sabato 1 novembre 2014

Riflessioni
Padri… figli… e…
di Giuliano Borghi

Raffaello, "Enea trasporta sulle spalle il padre Anchise", (Musei Vaticani)


Sono innumerevoli gli studi sulle cause che hanno indotto quei vari processi di dissoluzione che percorrono da tempo la società occidentale, e in particolare quella europea. Processi che hanno finito per minare le fondamenta primarie della società, tra le altre, proprio la famiglia e il matrimonio. Non è questa l’occasione per richiamare tali studi, perché richiederebbe un tempo e uno spazio di non poco conto. Si può forse delineare in tratti brevi come stanno le cose al riguardo, per quello che esse risaltano con una tale evidenza da far correre il pericolo dell’ovvietà al discorso che voglia dirle.
Nella stragrande maggioranza dei casi la famiglia dei tempi attuali si presenta come una istituzione determinata quasi esclusivamente da fattori conformistici, utilitari, al massimo sentimentali, senza più la vigenza del suo fulcro fondamentale costituito dalla auctoritas, in primo luogo spirituale, del padre. Il pater, cioè, non è più il “signore”, “sovrano”, come pretende l’originaria etimologia del nome, per quello che è privo proprio di quella forza che fa crescere colui che da essa è investito, potenza sulla quale si registra  per definizione l’auctoritas. A questa stregua una delle  principali finalità della famiglia, la procreazione, si riduce ad una mera, opaca continuazione di un sangue, che non ha più come controparte la continuità più essenziale di una influenza spirituale.
D’altra parte come potrebbe essere altrimenti e la famiglia come potrebbe continuare ad avere un saldo centro che la tenga assieme, se il suo capo naturale, il padre, oggi è spesso da essa estraneo, persino fisicamente, preso come è nel meccanicismo pratico della vita materiale? Che autorità può rivestire, allora, il padre se oggi egli si riduce ad una macchina per far denaro, al professionista tutto preso dai suoi affari contingenti? Questo vale anche per la moglie, per  la madre, quando dedica il suo tempo maggiore al mondo delle professioni e del lavoro. Ancor meno può giovare al clima interno della famiglia e ad una positiva influenza sui figli, l’altra alternativa della donna moderna, la “signora”, cioè, che si dà ad una esistenza frivola e mondana. Assenze e vuoti nella famiglia, un “mondo”, oramai, “senza cuore” che, per quanto in casi minoritari, hanno finito per creare una paradossale figura di figlio, quella di un orfano di genitori vivi.
Al decadere del prestigio del padre ha fatto riscontro il distacco dei figli, lo iato sempre più netto e crudo fra nuove e vecchie generazioni, la rottura della continuità spirituale tra le generazioni, tra padri e figli. Il distacco, la estraneità degli uni dagli altri è innegabile e di crescenti proporzioni, propiziati anche dal ritmo sempre più rapido e disordinato dell’esistenza. I figli, maschi o femmine che siano, desiderano che i genitori non si intromettano nella loro vita, perché “non la capiscono”, anche quando spesso non c’è proprio niente da capire, e pretendono che “pensino ai fatti loro”. In una tale situazione non è più solo una battuta umoristica quella che per i figli “moderni”, i genitori sono “un male inevitabile”.

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Dato tale stato di fatto, quale pur ne sia la causa principale, se questa si connetta soprattutto ai figli o ai genitori, la stessa procreazione assume un carattere assurdo e non può continuare a valere come una delle principali ragioni d’essere della famiglia. Solo la forza di inerzia, le convenzioni, la convenienza pratica, in un mediocre regime di accomodamenti è quello al quale in tantissimi casi oggi la famiglia deve il suo sussistere.
In verità, l’unità familiare può mantenersi salda, può sussistere, solo quando ha forza e vigenza un modo di sentire sovra-personale, tanto da far passare in seconda linea i fatti semplicemente individuali. Nella temperie individualistica della società odierna, al contrario, è ben difficile trovare una giustificazione, una valenza superiore che convinca a mantenere l’unità familiare quando l’uomo e la donna “non vanno d’accordo” e il sentimento, oppure il sesso, li conducano a nuove scelte. Da qui il fenomeno tutto contemporaneo del moltiplicarsi dei cosiddetti matrimoni falliti e il correlato regime dei divorzi e delle separazioni dei coniugi. L’indissolubilità del matrimonio-rito, che nell’area cattolica dovrebbe tutelare la famiglia, non riguarda oramai che la facciata, e il senso morale non si preoccupa affatto che il matrimonio sia effettivamente indissolubile, Ad esso importa solo fare come se fosse tale. Che uomini e donne, una volta ufficialmente sposati, facciano più o meno quello che vogliono, che fingano, che si tradiscano o semplicemente si sopportino, che restino insieme per convenienza tra le rovine della famiglia, poco importa. La morale è salva e si sostiene che la famiglia resti il fondamento della società basta che si condanni il divorzio e si accetti, nei fatti, quella sanzione sociale che corrisponde al matrimonio. L’ipocrisia sussiste anche in quelle società laiche dove il divorzio è ammesso senza opposizioni, perché si esige che egualmente si sacrifichi all’altare del conformismo sociale, quando uomini e donne si separino e si risposino in ricorrenza per i motivi più futili e ridicoli, al punto tale che il matrimonio finisce per essere poco più di una vernice puritana per un esercizio di libero amore, quando non anche di meretricio legalizzato.

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Già un grande scrittore cattolico, ha parlato all’inizio del Novecento dell’essere padri come della grande avventura dell’uomo moderno, data l’assoluta incertezza di quello che possono essere i figli, essendo improbabile che il figlio riceva dal padre qualcosa di più della semplice “vita”. In via di principio, a dire il vero, si dovrebbe assumere che la qualità non solo fisica, ma anche spirituale, del padre continui ad essere presente nell’uomo, che in potenza rimane sempre quello che per natura è, e continui a fluire seppure in guisa carsica. E’ vero anche, però, che potrebbe trovarsi paralizzata per la presenza di una materia refrattaria e dissociata nelle nuove generazioni.
 A tale proposito appare problematico quello che si può raccogliere dalle generazioni più recenti, in particolar modo da quelle che con nomi fantasiosi da sociologi e storici sono state classificate come generazione X, segnata dal nichilismo e dal sentirsi una generazione perduta, oppure generazione Y, oppure Generation Golf, quella che ha vissuto negli anni Ottanta con un certo benessere, oppure Shampoo generation, dove sono le madri contestatrici e i figli conformisti, o ancora, Fun generation, Generation me, Generation nè-nè, quella che rifiuta tanto lo studio, quanto il lavoro. E così via…
Per continuare nel tempo ogni cultura ha bisogno di trasmettere attraverso le generazioni lingua, passioni, idee generali entro le quali dar senso alle esperienze, immagini di comportamento per orientare con una minima sicurezza.
Può confortare il richiamo di una veramente bella immagine di Omero, quando nell’Iliade scrive: Come è la stirpe delle foglie, così è anche quella degli uomini. Le foglie, alcune il vento ne versa a terra, altre il bosco rigoglioso ne genera, quando giunge la stagione della primavera: così una stirpe di uomini nasce, un’altra si estingue.
Per quanto drammatiche possano essere le condizione attuali, queste, tuttavia, non hanno carattere alcuno di fatalità. Padri non si nasce, si diventa. Figli si nasce, ma questa ragione, ovviamente necessaria, non è però sufficiente. Anche i figli devono diventare tali. Non è certamente possibile pensare che si possa giungere ad un cambiamento con misure esterne. Il “nemico è dentro di noi”e per vincerlo occorre propiziare un mutamento di cuore e sulle sue scansioni registrare un evocativo modello di relazione tra padri e figli, per il quale l’identità e la storia degli uni si incontra, si scontra, si costruisce, si decostruisce con l’identità e la storia degli altri, godendo della densità spirituale che dona la triplice circolarità del dare-ricevere-restituire.

Giuliano Borghi


Giuliano Borghi, docente di filosofia politica nelle università di Roma e Teramo. Ha pubblicato studi su Evola, Platone, Nietzsche, il pensiero tragico e la filosofia della crisi.  Si occupa in particolare dei rapporti tra pensiero politico ed economico dal punto di vista dell'antropologia filosofica.


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