venerdì 14 aprile 2006


Retorica  a buon mercato
Le due Italie...




Si parla molto in questi giorni di  due Italie, divise per politica, storia, cultura, economia, eccetera. Quest'idea ha un fondamento reale? Esistono,  oppure si tratta di un puro e semplice espediente retorico-politico?
In primo luogo l'idea delle "due nazioni"all'interno di una, ha origini romantiche. Rinvia in particolare alla cultura politica inglese successiva alla rivoluzione industriale e alla critica delle sue conseguenze. Il termine fu coniato dal futuro primo ministro conservatore Benjamin Disraeli nel suo romanzo Sibyl: Or The Two Nations (1845). Disraeli parlava da politico romantico, di una Inghilterra tagliata in "due nazioni" dalla Rivoluzione industriale, mai come nel passato: la nazione dei ricchi e la nazione dei poveri. Frattura che solo il ritorno di una aristocrazia illuminata avrebbe potuto ricomporre. Anche sull'altro versante Marx ed Engels difesero più o meno le stesse tesi, delineando nel Manifesto (1848) una netta divisione del mondo in proletari e borghesi. Alla quale avrebbe messo fine un processo storico-economico, rivolto a edificare prima il socialismo e poi il comunismo universale.
In secondo luogo, questa idea delle "due nazioni", se aveva un fondamento reale (economico e sociologico) nell'Ottocento, non lo ha più oggi, soprattutto in Italia. Dove statisticamente parlando, e pur in presenza di fasce di estrema povertà e grande ricchezza, 3 italiani su 4 appartengono per reddito, consumi e prospettive di vita al ceto medio. L'Italia sociologica è una, ed è soprattutto borghese (nella varie differenziazioni sociali di piccola, media e alta borghesia).
In terzo luogo, l'esistenza di questo "zoccolo duro" sociologico, fa sì che il dibattito attuale sulle due Italie abbia valenza esclusivamente retorico-politica. E questo poi spiega perché sul piano dei programmi destra e sinistra finiscano per sostenere più o meno le stesse tesi. E purtroppo chiarisce pure perché la politica, dal momento che non riflette reali divisioni economiche e sociali di tipo ottocentesco, sia degenerata in brutali ed egoistiche lotte di potere tra gruppi politici rivali. Può non piacere, soprattutto agli "idealisti", ma purtroppo, per ora, la realtà è questa.
In quarto luogo, una sinistra che si rispetti, dovrebbe farsi interprete di quell'italiano su quattro che non appartiene al ceto medio.  Il problema è che, anche la sinistra al di là della retorica politica sulle due Italie, (che come si e visto economicamente e socialmente non esistono), punta soprattutto sul ceto medio ( una piccola e media borghesia, composta di dipendenti pubblici e privati). Mentre la destra punta più o meno sugli stessi ceti, ma privilegiando principalmente l'ambito del lavoro autonomo, del mondo artigiano, dei piccoli professionisti e della piccola e media impresa). E quel che è peggio, è che sia la destra, sia la sinistra (o comunque certa destra e certa sinistra) si sforzino solo di catturare, non tanto il voto, quanto il consenso sostanziale delle principali lobby industriali e bancarie. Pensiamo all' "altissima" borghesia: quel mezzo milione di persone (inclusi i massimi quadri dirigenti, "excutive cadres"), da cui però dipendono il destino economico e le alleanze politiche dell'Italia. Si pensi  solo all'importante ruolo finora giocato da questi settori nel favorire apertamente l'introduzione del lavoro flessibile (allo stato puro) e la scelta occidentalista  (gradita non solo a Berlusconi, come insegna la guerra del Kosovo...).

Perché invece di continuare vanamente a discutere sulle "due Italie" che di fatto non esistono, non ci si sforza di dare voce agli esclusi? A quell'italiano su quattro? A quei molti (si parla di un milione di famiglie) che nell'arco dei prossimi cinque anni rischiano di sprofondare nel disagio sociale e nella povertà? 

Carlo Gambescia

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