lunedì 5 maggio 2025

La Romania nel ventre della balena

 


Il mondo occidentale sembra andare decisamente a destra. Per inciso, anche la Chiesa cattolica potrebbe spostarsi a destra. Ma non è del prossimo Papa che oggi desideriamo parlare.

Nonostante le vittorie in Canada e Australia delle forze liberali (il primo attaccato direttamente da Trump), le elezioni rumene di ieri provano una cosa fondamentale: come sia difficile mettere fuori gioco una destra che sembra vincere, nonostante tutto.

Ovviamente ci sarà un secondo turno. Ma oltre il quaranta per cento dei votanti ha scelto George Simion, leader di un partito di estrema destra, Alianța pentru Unirea Românilor (AUR), che, come già dichiarato, includerà nel futuro governo Călin Georgescu, vincitore del primo turno delle elezioni annullate del 2024.

Il che purtroppo lascia ben sperare gli elettori di destra che il prossimo governo sarà ultraconservatore, filorusso e nazionalista. La Romania non sembra aver imparato nulla, perché sta di nuovo per entrare nel ventre della balena.

Ciò significa che se in Germania Alternative für Deutschland (AfD), altro partito di estrema destra, venisse sciolto, come prevede la Costituzione, la misura potrebbe risolversi nel più classico autogol elettorale per le forze moderate e progressiste, filoucraine e filoeuropee.

Lo stessa tesi può essere estesa alla Francia del Rassemblement National (RN), che ha subito una decapitazione giudiziaria nella persona di Marine Le Pen.
 

Come dicevano, il mondo occidentale sembra andare a destra. E soprattutto verso l’estrema destra.

La marea pare inarrestabile: da Washington a Hunedoara. Le misure di tipo giudiziario, giuste o sbagliate che siano, sembrano moltiplicare la sua forza. L’intervento dei giudici, costituzionali o meno, viene vissuto dall’elettore di destra e di estrema destra come un atto persecutorio.

Ripetiamo l’evoluzione politica verso l’estrema destra, qualsiasi cosa si faccia, dal punto di vista delle forze filoccidentali (semplifichiamo), sembra inarrestabile: si vota, vince la destra; la si esclude, vince lo stesso.

Cosa sta accadendo? Siamo davanti alla rivolta di scriteriate masse criptofasciste (cripto, neppure tanto), descritte da un retorica populista, come eroiche e sane, contro élite, a grandi linee progressiste, se si vuole di centro-sinistra, dipinte come corrotte e traditrici dei sacri principi del dio, patria e famiglia.

Queste idee per gli Stati Uniti vennero riscoperte e valorizzate dallo storico Christopher Lasch, scomparso nel 1994, tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta dello scorso secolo. Si potrebbe definire Lasch, nonostante il serio curriculum accademico, un devastante pioniere di quella critica antielitistica alla cultura Woke, oggi incarnata dal trumpismo e dai fascisti europei di ritorno.

Lasch, che tra l’altro, particolare inquietante (alla Marcel Déat, socialista che finì nelle braccia di Hitler), proveniva da sinistra, è stato tradotto e commentato positivamente dalla nuova destra europea e recepito negli ambienti culturali e politici neofascisti.

Ovviamente non è l’unico pensatore letto e studiato dalle destre europee (si pensi ad esempio all’influenza di Dugin, arcitradizionalista, già consigliere filosofico di Putin) , né il rapporto tra politica e cultura può essere inteso in maniera deterministica. Probabilmente chi vota Marine Le Pen, Giorgia Meloni, eccetera, neppure sa chi sia Lasch.

Però se si leggono i suoi libri, contro l’ideologia del progresso e contro il tradimento delle élite liberali (tra l’altro in Italia pubblicati e ripubblicati dalla progressista editrice Feltrinelli:il che non è un dettaglio, per la serie darsi la zappa sui piedi da solo), si ritrovano quelle idee oggi così diffuse, che ridotte in pillole, hanno conquistato il cervello figurativo di masse in realtà decerebrate e votate all’autodistruzione. Il mio vecchio professore d’italiano, crociano superstite e panda liberale, parlerebbe di “temperie”. Cioè, ancora mi sembra di sentirlo, del “complesso di moventi spirituali o avvenimenti che concorrono alla caratterizzazione di un un momento storico, culturale e sociale”.

Esageriamo? Diciamo pure che non  è uno spettacolo edificante, per chiunque creda nei valori liberali, quello dell’Omino di burro fascista che promette a milioni di Lucignoli e Pinocchi la meravigliosa Città dei balocchi.

E cosa sorprendente e pericolosa,  viene creduto. Sicché la fila degli aspiranti somari ogni giorno si allunga, nonostante tutto.

Che fare? Probabilmente, come dicevamo, si dovrà di nuovo passare, tutti, buoni e cattivi, per il ventre della balena… E non sarà uno scherzo.

Carlo Gambescia

domenica 4 maggio 2025

Papa Trump

 


Ieri Giuliano Ferrara in uno dei suoi ultimi editoriali, uno più umorale dell’altro, scomodava Shakespeare, per poi non giungere a nessuna conclusione su Trump.

Va detto che di questi tempi la stessa politologia fatica molto. Trump non è inquadrabile, almeno secondo le classiche categorie del liberalismo occidentale.

È sicuramente un leader “agitatore”, spiazza e tiene sulla corda tutti. Non ama intralci: vuole comandare, più che governare, come scrivevamo ieri (*). Ideologicamente è per lo stato forte, la nazione, i metodi decisi in politica estera, e, per ora, ancora a parole (nonostante l’assalto dei suoi a Capitol Hill), un ammiratore dell’uso della violenza, del ricatto, delle parole forti nelle relazioni politiche. Apprezza i dittatori, e neppure lo nasconde. Inoltre ha un altissimo senso di sé: si considera un superuomo. La sua volontà di potenza è più che evidente.

La cultura politica di Trump, come abbiamo scritto più volte, è preliberale: crede, come Luigi XIV, che un capo pacifico non può coprirsi di gloria.

Un personaggio del genere – qui basterebbe rileggere The Federalist – è per la tradizione politica americana un corpo estraneo. Qui la sua pericolosità. Perché non lo si può trattare come un normale leader democratico o repubblicano. Non c’è nulla di buono in lui. E qui veniamo a un punto, emerso ieri, che riguarda il fotomontaggio di Trump vestito da papa, rilanciato dai social e da lui condiviso e commentato, con grande entusiasmo, addirittura su Truth. Ebbene sì, ora è ufficiale, Trump, si sente perfettamente in grado di fare anche il Papa. E lo rivela pochi giorni prima del prossimo conclave. Diciamo che sta sulla notizia. Trump è un ottimo comunicatore.

Però quel che va evitato è ridurre la cosa al dettaglio dell’autoironia. Perché parliamo di un uomo che ha più volte mostrato di esserne totalmente privo. Quindi la pista autoironica è sbagliata.

Giuliano Ferrara ha scomodato Shakespeare, noi invece scomoderemo solo Luigi Magni, regista colto e amante della storia. Chi non ricorda la sua versione della Tosca, con Proietti, Gassman (padre), la Vitti? C’è una scena in cui il barone Scarpia, bieco capo della polizia, dopo aver ingannato e congedato Tosca, tira fuori una specie di tiara da  un vano segreto e se la pone sulla testa, esclamando, se ricordiamo bene: “Perché non Papa, anch’io? Perché?”.

Ecco lo Scarpia-Trump sogna, nel suo immenso delirio di onnipotenza, di sostituirsi anche al papa. Il che, non ha precedenti, nella storia dei moderni imperatori europei, se non in Napoleone, che si incoronerà da solo nel 1804 (esistono altri pochi esempi extraeuropei, Haiti, Repubblica Centrafricana, Cina).

L’auto-incoronazione, o il semplice desiderio da Scarpia a Trump, ha una fortissima connotazione politica, come dicevamo preliberale: si guarda allo stato assoluto, che al massimo vede nella religione un ruvido strumento di controllo sociale.

Lo stato assoluto – non è ma inutile ricordarlo – era basato su un pilastro: che ogni re è imperatore “a casa sua”, quindi rifiuto delle autorità religiose o tradizionali, soprattutto se di derivazione romana. Insomma, fine dell’universalismo medievale.

Napoleone aggiunge il “tocco” dell’ auto-legittimazione mediante una dimostrazione simbolica di indipendenza e sovranità, come il porsi sul capo da solo la corona imperiale. Impero che però avrà vita breve.

Però, ecco il punto, Hitler, Mussolini, Lenin e Stalin, a parte l’ateismo di fondo, mai sognarono di mascherarsi da papi. Anche nella chiave solo simbolica della dichiarazione (a quei tempi, ovviamente, i social non esistevano). E si parla dell’esperienza totalitaria. Non una cosetta.

Trump, non sappiamo quanto consapevolmente, torna invece alle origini: allo stato assoluto preliberale. O meglio diciamo che resta in bilico tra Luigi XIV (padre dello stato assoluto) e Napoleone (incoronatosi da solo). Comunque sia, volontà di potenza allo stato puro. Anche se al momento Trump ricorda più il Barone Scarpia di Gigi Magni.

Pecchiamo di fantasia metapolitica. Trump è solo un idiota fortunato? Può anche essere.

Però, alla volontà di potenza quando c’è, e nel caso di Trump c’è, non si comanda.

Crediamo perciò che il peggio debba ancora venire.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/05/una-destra-che-non-governa-comanda.html .

 

sabato 3 maggio 2025

Una destra che non governa, comanda

 


Un mio saggio e caro amico, che conosce bene la destra, questa destra di estrazione missina, quindi neofascista, sostiene che più che governare Giorgia Meloni vuole comandare (*). Ha ragione.  

Ma cosa vuole dire?  Qui rilanciamo, lavorando sulla sua intuizione.  

Innanzitutto  va chiarito un fatto fondamentale: che si governa nel nome di tutti e  si comanda invece  sempre  nel nome di pochi, come accampati in territorio nemico. Il fascismo ad esempio, si accampò e ordinò agli italiani di comportarsi, da un giorno all’altro, da fascisti. Lo stesso Movimento Sociale, nel dopoguerra, non uscì dall’accampamento, se non per qualche sortita parlamentare. E così via fino a Giorgia Meloni. Che, come i suoi padri ideologici, continua a vedere nemici ovunque.

Saremo più precisi:

Governare un paese significa che non si può dividerlo in buoni e cattivi, autodichiararsi buoni, e governare contro altri liquidati come cattivi.

Comandare, significa preoccuparsi che gli ordini siano eseguiti, a prescindere. Si esercita l’autorità, e si giudica privo di qualsiasi importanza l'essere in disaccordo con una metà del paese

Differenza di lana caprina? Troppo sottile? Può darsi. Però, storicamente parlando, quel fascismo che è nell’album di famiglia (politica) di Giorgia Meloni, comandava e non governava. Comandò di imprigionare gli oppositori, comandò di perseguitare gli ebrei, comandò guerre puramente autolesionistiche. Comandò, perché ne aveva l’autorità, conquistata però con la violenza e con l’inganno.

Giorgia Meloni invece – si sottolinea – comanda grazie al libero voto degli elettori. Quindi è nel giusto. Però, ripetiamo, il punto è che non governa, ordina, e sempre contro qualcuno (la sinistra, i migranti, le minoranze politiche e sociali dissidenti,studenti, lesbiche, gay, bisessuali, trasgender, intellettuali, centri sociali, Ong e persino gli ultimi punk).

In sintesi: o si è dalla parte del Dio, Patria e Famiglia, la triade celebrata dalla destra, o automaticamente si diventa suoi nemici

Nemici attenzione, non avversari. Infatti il comandare, tipico dei militari, implica l’esistenza del nemico, che va sempre indicato e al quale ci si deve opporre. Di qui la necessità del comandare, in termini di ordine e disciplina, per avere la meglio sul campo, quindi vincere, sbaragliando il nemico. Il che spiega pure la logica dell’ “accampamento”.

Come si può intuire il comandare è ben lontano dalla logica liberale del governare e quando necessario mediare con l’avversario, che è tale perché condivide gli stessi valori liberali. Si pensi al concordia discors (concordia discordante) di Orazio. Che in politica indica un’armonia prodotta da una inziale discordanza di pareri, armonia che nasce da un benefico contrasto d’idee.

Si unisca al comandare il fiume di menzogne, o comunque di dichiarazioni inverificabili, raccontato ogni giorno dalla destra, con Giorgia Meloni come capofila, e si avrà il quadro di un clima politico sempre più opprimente.

L’estrema destra che ci governa è antropologicamente diversa. Non è un partito come gli altri. La sua logica politica, non solo è antilberale, dal momento che anche un comunista è antiliberale. Ma è preliberale: identitaria e gerarchica, non solo disprezza l’individuo e le sue libertà, ma le giudica inutili e pericolose, perché di intralcio all’esecuzione degli ordini.

Quindi non governa, comanda.

Carlo Gambescia

(*) Fonte della foto di copertina: https://infosannio.com/2025/04/30/giorgia-meloni-nascita-di-una-premier-con-il-mito-di-atreju/ .

venerdì 2 maggio 2025

La globalizzazione e i suoi contraccolpi

 


La vittoria di Donald Trump è il punto di arrivo di una reazione politica ai processi di globalizzazione, che negli anni Ottanta, sull’onda delle politiche liberali di Ronald Reagan e Margaret Thatcher fecero correre l’economia mondiale. Il magnate è un contraccolpo: l’anti-Reagan. Non solo lui. Si pensi a Giorgia Meloni, l’anti-Thatcher, e agli altri variopinti (ma altrettanto pericolosi) leader di estrema destra, oggi sulla cresta dell’onda.

Ovviamente, si tratta di contraccolpi a lunga distanza. Perché? Per capire va fatto un passo indietro, fino agli Settanta del secolo scorso.

La risposta alla grande crisi economica degli anni Settanta (un misto di stagnazione e inflazione, esito negativo dellacrisi petrolifera) fu il ritorno a politiche di liberalizzazione del commercio internazionale, di bilanci in ordine, di contenimento della spesa sociale. Qualcosa che ricorda, per forza innovativa e crescita economica, il ventennio 1850-1870, storico momento di grande trasformazione, però con dieci anni supplementari.

Infatti il trentennio 1980-2010 rappresenta un momento di grande espansione di un processo di liberalizzazione dell’economia a livello mondiale. La crisi finanziaria ed economica alla fine degli anni Duemila (2007-2008) che inizia negli Stati Uniti e si diffonde, provoca un inasprimento delle politiche di bilancio e per reazione la proliferazione dello sciovinismo welfarista e del conseguente razzismo antimigratorio.

E qui, all’inzio degli anni Dieci, che spiccano il volo le forze in passato contrarie alla globalizzazione, sempre vivaci, in genere di estrema destra ed estrema sinistra, ma fino a quel momento minoritarie.

Da questo punto di vista i percorsi vittoriosi di Giorgia Meloni e di Donald Trump, possono essere giudicati esemplari, anche in senso temporale. Negli anni Dieci del nuovo secolo si cavalca la tigre della crisi riallacciandosi alle reazioni anni Ottanta dell’ estrema destra alla globalizzazione: reazioni che, a voler andare ancora più indietro, traggono origine da un preciso immaginario storico: fascismo italiano e isolazionismo americano. Si pensi a un basso continuo o se si preferisce al classico fiume carsico improvvisamente tornato in superficie, che rischia di travolgere tutto.

Perché un pensiero minoritario, di estrema destra, è tornato maggioritario in meno di dieci anni-quindici anni?

In primo luogo, per un fatto antropologico: la memoria, soprattutto quando collettiva (nel senso delle idee correnti e diffuse), è corta. Prevale sempre la scontentezza, nei riguardi del presente, rispetto all’apprezzamento del cammino fatto, quindi con riguardo al passato. Il che può essere molla di progresso come di reazione. Negli ultimi anni la scontentezza ha favorito la reazione.

In secondo luogo, per una questione di immaginario: i capitalisti (semplifichiamo), in particolare dopo il 2010, non sono più riusciti a “vendere” bene il “prodotto” capitalismo. Per una logica interna, legata alla storica e ricorrente ricerca di compromessi istituzionali, il capitalismo, anche questa volta, è venuto a patti, volente o nolente, con i suoi nemici. Di qui la “riscoperta” del protezionismo, cavallo di battaglia dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Concettualmente, ai profitti si è preferita la rendita.

In terzo luogo, per una questione legata alla mitologia della bandiera: il concetto di libero mercato è un concetto astratto, non alla portata di tutti, per contro quello di nazione, che si collega immediatamente allo sventolio di una bandiera è alla portata di un bambino di tre anni. L’ignoto, il capitalismo, fa paura, il noto, la bandiera, provoca esaltazione. L’impazienza, tipica di un bambino capriccioso prevale sulla matura pazienza dell’intelligenza dei fatti.

Ci si chiederà perché, nonostante i tre punti ricordati, fino agli anni Duemila la globalizzazione liberale (chiamiamola così) ha funzionato. La storia è fatta di congiunture, cioè di micro-eventi che vanno a confluire in un macro-evento, che per un certo periodo, più o meno lungo, può tramutarsi o meno in una fase di stabilità oppure nel suo contrario.

Sotto questo aspetto, la storia del secondo dopoguerra, gli ultimi ottant’anni vanno divisi in quattro fasi: 1945-1970; 1970-1980; 1980-2010; 2010-…

Due fasi di stabilità (1945-1970; 1980-2010), due fasi di instabilità (1970-1980; 2010-…). Nelle fasi di stabilità i microeventi, cioè le interazioni di miliardi di individui, sono tutti determinati da una volontà di migliorarsi e da un ottimismo di fondo. Per le fasi di instabilità vale il contrario.

Pertanto la crisi che stiamo vivendo è una crisi morale di sfiducia dell’individuo, che, dimentico della grandezza passata, sembra disprezzarsi. Un atteggiamento di scarsa considerazione che pare estendersi alle istituzioni politiche ed economiche liberali. Le stesse istituzioni che hanno fatto grande l’Occidente euro-americano e migliorate le condizioni, quando condivise, anche solo in parte, di altri paesi. Insomma, prevale la logica del bicchiere mezzo vuoto.

Protezionismo e nazionalismo vincono non per forza propria ma per una debolezza congiunturale dell’Io occidentale. Il che significa che Trump, Giorgia Meloni e altri leader di estrema destra non sono stati votati da gelatinose forze oscure ma hanno preso i voti, ben visibili, di milioni e milioni di elettori che però hanno rinunciato a ragionare per agitare una bandiera.

Passerà?  Forse. Ma è difficile dire quando e come.

Carlo Gambescia

giovedì 1 maggio 2025

Occupazione. I governi combinano solo guai…

 


In una società libera il compito del “Governo”, o se si preferisce dello “Stato”, non è quello di “ creare posti di lavoro”. Pertanto discutere a proposito dei posti di lavoro creati o meno dai poteri pubblici è fuorviante. Il problema non è la farsesca (come vedremo) battaglia dei numeri tra Giorgia Meloni e la sinistra. E allora qual è?

A differenza di quanto si crede, almeno dagli Trenta del secolo scorso alla luce delle equivoche politiche roosveltiane-hitleriane, non è lo stato a creare posti di lavoro ma il mercato. Ecco il punto.

Cosa intendiamo dire? Mercato nel senso specifico di una crescita del volume di produzione e scambi al cui centro ci sono imprese che innovano e consumatori affamati di beni, perché le imprese che innovano assumono: producono posti di lavoro e reddito, e così via. Nel 1945, con il ritorno della pace e del libero scambio, l’economia mondiale risorse.

Il meccanismo è molto semplice, ed è inutile complicarlo. Si pensi alla discussione sui salari nominali e reali: ricorda quella medievale sul sesso degli angeli.

Ciò che conta, e conta veramente, è che il meccanismo del   libero mercato per ottant’anni ha funzionato.

Meccanismo  messo in crisi, prima dall’aggressione russa all’Ucraina, poi intralciato dalle misure protezionistiche di Trump (minacciate o meno). Misure che significano una cosa sola: riduzione dei consumatori, riduzione della produzione e degli scambi.

Si immagini, una torta che si fa più piccola, e che di conseguenza, a parità di invitati, sarà tagliata in fette sempre più piccole.

In un quadro economico così critico discutere di “posti di lavoro creati dal governo” ricorda quei comandanti militari, come l’ultimo Hitler chiuso nel bunker, che sulla carta geografica spostano le bandierine di battaglioni e reggimenti che non esistono più.

Purtroppo siamo davanti a una credenza, ormai consolidata da almeno un secolo. Quale? Che i governi dispongano di poteri taumaturgici nei riguardi dell’economia. Nel Medio Evo, ma ancora nei primi secoli dell’età moderna, si credeva nel potere reale di guarire i corpi dei sudditi dalle malattie più diverse, come oggi ci si illude a proposito del potere governativo di guarire le malattie economiche che, si ripete a gran voce (soprattutto marxisti, fascisti e fondamentalisti verdi), affliggono i cittadini. Insomma esiste una visione mistica dell'economia.

Malattie che in realtà non sono tali, perché la principale caratteristica dell’economia di mercato è quella del succedersi dei cicli economici, una periodicità che si compone di alti e bassi: diciamo pure, per restare in metafora, di raffreddori stagionali. Perciò basta saper attendere e il raffreddore, pardon la disoccupazione, si trasformerà in occupazione. 

La cosa essenziale da fare è quella di non dare retta alle mitologie negative intorno al capitalismo. La stessa speculazione, che viene così stigmatizzata, non è altro che una forma di autodifesa: una ricerca di spazi liberi dalle ingerenze  pubbliche. Più si tenta di impedirla, più il capitalismo si atrofizza. Si evitino invece le ingerenze, e il capitale  tornerà ad affluire liberamente verso altre forme di investimento tornate ad essere più invitanti.

Queste mitologie fanno male alla pubblica opinione, determinano sfiducia, perché, ogni volta, scambiano erroneamente, e quasi sempre in cattiva fede, un volgare raffreddore con una polmonite mortale. Brutti corvacci (pardon).

Negli ultimi ottant’anni la morte annunciata del capitalismo, a ogni fase negativa del ciclo, non si è verificata. Per inciso, si incominciò a parlare di cicli interni al capitalismo, quando lo si “scoprì”, nell’Ottocento, anche come risposta alla catastrofica ed erronea teoria del ciclo unico profetizzata da Marx.

Ciò significa che il sistema funziona e  in barba alla pseudo legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. 

Per usare altre parole: la freccia del progresso, e di tutti i fondamentali economici e sociali, continua a salire dal XVIII secolo verso l’alto. 

Ripetiamo: solo un fascista, un comunista, un fondamentalista verde possono sostenere il contrario. Per quale ragione? Perché i “corvacci” (pardon) odiano non ragionano.

Si rifletta. Negli anni Trenta del Novecento, il colpo di grazia all’economia mondiale, che soffriva di una crisi da sovrapproduzione derivante dalla trascorsa e disastrosa economia di guerra, fu dato proprio dal protezionismo che ridusse, come detto, le dimensioni della torta mondiale. Altro che colpa del libero mercato… È il protezionismo che va assolutamente evitato.

Semplifichiamo troppo? Che faranno i lavoratori nelle fasi negative del ciclo? Prima di rispondere, si deve distinguere tra disoccupazione strutturale e disoccupazione da ciclo economico. La disoccupazione strutturale è un’ invenzione dei sindacati e degli economisti anticapitalisti (a destra come a sinistra). Quella da ciclo invece è fisiologica.

Perciò parleremmo senza mezzi termini di una visione isterica del ciclo economico per favorire l’interventismo pubblico, che come prova la crisi degli anni Trenta, porta con sé protezionismo e guerre. Quindi non migliora ma aggrava la situazione.

Però che faranno i lavoratori? Dovranno armarsi di pazienza e accettare temporaneamente lavori meno pagati. Temporaneamente, si badi. In attesa che il ciclo riparta verso l’alto, all’interno di quella gloriosa freccia del progresso già ricordata.

Quanto può durare la fase negativa? Dipende da quanto governo e stato si terranno lontani dall’interferire con il ciclo economico (né politiche procicliche né anticicliche). Nel 1939 gli Stati Uniti, nonostante l’interventismo pubblico, non erano ancora usciti dalla crisi. La Germania, vi era uscita prima, ma di poco, puntando però su riarmo e protezionismo. Come del resto l’Italia, lanciatasi in sciagurate guerre coloniali e ideologiche.

I “posti di lavoro” li crea il mercato non lo stato. “Tutto il resto è noia”, per dirla con un grande economista del Novecento, Franco Califano.

Oppure, come dicevamo all’inizio, una farsa.

Carlo Gambescia

mercoledì 30 aprile 2025

Il nuovo sport. Dare addosso alla sinistra

 


Dai toni dei giornali, anche quando la sinistra sta zitta e subisce, diciamo quando mostra di essere sottotono, sembra che il povero Sergio Ramelli, sia stato ucciso ieri l’altro da Schlein, Conte, eccetera.

In Italia si assiste a qualcosa di veramente grave. Si chiama contraffazione della realtà. Anzi della verità. Che culmina nel brutto spettacolo di un governo, di estrema destra, che prende regolarmente a pugni l’opposizione. E quest’ultima, seduta al banco degli imputati, non reagisce. Come se la destra fosse all’opposizione e la sinistra a governo. Insomma va per la maggiore lo sport di dare addosso a una sinistra ormai inerme o quasi. Ovviamente dipigendola come complice degli assassini di Sergio Ramelli.

Singolare anche la posizione di Mattarella, che, pur proviene dalla sinistra democristiana. E che come gli è stato rimproverato, da fior di giuristi, avrebbe dovuto bocciare il decreto sicurezza perché incostituzionale. E invece è passato.

Non si vuole capire ( poi spiegheremo perché ) che ogni “vittoria” della destra, amplificata da un diabolico asse mediatico e social, spostatosi completamente a destra, significa renderla più forte, più sicura di sé. Il che spiega i quotidiani pugni sferrati contro l’opposizione. Ormai al tappeto.

Si rifletta. Quando la seconda carica dello stato, Ignazio La Russa, dedito ad ampliare la collezione paterna di busti del duce, dichiara pubblicamente, che i saluti romani non hanno alcuna importanza, e che invece è la sinistra a dover tuttora rendere conto della morte di Sergio Ramelli, significa che si è ben oltre la linea rossa o meglio nera.

Anche perché polemisti e politici di destra replicano con durezza, persino alle critiche più timide. Come fosse cosa più normale del mondo chiedere conto alla sinistra della morte di Sergio Ramelli dopo cinquant’anni.

E quali ragioni evoca la destra? Che la sinistra, a sua volta, chiede conto (ma sarebbe meglio dire chiedeva) alla destra della dittatura fascista.

Di cose, come dichiarato dalla stessa Meloni, accadute addirittura cento anni fa. Quindi – ecco il veleno – perché la destra non deve chiedere, eccetera, eccetera?

Capito il “trucco”? La destra mette sullo stesso piano un regime politico catastrofico, che per vent’anni immobilizzò l’Italia in un busto di gesso, al quale Fratelli d’Italia, di fatto e di diritto guarda (l’impostazione del decreto sicurezza è più autoritaria che mai), e quattro delinquenti impolitici, già isolati cinquant’anni fa, che non hanno nulla in comune con il Partito democratico.

Dietro l’ approccio, che poi è quello “storiografico” (si fa per dire) del Movimento Sociale Italiano, si cela la tesi che tra i fascisti di Salò e gli uomini della Resistenza non c’ era e non c’è alcuna differenza etico-politica. Todos caballeros.

Si tratta di una pericolosa rilettura della storia d’Italia, diciamo pure buonista (perché la cattivista dichiara la superiorità morale delle brigate nere), un tempo ristretta alle sezioni del Movimento Sociale, oggi condivisa pubblicamente. Anzi sfacciatamente da Fratelli d’Italia. E che, paradossalmente, chi scrive, che ha sempre condannato il profilo leninista della sinistra, sia ora a costretto a spezzare una lancia in suo favore, indica la gravità del momento. Semplificando, qui abbiamo, un anticomunista, e da sempre, Carlo Gambescia, che scrive cose che la sinistra sembra abbia il timore di riaffermare

Lo spettacolo della sinistra “punching ball” è veramente deprimente. 

Anche negli Stati Uniti, strapazzati da Trump, i Democratici sono accusati di eccessiva timidezza. Ora però sembra che la sfida sia stata raccolta, seppure in chiave populista, da Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, nonno e nipote vista la grande differenza di età, lanciatisi a capofitto in un tour politico di manifestazioni, dal discreto seguito, contro il tentativo autoritario di Trump. Auguri sinceri.

In Italia invece si continua a registrare una passività preoccupante.

Da cosa dipende? Non è facile rispondere. Sembra però che la sinistra, per un verso abbia accettato la nuova vulgata storica “degli uni e gli altri pari sono”, e che per l’altro soffra di una specie di senso colpa verso i fascisti. Senso di colpa per che cosa? Di aver sparato ai fascisti? Probabilmente. Si chiama pacifismo retroattivo. Giudichi il lettore.

Piaccia o meno, le due cose sono però collegate, e in modo circolare: quanto più si svaluta la Resistenza, tanto più diminuisce il senso di colpa verso i fascisti, più diminuisce il senso di colpa più si svaluta la Resistenza.

Dicevamo della contraffazione della verità portata avanti sistematicamente dalla destra. E qui sorge spontanea la domanda: è normale, seppure in perfetta linea con i nostri brutti tempi, che i membri dell’Anpi e coloro che celebrano la Resistenza vengano definiti estremisti e nostalgici? Parliamo delle radici etiche e politiche della Repubblica. Sacre in quanto tali, a prescindere da ogni aspetto politicamente contingente. Non ci si comporti da stupidi. Si guardi la Luna della Resistenza e non il dito di quattro estremisti filopalestinesi.

Forse sbaglieremo, ma è nostra impressione che la sinistra abbia tirato i remi in barca. Che pensi alla pura sopravvivenza in attesa che la “nottata” passi. E quel che è peggio, molti tra i pochi liberali italiani, sono schierati dalla parte del governo Meloni.

Di qui le stesse divisioni del tempo di Mussolini, tra liberal-democratici e liberali fiancheggiatori se non addirittura liberal-fascisti. I famosi liberali del “Listone” del 1924. Insomma, si scambiano i nemici della liberal-democrazia, quindi del sistema, per avversari interni al sistema. Sotto c’è l’antica speranzella antropologica del civilizzare i barbari, da Teodorico a Mussolini e Hitler.

I liberali non hanno imparato nulla. Che malinconia.

Carlo Gambescia

martedì 29 aprile 2025

260 parole

 


La prima cosa da chiarire è che a quanto pare la destra, quella con radici neofasciste, oggi al governo, ha celebrato e pubblicamente il "suo" Venticinque Aprile. Come? Ricordando, con varie cerimonie pubbliche, per ora non ancora istituzionalizzate, la figura di Sergio Ramelli un giovane di diciotto anni, attivista del Fronte della Gioventù, trucidato a colpi di chiave inglese da estremisti di sinistra, di Avanguardia Operaia.

Peraltro alcuni giorni prima Giorgia Meloni aveva celebrato il “vero” Venticinque Aprile. Anche qui cerimonie pubbliche, in questo caso istituzionali, eccetera, eccetera. Dopo di chi ieri, oltre a presenziare, ha ricordato la figura di Ramelli e il senso della celebrazione.

Partiamo da un dato concreto Giorgia Meloni quante parole ha dedicato all’Ottantesimo anniversario della Festa della Liberazione? 100.

Qui:

“Oggi l’Italia celebra l’ottantesimo Anniversario della Liberazione.In questa giornata, la Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato e che da settantasette anni sono incisi nella Costituzione repubblicana. La democrazia trova forza e vigore se si fonda sul rispetto dell’altro, sul confronto e sulla libertà e non sulla sopraffazione, l’odio e la delegittimazione dell’avversario politico.Oggi rinnoviamo il nostro impegno affinché questa ricorrenza possa diventare sempre di più un momento di concordia nazionale, nel nome della libertà e della democrazia, contro ogni forma di totalitarismo, autoritarismo e violenza politica” (*)

Quante invece ai cinquant’anni trascorsi dal morte di Sergio Ramelli? 260. Quasi tre volte di più.

Qui:

“Ci tenevo moltissimo ad esserci in questo anniversario così importante. Siamo reduci da giorni intensi, nei quali la scomparsa del Santo Padre ci ha portato a riflettere su temi profondi: misericordia, perdono, pietas, provvidenza. Ed è terribilmente difficile accostare questi valori alla vicenda di Sergio Ramelli. Cinquant’anni fa si spegneva la sua giovanissima vita: una morte tanto brutale quanto assurda e forse, proprio per questo, divenuta un simbolo per generazioni di militanti di destra di tutta Italia. Cinquant’anni dopo siamo chiamati ad interrogarci su quello che ancora oggi ci può insegnare il suo sacrificio. Sergio era una persona libera, ma essere liberi in quei tempi duri comportava un’enorme dose di coraggio, che spesso sfociava nell’incoscienza, addirittura. Sergio amava l’Italia più di ogni altra cosa e aveva deciso di non tenerselo per sé, di dirlo al mondo, senza odio, arroganza o intolleranza. La sua storia ce l’ha raccontata chi lo ha conosciuto, chi ha condiviso con lui la militanza politica, chi ha sperato e pregato per quei terribili quarantasette giorni di agonia che Sergio potesse risvegliarsi, chi ha pianto quel 29 aprile in cui si è spento e nei giorni successivi quando persino celebrarne il funerale divenne un’impresa, chi ha ricercato incessantemente verità e giustizia, prima e durante il processo, chi in questi anni ha dedicato alla sua memoria una strada o un giardino e chi invece un libro, una canzone, un fumetto o uno spettacolo teatrale. E quella storia ce l’ha raccontata Anita, mamma Ramelli, che per quasi quarant’anni ha onorato il suo amato Sergio insegnando dignità e amore infinito” (**).

Cioè Giorgia Meloni dedica più spazio a un evento di partito, di patriottismo di partito. Se si vuole di appello ai “suoi” caduti. Per la Nazione ovviamente (quella con la maiuscola).

Non si dimentichi mai che la visione dell’Italia del Movimento Sociale ai tempi di Ramelli, come quella odierna di  Fratelli d’Italia, era ed è intrisa di nazionalismo fascista e di anticomunismo becero, allora diffusissimi sulla stampa missina, e che adesso ritroviamo puntualmente, addirittura sulle prime pagine di "Libero", "La Verità", "Il Giornale", eccetera.  Detto altrimenti:  il fior fiore dell'intolleranza politica.

Per non parlare delle perfide dichiarazioni, contro l'opposizione, diremmo quotidiane,  dei politici di destra. A partire da Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, un estremista di destra, oggi seconda carica dello stato. Che tra l’altro  -  si faccia un giro su Internet -  è criticato dai fascisti con il complesso di Badoglio rimasti  fermi al mito della Repubblica Sociale. Veramente inimmaginabile quel che ruota intorno a Fratelli d’Italia.

E non entriamo nel merito dei contenuti, né de saluti romani, né dei commenti incendiari sotto il video di Giorgia Meloni. E neppure del vergognoso tentativo, ripetiamo, di dipingere il nazionalismo, come un atto di amore, in perfetta linea con la tradizione fascista.

Per quanto bestiale l’uccisione di Sergio Ramelli, come pure i terribili "Anni di Piombo", che, si badi  bene, la destra missina e postmissina ingigantisce e dipinge come gli anni della “loro” Resistenza al “sistema” (quello liberal-democratico )… Per quanto bestiale, dicevamo, non si possono dedicare solo 100 parole a un evento epocale come il Venticinque Aprile e 260 a un evento che qualsiasi storico obiettivo non può non definire di partito.

Per quale ragione la Festa della Liberazione è un fatto epocale? Perché riguarda l’Italia e il mondo libero. Il mondo intero. Non si dimentichi mai che le divisioni celebrative continuano a vederle solo  i  fascisti, perché non hanno mai accettato la giustissima sconfitta. Per un democratico festeggiare il Venticinque Aprile resta la cosa più normale del mondo. Un riflesso politico naturale. Di cui però sono privi, dalla nascita, i persecutori di ebrei e partigiani. Che perciò, per non fare i conti ideologici con se stessi, parlano di “divisioni”.

Le 100 parole dedicate alla Resistenza registrano come un obiettivo fotografico lo squilibrio politico e ideologico che oggi purtroppo marchia al fuoco della fiamma la disgraziata realtà italiana.

Se i fascisti non sono ancora tornati, siamo abbastanza vicini. La progressione c’è: nel 2023 la commemorazione di Sergio Ramelli all’Istituto Molinari, scuola frequentata dalla giovane vittima, avvenne alla presenza della sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti. Quest’anno si è mosso tutto lo stato maggiore del partito ed è stato pure emesso un francobollo.

Se la destra riuscirà a conservare il potere approvando la legge sul premierato si rischia la cancellazione della celebrazione del Venticinque Aprile.

Ogni giorno che passa si sentono più forti. Sono sempre “loro”: i fascisti di un tempo. E il fatto che Giorgia Meloni, che all’epoca della morte di Ramelli neppure era nata, mostri di possedere  una memoria da elefante,  prova una specie di verità generazionale: che i missini, i fascisti dopo Mussolini, di generazione in generazione, non hanno imparato nulla e nulla hanno dimenticato. 

E come sembra neppure gli italiani. Dal momento che votano Fratelli d'Italia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.governo.it/it/articolo/ottantesimo-anniversario-della-liberazione-dichiarazione-del-presidente-meloni/28294 .
(**) Qui: https://www.youtube.com/watch?v=W4-SrQQejk0.