. In questo senso piace molto – perché a nostro avviso giusta e giustificata – l’ immagine,  proposta da La Fata,  di derivazione guénoniana (se ricordiamo bene) della religione, come esoterismo vittorioso.

Una vittoria che vede la trasformazione in quantità, cioè in religione, di una qualità, ossia l’esoterismo, come sapere di pochi.

Il che – e torniamo al punto – risulta esito di una mediazione, che potremmo chiamare metapolitica, perché esito di un processo di razionalizzazione sociale (in senso moralmente buono; siamo consapevoli del fatto che il termine possa non piacere, ma rinvia alla metapolitica delle regolarità); razionalizzazione, dicevamo, di una “verità” precedentemente di pochi. Per dirla banalmente: il seme mette radici, si trasforma in albero, e l’albero fruttifica abbondantemente

Se non si fa religione – ecco il punto fondamentale – l’esoterismo resta setta o se si preferisce regredisce a fenomeno settario . E qui si pensi alla classica dinamica setta-chiesa studiata da Troeltsch ne Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani , ma anche a quella istituzione-movimento proposta da Alberoni (altra regolarità metapolitica). Detto in altri termini: Tertium non datur .

Un inciso. Sotto quest’ultimo aspetto, la biografia di Aldo La Fata sembra essere un continuo prendere le distanze, per allargamenti cognitivi successivi, da ogni forma di stantio e lunatico tradizionalismo. Un farsi “istituzione”. Ai futuri biografi il compito di approfondirne, al di là del bene e del male, i sulferei apporti evoliani (dal punto di vista del “movimento”), che ovviamente non sono i soli nel brillante quadro intellettuale della formazione lafatiana che include come “padri”, tra gli altri, Panunzio e Guénon.

Perciò la dinamica metapolitica dell’esoterismo sembra essere bidirezionale (processi di inclusione-esclusione, altra regolarità metapolitica): setta-religione; religione-setta. E qui si pensi per un verso alla magniloquente evoluzione delle grandi religioni, e per l’altro alla sorte, a un certo punto involutiva, del buddhismo in India, nonché alla pietrificazione di non poche sette, come ad esempio le misteriche precristiane, o a certe diramazioni desertificanti del protestantesimo e del tradizionalismo cattolico.

Si tratta di un approccio metodologicamente profondo e produttivo che ritroviamo puntualmente in Che cos’è l’esoterismo. Un libro, ripetiamo, che vuole parlare al mondo. Qui il suo liberalismo, la sua tolleranza, frutto di un’umiltà cognitiva sconosciuta ai fautori di un esoterismo settario, o peggio ancora politicizzato. Insomma, come detto, siamo davanti a un’ottima prova, largamente superata, di esoterismo liberale.

Carlo Gambescia 

 

(*) Qui: http://www.edizionisolfanelli.it/checoselesoterismo.htm .

mercoledì 24 luglio 2024

Il fascismo come culto privato (e altre cosette)

 


Cari amici lettori, Fratelli d’Italia ha sposato la causa liberale. Per bocca (non solo) di Ignazio La Russa, seconda carica dello stato, il giornalista della “Stampa”, preso calci da alcuni facinorosi di estrema destra, doveva qualificarsi.

La stessa tesi è sostenuta a proposito delle frasi antisemite, tralasciando inni fascisti e saluti romani, “rubate” da un giornalista a un gruppo di giovani iscritti alla Gioventù Nazionale di Fratelli d’Italia.

Cosa vogliamo dire? Che il culto del fascismo si è fatto privato. La “religione” come questione coscienziale. Il fascismo, come una qualsiasi scelta religiosa, è diventato un fatto di coscienza. Insomma testimoni di Geova e testimoni di Mussolini. Stessa cosa. Un classico del pensiero liberale.La Russa come Tocqueville.

Le “celebrazioni” sono fatti di natura privata e i giornalisti si devono “qualificare”. Anzi essere invitati. Il fascismo non è più ideologia pericolosa, ma una fede privata. Che tutti hanno il diritto di professare. In privato.

Che poi questa gente meni e voti è solo un piccolo dettaglio.

Per gli smemorati: “L’ Asso di Bastoni” – il nome del ritrovo milanese – rimanda al titolo di una testata neofascista, letta dai più facinorosi, che usciva tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Capito l’excursus storico-filologico? Di che panni si vestono costoro?

Notazione di viaggio. Anzi due.

In un comune del Nord mi sono ritrovato, gomito a gomito, a comprare il giornale, con una signora di una certa età, dall’aspetto illetterato, che, tutta ispirata, ordinava il libro di Vannacci. Un regalo forse? Ancora peggio allora… Come ha giustamente sostenuto il giovane amico che mi accompagnava.

Seconda notazione. I treni, nelle due versioni, pubblica e privata (privata si fa per dire), fiori all’occhiello, si diceva e si dice, del fascismo, non funzionano: ritardi di quattro-cinque ore. Giorgia Meloni, la bisnipote, è un fallimento anche in questo. Il che non significa che serva il fascismo per far funzionare i treni. Basta una cosa che si chiama libera concorrenza. Vera però.

Ma la cosa più brutta è la gente. Che subisce passivamente. Il personale del treno si nasconde. A parte una specie di Mago di Oz, che chiuso in cabina annuncia i ritardi. Motivo? Alcune “presenze estranee” sui binari. Che vuol dire? Il vampiro? Un gruppo di zombies? Son tornati i ragazzi della via Pàl…

Quando poi i treni   si  sfasciano e si giunge a destinazione con cinque ore di ritardo ci si ritrova  in un Roma laicissima, come asserisce il sindaco Gualtieri, ma prigioniera –  questo non lo dice – del combinato disposto tra preti e costruttori. Cemento e aspersorio.  Detto altrimenti:  traffico  tipo Dakar niente metro, taxi invisibili e autobus come carri bestiame…

Quindi, a fronte di tutto questo, che sono due ore di ritardo? Perciò sul treno si ride, si fanno battute. Come i comici televisivi. Ormai la scuola è questa, si ride di tutto. Oppure, mentre i cretini ridono, altri restano per ore al cellulare a consumare i loro imbrogli. Si salvi chi può insomma…

E se uno osa dire mezza parola. Trova pure i Tafazzi che difendono le Ferrovie.

Così vanno le cose.

Carlo Gambescia

giovedì 18 luglio 2024

Qualche giorno di relax...

                   



 

Si può trasformare un avviso per i lettori in articolo? Tenterò.

Sì, mi prendo qualche giorno di relax. Diciamo subito che il relax come concetto è borghese, come del resto spiega la derivazione linguistica anglofona. Relax da to relax, rilassare, rilassarsi. In questo caso come forma di distensione fisica e psichica, dopo un sforzo notevole.

Dicevamo borghese. Chi meglio di un britannico, in senso storico, può essere definito borghese? La patria della borghesia e delle libertà politiche ed economiche. Gran Bretagna, patria del liberalismo. Una terra che, suscitando l’invidia di Carl Schmitt, ha conquistato il mare. E attraverso il mare il mondo, dalle Americhe all’India. L’orbe terracqueo per parlare difficile. Trasformando costumi, economia, mentalità. Il borghese è la modernità. Francis Drake, persona reale, è il contrario di Don Chisciotte, personaggio letterario.

Oggi, piaccia o meno, siamo tutti borghesi. E non solo in Occidente. Perché, ecco il punto: mentre il comunismo è rimasto confinato in un solo paese (semplificando), il capitalismo borghese, partito dalla Gran Brategna, del libero scambio, delle navi e delle ferrovie, ha conquistato il mondo. E ne dobbiamo essere orgogliosi. Su la testa borghesi! Non esiste capitalismo in un solo paese. Il capitalismo o è mondiale o non è.

Oppure è altra cosa. Vecchio mercantilismo. Un fenomeno preborghese e precapitalistico. Ammesso e non concesso che esista un ipercapitalismo (definizione di tipo anticapitalista priva di qualsiasi fondamento teorico e storico), come fenomeno rinvia alla completa internazionalizzazione degli scambi. Il protezionismo è la morte del capitalismo. In questo senso il protezionista Trump è il necroforo del capitalismo.

Ma torniamo al relax. Chi scrive non si vergogna di essere borghese. Cioè innanzitutto un uomo libero, da chiese e partiti, che crede nella libera iniziativa, nella volontà individuale, e nel lavoro, nel mio caso intellettuale, che è il naturale prolungamento della volontà. Si dirà che il vero borghese, nel senso weberiano, non deve conoscere il relax. Il principio non è sbagliato, perché il lavoro è il riposo del borghese, il suo relax costruttivo.

Sotto questo aspetto il mediocre socialista conosce le ferie… il borghese liberale, talvolta a malincuore, il relax. Le ferie, modernamente intese (non i culti del romano antico), sono un diritto, il relax una scelta. Da un lato il petulante welfarista dall’altro il potente imprenditore di se stesso. Dietro le ferie c’è il gregge socialista, dietro il relax l’individuo liberale.

Perciò cari amici lettori ho “libera(l)mente” scelto di concedermi qualche giorno di relax.

A presto.

Carlo Gambescia

mercoledì 17 luglio 2024

Perché l'odio politico?

 


Perché politicamente oggi ci si odia? Perché si spara a un leader politico? Perché si leggono sui giornali e sui social titoli militarizzati? X sbaraglia Y… Z non fa prigionieri… Il sindacato Abc si batterà fino all’ultimo uomo.. E così via.

Innanzitutto diciamo che la violenza è sociologicamente ineliminabile. E l’odio è ciò che la sostiene e rafforza. Come ben sanno i polemologi (Sorokin, Bouthoul. Freund ad esempio), esisterà sempre una minoranza di violenti, ribelli, disadattati che rifiuta l’obbedienza ricorrendo alla violenza e alla "somministrazione" dell’odio. Il fenomeno è circolare, l”odio alimenta la violenza e viceversa. Talvolta le stesse élite del potere, parliamo dell' 1-2 per cento della popolazione, possono includere individui del genere.

In sintesi: dal momento che  parliamo di fenomeni collettivi va sottolineato che  si tratta di  comportamenti che sembrano  riguardare il 5 per cento della popolazione. Il dato base più eclatante è rappresentato dalle guerre civili, che di solito assorbono un 10 per cento della popolazione ( a fronte di un 90 per cento di soggetti passivi, inclusi i rinunciatari, diciamo  ragionanti, per principio, calcolo o altro, e non solo per conformismo sociale o paura). Il 10 per cento include  i violenti puri e la  parte motivata alla violenza per ragioni politiche.

Con le guerre il tasso dei soggetti coinvolti aumenta, può giungere al 20, 30 per cento: non si tratta di individui, motivati alla violenza, ma più semplicemente di soggetti in stato costrittivo, per i quali l’esercizio della violenza non è spontaneo, come per il 5-10 della popolazione, ma adattivo, cioè vincolato al comportamento che ci si aspetta da uomo in uniforme.

Pertanto che abbiano sparato a Trump, per venire a un esempio recente, è perfettamente normale per così dire. Per i motivati alla violenza l’omicidio politico è un normale mezzo di risoluzione dei problemi.

Si può incoraggiare o scoraggiare la violenza politica? Sotto questo aspetto il liberalismo può essere definito un gigantesco quanto nobile tentativo storico, prima inconsapevole poi consapevole, di sostituzione del voto al fucile. O se preferisce del contratto alla depredazione. 

Nonostante ciò nel Novecento si è verificata una esplosione di violenza. Si pensi alla violenza, addirittura teorizzata, verso i nemici di classe, di religione, di razza.

In parte è stata una risposta, quasi naturale, dei motivati alla violenza, di varia estrazione politica, al tentativo liberale di pacificare i rapporti umani, per l’altro dello sprezzante rifiuto di rientrare nei ranghi della modernità contrattuale.

Per rispondere alla domanda iniziale, oggi ci si odia perché si rifiuta la modernità pacificatrice e liberale. Stiamo nuovamente  assistendo alla saldatura politico-sociale, tra una minoranza attiva di violenti di tutti i colori ideologici, annidati nella politica, nei social, nei mass media, e una maggioranza passiva che sembra non rendersi conto di quel che sta accadendo e che purtroppo, per quel conformismo, tipico della società di massa, si adatta ai tempi.

Si va sviluppando una tendenza, sempre più diffusa all’accettazione dell’ uso della violenza come strumento politico. Si rischia di tornare per così dire alla guerra di tutti contro tutti. Infatti,  oltre al tradizionale campo della politica esterna, la violenza sembra prevalere anche in politica interna.

Si può fare qualcosa? Purtroppo non si tratta più di un fenomeno di disadattamento al 5 %, ma di una tendenza in crescita. Incoraggiata da una destra, ovunque in ascesa, che di liberale non ha nulla. In questo favorita anche da un sinistra che non ha mai cessato di essere antiliberale.

Insomma tutto congiura perché la violenza intorno a noi dilaghi. Del resto il predominio di leader  come Trump, Putin, Xi Jinping e molti altri indica che il futuro non sarà roseo. Anche perché quel che resta della democrazia liberale, volente o nolente, non potrà non rispondere ai violenti, come già accaduto, per garantire la propria sopravvivenza.

Carlo Gambescia

martedì 16 luglio 2024

1933

 


Nel 1933, novantuno anni fa, Hitler andò al potere in Germania. Aveva dinanzi a sé un’Europa smarrita. Che pensava ad altro. Forse alla precaria situazione economica. Molti osservatori vedevano addirittura in Hitler un fattore di pace.

Una pace che Hitler  in seguito non mancò mai di evocare dopo ogni colpo messo a segno. A cominciare dalla rimilitarizzazione della Renania, anno di grazia 1936, in piena violazione dei trattati di Versailles e Locarno. Sarebbero seguite, due anni dopo, l’ Austria, la Cecoslovacchia, e infine nel 1939 la Polonia.

Si resta attoniti davanti alla passività delle principali potenze liberal-democratiche dell’epoca: Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Ci si stava infilando nel tunnel di una guerra mondiale. Il nazionalismo vinceva su ogni fronte, sia in senso passivo (disinteresse per quel che di terribile accadeva nelle altre nazioni, come nel caso della Germania, a proposito delle persecuzioni degli ebrei), sia attivo, (come la conquista militare italiana dell’Etiopia, ultimo degli stati sovrani dell’Africa).

Oggi lo si chiama sovranismo. Forse per ragioni di coscienza, e chissà nascosti sensi di colpa. Ma si tratta dello stesso nazionalismo passivo che permise a Hitler di dispiegare il suo nazionalismo attivo.

I sovranisti sembrano essere insediati ovunque, o comunque di essere a un passo dalla conquista del potere. In Italia, nel 1933, era al potere Benito Mussolini, oggi l’Italia vive i fasti di Giorgia Meloni, erede di un partito, il Movimento Sociale, sorto dalle ceneri del fascismo, che nulla ha imparato nulla ha dimenticato. Negli Stati Uniti rischia di prendere il potere un leader altrettanto nazionalista, complottista, autoritario, divisivo e bugiardo quanto Hitler. L’Europa è altrettanto divisa, prigioniera di sovranisti-nazionalisti, per ora passivi, come in Austria, Ungheria, Francia, solo per fare qualche nome. Nella stessa Germania hanno rialzato la testa quelli dell’ “Hitler, tutto sommato”: incredibile ma vero.

Insomma, in ogni paese europeo il sovranismo-nazionalismo è all’attacco. E può vincere la partita del potere.

Per giunta, come appena detto, con la prospettiva, novantuno anni dopo, della vittoria di un sovranista, per ora passivo, negli Stati Uniti. Un’altra tessera di un volgarissimo mosaico sovranista che già vede sovranisti attivi ai confini d’Europa ( Russia) e in Estremo oriente (Cina). Come non essere preoccupati per il destino del mondo liberal-democratico?

Il nazionalismo, con la sua carica di odio tra i popoli, sta tornando in auge, addirittura a Washington. La nuova Berlino. Eppure la gente non sembra accorgersi della pericolosità della svolta, come nel 1933. Allora c’era la morsa della grande crisi. Oggi invece tutto sembra andare come sempre: certo, si mugugna, però si lavora, si va in vacanza, eccetera, eccetera. Il bambino povero del 1933 oggi è un bambino viziato.

La sinistra sembra sull’orlo dell’estinzione o dell’estremismo, che è addirittura peggio. La destra, quella che si autodefinisce conservatrice, ha sposato la causa del sovranismo. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Corsi e ricorsi. I conservatori ricordano l’atteggiamento dello stato maggiore tedesco che credeva di addomesticare Hitler.

Ma va segnalato anche un altro aspetto, curioso. Oggi si tende a tramutare tutto in gioco e psicoterapia. Trionfano l’infantilismo, l’irrisione dei comici (tutto è barzelletta), i giochi di ruolo, i romanzi distopici o utopici. C’è un contrasto tra la pesantezza della situazione storica e la cinica leggerezza con cui la si affronta. L’autoironia è importante, ma quando si trasforma in sistematica demolizione dell’ Io, fa più male che bene. I mass media tradizionali e i social sembrano ignorare il pericolo o addirittura credere ai sovranisti ricoperti di pelli di agnello. Perché morire per Kiev? Perché difendere i “nazisti” di Gerusalemme?

Dopo di che, come detto, si ride di tutto.

Che ci sarà mai da ridere? A trasformare il sovranismo da passivo in attivo basta un attimo. Come nel 1933 quando tutto iniziò.

Carlo Gambescia