martedì 21 aprile 2009

Basta con le ideologie
La crisi economica è una cosa seria




Quando si parla della crisi attuale si dovrebbe sempre distinguere tra ideologia e realtà. Che cosa intendiamo dire? Che coloro che "parlano" ideologicamente della crisi tendono a proiettare su di essa i propri “desideri”.
Il neoliberista asserirà che la crisi è frutto di "poco mercato", perché solo la libera concorrenza può eliminare le mele marce...

Il marxista dichiarerà che la crisi riguarda la caduta del saggio di profitto, e che dunque Marx in fondo aveva ragione...
Il decrescista riterrà che la "megamacchina", a causa di una sovraesposizione finanziaria, sì è finalmente inceppata...
Il riformista sosterrà che i meccanismi capitalistici, funzionano imperfettamente, perché lo stato avrebbe fatto un passo indietro; di qui la necessità di regole.
Queste sono le principali quattro interpretazioni ideologiche della crisi, “secondo i desideri” di chi le formula. Dietro le quali però - cosa del resto compresibile quando si punta solo sulla lotta politica - si nascondono le aspirazioni degli interpreti (per carità politicamente comprensibili: puro "istinto delle combinazioni"): il liberista aspira a un mercato puro; il marxista alla nascita di una società comunista; il decrescista a quella di una società post-capitalista, dalle linee ancora sconosciute; il riformista al mantenimento di un capitalismo welfarista, o quasi.
Sono quattro derive retoriche, in fondo non molto diverse. Vediamole.
Gli approcci marxista e decrescista sono entrambi catastrofisti, nel senso che tendono a scorgere, forzando la realtà, i segni della “fine” in qualsiasi dato sociale ed economico negativo, o parzialmente tale.
Mentre quello liberista è ugualmente catastrofista, ma nel senso opposto, dal momento che tende a scorgere, sempre forzando la realtà, in ogni provvedimento di tipo interventista un attentato al capitalismo.
Infine quello riformista, anticatastrofista per eccesso, tende a scorgere, in ogni lieve segno di miglioramento della situazione, magari a seguito di misure pubbliche, un segnale, anche minimo, di ripresa economica.
Resta anche una quinta interpretazione complottista, spesso politicamente trasversale, che nel suo catastrofismo, giudica qualsiasi regresso o progresso della crisi come un successo o insuccesso, nella lotta contro un' invisibile e potentissima oligarchia economica mondiale.
Purtroppo, su queste basi ideologiche resta e resterà molto difficile - se non in termini di pura lotta politica tra opposte retoriche - giungere a una analisi oggettiva, scientifica e completa della crisi attuale. Queste posizioni "non aiutano", pur soddisfacendo funzionalmente ( in particolare le marxista, decrescista e complottista) certo estremismo ideologico molto diffuso soprattutto nella Rete. Basta infatti decretare, danzando con le parole come sciamani impazziti, l'imminenza della crisi finale del capitalismo per essere ripresi e applauditi. Chi si contenta gode.
Un solo esempio, è noto che la crisi dei ceti medi, non è frutto della crisi attuale, ma risale, almeno alle politiche neoliberiste degli anni Ottanta del secolo scorso, legate ai tagli settore pubblico e alle sovvenzioni alle imprese private e principalmente alla delocalizzazione produttiva, come portato della globalizzazione (chi scrive se ne è occupato per prima volta almeno venti anni fa, a proposito del presunto passaggio dal fordismo al post-fordismo). Una crisi sociale stabilizzatasi negli anni Novanta, e infine riaccesasi, ma non vi sono ancora dati sicuri, all'indomani della crisi attuale, quindi da circa un anno e mezzo, forse due. Si tratta perciò di una tendenza non chiaramente manifestatasi e verificata su basi osservative sicure. Di riflesso non si può ancora parlare di una costante sociale ricorrente nel capitalismo, o addirittura di una legge economica in senso marxiano.
Inoltre, prima di pronunciarsi definitivamente sulla proletarizzazione del ceto medio (che poi rinvia al vecchio, e mai provato, schema marxiano della caduta tendenziale del saggio di profitto e della divisione della società in due classi), per correttezza, andrebbero distinte le situazioni sociali statunitense ed europea sulla base delle diverse tradizioni politico-sociali, e dunque in relazione alle differenti capacità di risposta. Infine i tassi di povertà - certo non encomiabili - sia in Europa che negli Stati Uniti, sono molto diversi, come lo stesso giudizio sulla natura della povertà. Tassi che negli ultimi dieci anni - semplificando - sono rimasti stabili intorno al 10 per cento (Europa), al 20 per cento (Stati Uniti), al 5 per cento Giappone. (http://web.worldbank.org/WBSITE/EXTERNAL/DATASTATISTICS/0,,contentMDK:20394878~menuPK:1192714~pagePK:64133150~piPK:64133175~theSitePK:239419~isCURL:Y,00.html    ).
Alla luce di quanto sopra resta perciò prematuro e fuorviante, almeno per ora, parlare di proletatizzazione galoppante del ceto medio e sognare improbabili rivoluzioni sociali (anche perché, sia detto per inciso, mancano professionisti della rivoluzione, come quelli di inizio Novecento). A meno che, per ragioni narcisiste, non ci si voglia atteggiare a nobili cavalieri senza macchia e senza paura del catastrofismo.
Di qui la necessità, per un pensiero veramente critico, di fuoriuscire da questo stallo epistemologico, per approntare strumenti analitici, capaci interpretare, non per desiderata, la crisi attuale.
Dunque studiare, studiare, studiare...

Carlo Gambescia 

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