giovedì 26 febbraio 2009

Il libro della settimana: Giulio Sapelli, La crisi economica mondiale. Dieci considerazioni, con una postfazione di G. De Lucia Lumeno, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 64, euro 7,00. 

http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php?codice=9788833919669


Tentare di spiegare in poco meno di sessanta pagine (postfazione esclusa) le ragioni della crisi mondiale può essere una sfida interessante. Soprattutto per un studioso del calibro di Giulio Sapelli. Tuttavia spesso, come dicevano crudamente i nonni, “chi troppo vuole nulla stringe”. Il che in soldoni significa che il volume di Sapelli ( La crisi economica mondiale. Dieci considerazioni, con una postfazione di G. De Lucia Lumeno, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 64, euro 7,00 ) manca l'ambizioso bersaglio. E per due ragioni.
In primo luogo, perché il volume è privo di organicità. Dà l’idea di una raccolta di scritti giornalistici. Sapelli, come è noto, collabora al Corriere Economia, e crediamo questa sia la sede di provenienza degli scritti. E di riflesso ricostruzione e argomentazione finiscono per risentirne. Ad esempio, ricondurre "giornalisticamente" la crisi mondiale nell’alveo di un presunto “colpo di stato mondiale dei manager stockopzionisti”, per poi tornare a celebrare il valore di una “governance” (altra parola magica, assai usata dai giornalisti), costituita carnalmente dagli stessi top manager stockopzionsti viziati e infedeli di cui sopra, non può non creare sconcerto nel lettore affamato di certezze e chiarezze. Probabilmente, ripetiamo, si tratta di “pezzi” dedicati alla crisi, ma scritti in fasi diverse, e riuniti per l’occasione.
In secondo luogo, il volume non dice nulla di nuovo sulle origini della crisi che non si sia già letto sulla grande stampa neo-liberista italiana. Quella che in altri tempi si liquidava come " La Voce del Padrone". Ma quanta acqua è passata sotto i ponti. Purtroppo.
Infatti, Sapelli, tra le cause elenca, oltre alle stock option, la crescita delle rendita (alimentata da speculazioni finanziarie), il fallimento delle rivoluzioni liberali in economia, la corruzione dei politici e il mancato rispetto da parte di numerosi imprenditori delle regole dell’etica economica capitalistica.
Nulla di nuovo sotto il sole. Eccetto quando l'autore accenna alla necessità teorica di una nuova teoria economica del rischio, capace di aiutare gli operatori economici a distinguere tra rischio necessario e rischio non necessario. O se si preferisce tra rischio utile e inutile.

Ma per chi? Per i ceti più deboli, come nel caso dei subprime statunitensi? Oppure per quelli più forti, rappresentati da imprese capaci di favorire solo la speculazione borsistica, "regalando" stock option ai propri manager ?

Se ripercorriamo la storia della crisi attuale, nel primo caso lo scopo originario di un prestito era di favorire il godimento di un diritto sociale come quello del sicuro “tetto sulla testa”: dietro il rischio c'era un bene sociale. Nel secondo caso lo scopo primitivo era di facilitare l'arricchimento di un pugno di manager, spesso, stupidamente, a danno della stessa impresa : dietro il rischio c'era un bene antisociale.

Certo, la possibilità di "giocare" con i "derivati" ha poi trasformato in bombe a orologeria i rischi connessi con attività di valore sociale differente. Il che però significa che va tenuta teoricamente ferma la diversità delle motivazioni iniziali: sociali nei mutui abitativi, antisociali nelle stockoption. Insomma, mai gettare il bambino (del valore sociale) con l'acqua sporca (della speculazione).


Di qui la necessità di una nuova teoria sociologica del rischio. Capace però di commisurarlo, anzi ancorarlo, al valore sociale (originario) di un investimento. Ecco il punto: l’economia va ripensata sociologicamente. Peccato che proprio un studioso, anche di storia sociale, come Sapelli non sia interrogato su questa importante questione. 

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