mercoledì 1 ottobre 2025

Novant’anni dopo. Ora “Libero” celebra pure l’aggressione dell’Etiopia…

 


Il lettore dirà: Gambescia ha stufato (a questo proposito citofonare a Facebook), perché va a caccia con la lente di ingrandimento delle più piccole tracce di fascismo…

Forse non si è capito che è in movimento ormai un intero quadro storico, che si compone di dettagli, che proprio perché tali, non sono avvertiti dalla gente comune, in clausura nella pura e semplice quotidianità: il lavoro, caffè, il fine settimana, il calcio, eccetera. Finché non saranno vietati gli ingressi in pizzeria gli italiani non si accorgeranno del vicolo cieco (fascista) in cui si stanno cacciando.

Allora oggi a chi tocca? C’è uno storico, Marco Patricelli, che sa scrivere. Lo dimostra ne Il volontario( Editori Laterza): libro che racconta la vita di Witold Pilecki, l’uomo che si fece deportare ad Auschwitz per denunciare i crimini nazisti. Qui il suo stile funziona: ritmo narrativo, passione, empatia. E soprattutto: chiarezza morale. Pilecki è un eroe, i nazisti sono i carnefici, la memoria va salvata. Tutto limpido, netto, senza ambiguità.

 


Tre lustri dopo lo stesso Patricelli firma un pezzo su “Libero” per ricordare i novant’anni dell’invasione fascista dell’Etiopia. E improvvisamente cambia registro. Il Duce diventa l’ultimo colonialista, la guerra d’Etiopia è presentata come una vicenda fuori dal tempo ma dentro la storia, mentre gas tossici, massacri di civili, crimini e massacri come la strage di Debre Libanos, avvenuta nel 1937 durante l’occupazione italiana, vengono ignorati o minimizzati. Angelo del Boca docet (*)

Le vittime? Ombre indistinte. I crimini? Evocati appena, subito coperti da un velo letterario. E "Libero", quotidiano noto per la sua linea politica di estrema destra ci sguazza, amplifica l’ effetto. Ovviamente, sul piano dell’impaginazione, per ora, prevale il taglio basso. Però il pezzo, appena gridato, diventa una celebrazione soft, un’agiografia con filtri, piuttosto che un’analisi storica.

E qui sta il punto: sembra che Patricelli, come gran parte della destra culturale, per alcuni pseudo, adotti due pesi e due misure. Con i nazisti la condanna è netta, con i fascisti il racconto diventa attenuato, ovattato, a tratti indulgente. Ad Auschwitz si grida, ad Addis Abeba si sussurra. È il criptofascismo della memoria: non un’aperta celebrazione, ma una sottile nostalgia che ripulisce la Storia, addomesticandola.

Ma c’è un’altra questione, più amara: come mai uno storico preparato, un giornalista serio, può arrivare a prestarsi a queste retoriche? La risposta, purtroppo, è spesso pratica: bisogna campare. Non solo in senso economico, ma relazionale. Esiste un’altra forma di capitale, simbolico, che rinvia, soprattutto quando si scrive, alla ricchezza patrimoniale delle conoscenze e amicizie. Perché guastarsi? Sicché la morale è cruda: la storia diventa una materia prima da modellare per il lettore, non un obbligo morale verso i fatti. Insomma si attaglia la penna. In fondo che male c’è? E il discorso può anche reggere.

Attenzione però, qui è in gioco la (brutta) memoria del fascismo. Guai scherzare con il fuoco.

Memoria divisa? Deve restare tale, anche perché la divisione è evocata dagli stessi fascisti, che furono i primi se la memoria non ci inganna a liquidare come anti-italiani eroi della Resistenza antifascista (che è cominciata nel 1920-1921, non nel 1943), come Matteotti, Amendola, Gobetti, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, per fare solo alcuni nomi.



Storia senza pregiudizi? Pericolosa quando si parla del fascismo. O comunque va sempre tenuto conto che c’è chi potrebbe politicamente approfittare del più piccolo fruscio storiografico favorevole al fascismo. Si guardi a come è stato strumentalizzato politicamente a destra, persino dai tassisti e dai frequentatori di pizzerie, il concetto storiografico di consenso al fascismo – intelligente scoop storico di Renzo De Felice – per la serie il fascismo ha fatto anche cose buone.

Una pagina nera deve restare una pagina nera. In tutti i sensi. Vanno chiusi i rubinetti della storiografia. Gli Storici indaghino tutto quello vogliono, però a tenuta stagna. Nessun ponte tra Renzo De Felice, tassisti e divoratori di pizze margherita

Per tornare al buon Patricelli, il problema non è solo il contenuto, ma anche il tono. Scrive, e dispiace dirlo, come la Liala del giornalismo storico. Come in Signorsì, le acrobazie del pilota Mussolini, non sulla casetta di Renata, ma sulle capanne delle seminude tribù abissine armate di lance. Insomma la guerra coloniale diventa quasi una “novella” con Mussolini protagonista di un dramma “epico”, l’ultimo imperatore fuori tempo massimo. Ma la Storia non è un romanzo rosa. È sangue, iprite, deportazioni. 


 

Se il giornalismo storico riduce la guerra d’Etiopia a un capitolo “romantico” del colonialismo, si favorisce la destra italiana, quella che non ha mai fatto i conti col proprio passato. E poi per giunta sulle pagine dell'ultrameloniano "Libero".

Perché una cosa va detta chiara e tonda: Mussolini non fu un eroe tragico, ma un criminale di guerra. E ricordarlo senza veli narrativi non è questione di stile, ma di verità.

 

Carlo Gambescia

 

(*) Acuto e prolifico specialista. Autore di una storia in sei tomi del colonialismo italiano (Gli italiani in Africa Orientale e Gli italiani in Libia, Editori Laterza, 1976-1986). Sul punto specifico si veda A. Del Boca, La Guerra d’Etiopia. L’ultima impresa del colonialismo, Longanesi, Milano 2010.

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