giovedì 23 luglio 2009

Il libro della settimana: Paolo Prodi. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino 2009, pp. 396, euro 29.00.

https://www.mulino.it/isbn/9788815130747?forcedLocale=it&fbrefresh=CAN_BE_ANYTHING


Piccola premessa. Il ghiotto volume di Paolo Prodi (Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 396, euro 29.00 ) si ferma all’inizio del XIX secolo. E quindi non giunge fino ai giorni nostri, benché nelle conclusioni l’autore si lasci andare a interessanti valutazioni sul presente e sul futuro, sulle quali torneremo.
Questo per far capire subito ai non specialisti, che quello che abbiamo tra le mani non è un pamphlet giornalistico, ma un solido libro storico. Scritto da uno studioso insigne, oggi professore emerito di Storia moderna dell’Università di Bologna, nonché fratello di Romano, già Presidente del Consiglio e docente di economia.
Un testo che completa un brillante percorso di ricerca sul concetto di forum. Prima visto come luogo in cui si incarna il patto politico (Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino 1994); poi quale luogo in cui si amministra la giustizia (Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino 2000); e ora come mercato. Ma anche quale “occasione” che può fare l’uomo ladro, per dirla con un antico adagio.
Perché lo abbiamo definito “ghiotto” ? Prodi, da storico di razza, privilegia sempre la complessità, seguendo i sicuri sentieri di una storiografia fatta non solo di risposte ma soprattutto di domande. Pertanto il lettore vi troverà soprattutto fatti, sottilmente analizzati, e mai petizioni di principio.
Ma qual è la sua tesi? Facciamo parlare l'autore.
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“Qui non intendo… esaminare l’istituto del ‘furto’, il comportamento furtivo, nella dimensione astorica onnipresente in ogni società, dalle più arcaiche sino a oggi, ma nel suo divenire storico concreto in rapporto con la genesi e lo sviluppo del mercato occidentale, come tendenza a impadronirsi dei beni del prossimo attraverso il mercato, infrangendo o deformando le sue regole” (p. 17).
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Attenzione: infrazione o deformazione delle regole di mercato. Ecco la differenza fra Prodi e certa storiografia “mercatista”, che invece ritiene il mercato sano in se stesso. Secondo lo storico bolognese il mercato in Occidente si è sviluppato, tra i secoli XI e XVIII, non per intervento di una specie di spirito santo capitalistico ma attraverso l’interazione dialettica, dura ma creativa, fra stato, chiesa e istituzioni economiche. Nelle vesti spesso sontuose di papi, chierici, re e principi, mercanti e finanzieri. Un'interazione che ha condotto alle regole, imposte dallo stato.
Prodi tratteggia forze storiche concrete e si riferisce a concezioni etiche e politiche reali; studiandole, per dirla in sociologhese, "in situazione". Cosicché il lettore può scoprire da solo, come il rispetto delle regole di mercato implichi sempre l’esistenza di uno stato che si comporta da stato (e che dunque legifera e controlla ) e di un mercato che si comporta da mercato ( e che quindi scambia beni e non produce, almeno direttamente, quelle stesse le regole cui poi dovrebbe obbedire).
Semplificando: dove c’è il predominio di una sfera sull’altra, prevale il furto ( o dello stato o del privato) a danno della comunità. Dove c'è equilibrio conflittuale, la comunità prospera. Ecco la lezione della storia moderna: quella di un capitalismo socialmente ben temperato, grazie al dualismo permanente, necessario e creativo tra stato e mercato. Dove il "tasso" di onestà dipende, come dire dalla qualità della "lotta per le regole", condotta, in primis dalle istituzioni politiche. Si tratta di una chiave sociologica molto interessante, quella della sociologia del conflitto, che va da Gumplowicz a Dahrendorf, intelligentemente reinterpretata da Prodi in termini storici.
Un dualismo che vede soprattutto nei secoli XVI-XVIII il conflitto tra Stato Assoluto (ma in via di democratizzazione) e "Repubblica internazionale del denaro" (banchieri e finanzieri). Dal quale scaturirà il moderno capitalismo, con i suoi pregi e difetti. Conflitto - come nota Prodi nelle sue riflessioni finali – che nel secolo XIX sfocerà nella vittoria dei sistemi imperiali (in particolare quello britannico) . Detto altrimenti: nello “stato chiuso”. E dunque nel predominio del pubblico sul privato. Al quale però succederà dopo la parentesi dei totalitarismi e del welfarismo, un mercato fin troppo aperto, quello della globalizzazione senza regole: del predominio del privato sul pubblico.
Molto interessante è la ricostruzione dell’evoluzione dell’idea di furto:
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“Il concetto e la prassi di “furto - scrive l’autore - sono cambiati radicalmente in Occidente insieme ai concetti di ’ricchezza’ e di ‘povertà’… Questo mutamento ha costituito una componente importante sulla strada verso la modernità. Si è passati dalla concezione immobile basata sulla tradizione biblica e sulla legge naturale, ripresa dal diritto romano, del furto come violazione del principio fondamentale della giustizia (suum cuique tribuere: quindi furto come sottrazione di cosa altrui invito domino) a una concezione dinamica del furto come infrazione delle concrete regole della comunità umane nel possesso e nell’uso dei beni di questa terra, come violazione fraudolenta di un patto contrattuale, sia formalmente stipulato tra due o più soggetti, sia implicitamente compreso nei patti di convivenza di una comunità” (p. 109).
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Questo per il passato. E oggi? Secondo Paolo Prodi:
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“Il problema è che davvero è scomparso il confine tra il furto e il comportamento onesto, tra il lecito e l’illecito: al centro della scena si pongono a mio avviso tre problemi fondamentali: il formarsi di un capitalismo finanziario del tutto nuovo, delocalizzato invisibile e irresponsabile; il problema della limitazione delle risorse del pianeta…; il problema delle minacce incombenti sulla sopravvivenza dell’ambiente naturale…” (p. 377).
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Problemi “politici” non di poco conto. Ai quali uno storico difficilmente può rispondere. Forse si potrebbe chiedere a Romano Prodi. Ma solo dopo aver letto il bel libro del fratello Paolo.

Carlo Gambescia

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