Il libro della settimana. Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare
Piombino, Edizioni A. Car. 2014, pp. 194, Euro 12,50 - http://www.edizioniacar.com
I piombinesi sono come i portoghesi? Non è
una battuta, perché nel bel libro di Gordiano Lupi, Calcio e acciaio. Dimenticare
Piombino (Edizioni A. Car.)
si respira una tristezza molto portoghese, così come viene descritta in
un bella pagina di Mircea Eliade, che merita di essere riletta:
Questo è un popolo triste. Me l’ha detto un giorno un amico portoghese,
ma non volevo crederci. Più conosco i Portoghesi, più mi convinco che la
saudade non è un’invenzione di Coimbra, dei poeti e dei viaggiatori romantici.
I portoghesi non hanno l’espansività dei meridionali , non hanno nessun tipo di
veemenza, nessun grido esploso da un eccesso. Penso a tutti i miei amici, a
tutti i Portoghesi che ho conosciuto, alla gente intravista sui treni,
nelle piazze, seduta ai tavolini dei caffè o nelle sale di spettacolo. Hanno tutti
una curiosità, impacciata sobrietà nei loro gesti, sebbene non siano pacati.
Sono malinconici, sorridono continuamente, con lo sguardo perduto, sono
affabili come tutti coloro che portano con sé una tristezza inesplicabile,
senza motivo.
(M. Eliade, Le messi del solstizio, Memorie 2: 1937-1960,
a cura di Roberto Scagno, Jaca
Book 1995, p. 75).
Il parallelo non è del tutto calzante?
Forse. Tuttavia, i tre archetipi viventi di calciatori
piombinesi, Agroppi, Vieri e Sonetti, evocati nel romanzo, quasi
numi tutelari della piombinesità ( si dice così?), sorridono di
meno, probabilmente sono anche meno affabili, ma hanno lo
stesso sguardo perduto, portatore di una tristezza inesplicabile, del
protagonista: Giovanni, ex calciatore di serie A, tornato a casa
per allenare la squadra dilettanti della sua città natale.
Giovanni è tornato a Piombino per ammalarsi di ricordi. Quando la realtà
non è come la vogliamo si finisce per rifugiarsi nel passato, negli episodi dell’infanzia, perduti nelle
feritoie della vita […] Vivere con i ricordi è bellissimo, reca una
felicità struggente, vivere di ricordi no, fa invecchiare in fretta. Se almeno
ci fosse il calcio, quel calcio che per Giovanni è la sola cosa capace di farlo
vivere senza pensare (pp. 77-78).
Sì, il calcio: l’alfa e l’ omega di una
intera vita. Tuttavia sotto c’è dell’ altro: la ferma
eppure malinconica consapevolezza dell’inarrestabile
flusso delle cose umane.
Il problema con la vita è che, anche quando non cambia mai, cambia
continuamente, pensa Giovanni. Una frase letta in un libro un po’di tempo fa,
forse in ritiro, alla vigilia di una partita importante, non ricorda dove, ma
riassume il suo stato d’animo attuale, la situazione di quiete in una provincia
dove il tempo sembra immobile e ripiegato su se stesso, dove il giorno
successivo ha il sapore del precedente. Ma cambia, certo che cambia. Abbiamo
vinto il campionato, tra poco cominceremo la preparazione per una nuova
avventura, molti anni sono passati e hanno lasciato il segno, dispensato
ferite, distrutto ricordi. Piombino non è la stessa di quando sono tornato (p.
103).
In fondo la parabola esistenziale,
individuale e sociale, che segna il romanzo, che pure
ha una sua trama avvincente, è simbolicamente racchiusa
nella parabola del piombinese stadio Magona.
Calcio e acciaio, binomio
indissolubile, come dicono i vecchi, parafrasando pane e fumo, modo di dire dei
piombinesi come suo padre che hanno passato la vita nella grande fabbrica
maleodorante, polipo gigantesco che allunga tentacoli di fuoco tra le viscere
degli abitanti. Prendilo, è di Magona! Dicevano le mamme alle figlie ai tempi
del Piombino in serie B. La Magona produceva lamiere, finanziava il
calcio, era il simbolo d’una città fiorente dove tutti avevano un lavoro. Un
marito che lavorava in Magona, in Acciaieria, persino alla Dalmine, era una
garanzia. Adesso, invece, si parla di chiudere l’altoforno (p. 116)
Eppure…
Lo Stadio Magona è là dagli anni Cinquanta, dopo la chiusura del
Salvestrini nella zona del porto, con il velodromo e la rete di recinzione
appena intuita, dopo la fine di piazza Dante come campetto dei pionieri. Lo
Stadio Magona volevano demolirlo per edificare un Centro Commerciale Coop, un
orrendo magazzino Ikea e pure un megaparcheggio. Lo Stadio Magona per fortuna è
ancora al suo posto, brutto, cadente, decrepito, ma grande contenitore di
ricordi (p. 140).
Perciò la vita continua… A che
prezzo?
Giovanni sa che le acciaierie sono in crisi, uomini e donne rischiano di
restare senza lavoro, senza una speranza per il futuro, privi di quel posto
fisso che è stato il sogno del nonno e del padre. Il mondo che il vecchio
allenatore ha conosciuto sta scomparendo giorno dopo giorno. Il calcio è
l’ultima certezza della sua vita, non è più il calcio che l’ha convinto a
sfidare l’ignoto, ma in fondo la lotta domenicale è scontro fisico, agonismo,
rabbia, persino commozione. Tutto questo fa parte della sua passione,
immodificabile, eterna, indistruttibile, che l’ha portato a credere di poter
continuare a sognare, proprio come diceva il nonno (pp. 186-187).
Romanzo, come dire,
filosofico? Dove la “piombinesità” è il bisturi
affilato per sezionare l’universo umano? Non
solo. Come accennavano, la trama della storia non delude e i
personaggi hanno vitalità e fisionomia propria. Da Giovanni,
Eraclito del calcio filosofico, malinconicamente consapevole di non poter
bagnarsi due volte nello stesso fiume, al nonno, Francesco, dalla
vita sognante e avventurosa, che come “migrante” si bagnerà nelle acque
di più fiumi. L’esatto contrario del figlio Antonio, padre di Giovanni,
inchiodato alla catena di montaggio sulle rive del Tirreno, che
trasferirà i suoi sogni sul figlio. E poi Carla,
madre e irrequieta controfigura di Giovanni; Debora, pensiero
ricorrente di una sfida mai accettata e comunque perduta; Cinzia,
amica-amante e convitato di pietra di un mondo fatto di abitudini.
E così via, di slancio, attraverso altre figure, che
non sono mai minori e che si accendono di luce propria, anche solo
per un momento: Paolo, Sergio, Gino, Paola.
Infine Tarik: calciatore di belle speranze , approdato
a Piombino dal Marocco, prigioniero della saudade,
perché moglie e figlio sono lontani. Di qui, per mutare
registro linguistico, il rendimento alterno, di un atleta nel
quale Giovanni
vede il figlio perduto, vorrebbe comprendere cosa lo rende insoddisfatto.
Nei suoi occhi rivede il passato, il campo sterrato di Gela, le battaglie con
Acireale, Catania, Messina, i giorni di Trani, la maglia nerazzurra del
Bisceglie e gli anni d’oro a Milano. Adesso che altri allenatori hanno preteso
da lui. Allenare i nerazzurri di Piombino è un ruolo che ama, ormai non chiede
altro al mondo del calcio,dopo aver vagabondato per tutta la vita in cerca di
fortuna ha trovato il suo angolo di quiete. Giovanni assapora il vento di
ponente, che spira violento dall’Elba, respira l’odore ferroso della acciaieria
ela sabbia del deserto, quella sabbia che viene dall’Africa in cui Tarik ha
lasciato la famiglia. Giovanni teme che il suo campione non voglia credere nei
sogni, ma forse sarebbe peggio che non ne avesse, che vivesse senza tentare di
centrare un obiettivo alla sua portata.“Devi far vedere quel che vali,
ragazzo!”, gli dice Giovanni durante una pausa dell’allenamento. “Sarai al
centro del nostro attacco. Tutto dipenderà dalle tue reti. Non mi
deludere”. Tarik sorride. Scarpette bullonate e maglietta nerazzurra
fuori dai pantaloncini bianchi. È il sorriso di chi ha soltanto vent’anni ma ha
vissuto cose più grandi di una partita di calcio, è il sorriso di chi non potrà
mai prendere troppo sul serio un rettangolo verde dove si gioca per mettere un
pallone in fondo alla rete. Sembra un dialogo tra padre e figlio, tra un
vecchio allenatore e un giovane attaccante da gli occhi tristi. Tutto il resto
è palcoscenico, consueto contorno della vita. Un gabbiano passeggero, una
rondine distratta, la colonna di fumo dell’acciaieria. Giovanni e Tarik sono
l’alba e il tramonto d’un sogno che non può andare perduto (pp. 112-113).
Che fare? Come aiutarlo?
Giovanni non dimentica la lezione del nonno “migrante” e sognatore perché
migrante e migrante perché sognatore… Lasciamo però al
lettore il piacere di scoprire se e come… Anche qui però
sembra riaffacciarsi l’ inesplicabile saudate
portoghese-piobinese di cui parlavamo all’inizio. Dal momento che
Giovanni spera che [Tarik, ndr] si ricordi di lui, della sua prima
squadra, del cadente Stadio Magona dove ha debuttato, dei volti di operai
anneriti dal fumo dell’altoforno,delle strade strette e tortuose che conducono
nella piazza sul mare. Tarik, proprio com’è accaduto al vecchio allenatore, non
dovrà mai dimenticare Piombino (p. 187).
Ce la farà Tarik? Riuscirà a
diventare un campione. Giovanni sa, come il nonno, che
tutto cambia… Ma sa anche, come il padre, che la vita spesso impone
di adattarsi.
Mi trovo spesso a pensare che siamo i protagonisti d’una storia che sta
finendo, confinati in un angolo d’ombra, viviamo del nostro passato, piangiamo sulla
nostra vita. Ogni tanto ci ritroviamo, si accende una scintilla, proviamo una
nostalgia incredibile del passato. Sappiamo che non può tornare. Sappiamo che
dobbiamo vivere il presente (p. 108).
Vivere il presente significa
andare avanti. E andare avanti implica sempre la rinuncia
a qualcosa. E anche Tarik dovrà fare le sue scelte. Il
che potrebbe essere argomento per un altro bel romanzo, tra filosofia, calcio e
realtà, pasolinianamente intitolato Tarik dagli occhi azzurri.
Carlo Gambescia