domenica 31 marzo 2019

La Guerra Santa pro o contro la famiglia
C’era una volta il discorso pubblico liberale…



Oggi proveremo a tracciare  la storia recente  del dibattito o discorso pubblico liberale.  Quando si è avvitato? Quando sono mutati  lessico e toni? Quando si è fatta violenta  la comunicazione?   
Il  convegno internazionale di Verona sulla famiglia non è che il portato di questa involuzione. Si pensi,  in particolare,  agli slogan, terribili,  che i due contendenti,  tradizionalisti e pseudo-libertari, si scagliano contro a vicenda.  
Negli Stati Uniti, per  nobilitarle  le chiamano guerre culturali.   Oltreoceano,  addirittura  ci si uccide tra attivisti di segno contrario.  Ci si ammazza  sul serio:  di culturale e  teorico c’è molto poco.  C’è invece, sotto,  molta politica, come richiesta di finanziamenti,  leggi ad hoc, trattamenti preferenziali, quote, eccetera. Da contendersi, gli uni contro gli altri armati.  
Insomma,  come accade in questi giorni in Italia, sia i tradizionalisti sia gli pseudo-libertari vogliono soldi dallo stato.  Protezione totale, come variabile indipendente da ogni senso di responsabilità (come un tempo per i salari).  Che dire?  Individualisti con famiglie a carico dello stato.  Omo come etero. Il  violento linguaggio dei diritti è lo stesso.  E anche -  per ricaduta  -  l'altissimo tasso sociale, ripetiamo,  di irresponsabilità:  lo stato, come agente assicuratore, ma con polizze a costo zero. L'individualista protetto è un  free rider che scarica su un altro free rider, e così via, fino a quando il cerino acceso  resta nelle mani  dello stato...    
Ma torniamo al punto iniziale, quando sono mutati lessico e toni del dibattito pubblico?  Probabilmente con il Sessantotto, anno di nascita della cultura dei diritti civili con pesanti risvolti sociali.  Alla crescita dell’apparato welfarista, che ne è conseguita,  si è affiancata la  cultura del piagnisteo, la cultura  collettiva  delle rivendicazioni dei diritti sociali più fantasiosi. 
Pertanto,  siamo dinanzi  al diritto di avere dei diritti.  Si chiama individualismo protetto. Che, di rimbalzo, consacra il ruolo del potere pubblico nel redistribuirli.  Un mix infernale di protezionismo e individualismo.
Si potrebbe parlare di una sindacalizzazione dell’intera società, dove la controparte, contro la quale gridare,  è rappresentata dai gruppi di segno contrario  e dallo stato  che prontamente deve intervenire, o comunque di volta in volta dare ascolto e accogliere  le richieste più contraddittorie, per ragioni di consenso sociale. Di riflesso, più si alza la voce, più cresce la possibilità di essere ascoltati ed esauditi. Ripetiamo, regola che vale per tutti, tradizionalisti e pseudo-libertari.
Riassumendo:  1°) diritto di avere diritti, 2°) sindacalizzazione irragionevole; 3°) debolezza dei poteri pubblici, per corrotte  ragioni di consenso politico. 
A questi tre punti, che coprono il  periodo  anni Sessanta-Novanta del secolo scorso, si è andato, ad aggiungere, come  4°)  punto,  l’ “internetizzazione”  del  dibattito pubblico,  avvenuta negli anni Duemila.  Lo sviluppo  della  superficiale  cultura  del web   ha favorito, attraverso la rete sociale, l’ulteriore sviluppo di un  approccio violento e semplicistico al diritto  di avere diritti.
Una  vera e propria epidemia collettiva, fondata sull’egoismo e sull’odio, sugli strepiti dei  bambini capricciosi,  alla quale la politica, untuosamente, si è piegata.  Di qui, l’uso, sempre più diffuso,  di argomentazioni superficiali,  dai toni violenti e la conseguente  crisi (per alcuni fine) del dibattito o discorso pubblico liberale, fondato sul pluralismo ragionato e ragionevole, dai  toni soft e dai contenuti discussi  tra esperti.    
Concludendo,  la battaglia culturale (si fa per dire)  di Verona, tra tradizionalisti e pseudo-libertari, non è che un anello, neppure l’ultimo crediamo, della  grande catena di un individualismo protetto, ignorante e superficiale, che,  ideologicamente,  risale alla Contestazione degli anni Sessanta.
Siamo nelle mani di bambini villani, capricciosi. E violenti.


Carlo Gambescia    

sabato 30 marzo 2019

Commissione Banche, Mattarella firma
Parte il “romanzo criminale”...



La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche si risolverà nella migliore delle ipotesi, nell’ ennesima tribuna elettorale, e nella peggiore, nel consueto romanzo criminale sul capitalismo.  Si parla dell'ex conduttore della "Gabbia", Gianluigi  Paragone (nella foto),  come  Presidente...  Il che è tutto un programma.
Mattarella ha firmato, unendo  “Letterina”, come se non  conoscesse i suoi interlocutori  politici, a cominciare da un Masaniello mediatico come Paragone  né, soprattutto,  i devastanti  effetti di ricaduta mediatica delle Commissioni d’inchiesta . Eppure il Capo dello Stato insegnava  Diritto parlamentare.  

L’istituto  ha origini  ottocentesche e,  sul piano teorico, diciamo ideale,  doveva e deve  rinviare  alla fase conoscitiva, di Parlamenti, poi felicemente  e finalmente  deliberanti nel  nome del popolo sovrano, tra gli  usignoli cinguettanti e i prati in fiore. Così sui manuali.    
In realtà, come rilevò, già alla fine dell'Ottocento,  la politologia,  più avvertita, da Mosca a Pareto,  per fare i nomi  più famosi,  le Commissioni parlamentari d’inchiesta, riproducevano solo i conflitti politici del momento.   Ancora oggi si polemizza, -  almeno gli storici -   sull’insoddisfacente  verdetto   della  Commissione d’inchiesta sulla Banca Romana.  Conclusioni che  provocarono polemiche e scontri  politici, poi confluiti in quella cultura antiparlamentarista e populista, da cui originò il fascismo.  Figurarsi quel che di variopinto e pittoresco, potrebbe uscir fuori, in un’Italia più divisa di allora, sul sistema bancario italiano degli anni Duemila. 
Le Commissioni d’inchiesta, proprio perché di natura squisitamente politica, danno risposte politiche, e per giunta contraddittorie,  a questioni di altra natura, economica, giuridica, penale. Andrebbero abolite, o quanto meno riservate alle grandi tematiche astratte, tipo  la povertà, lo sviluppo economico, eccetera,  per lasciare che l’economia e i giudici, su certi temi caldi,  facciano il proprio lavoro. 
Ovviamente, come dicevamo,  quanto più il clima politico sociale è rovente  tanto più le Commissioni ne risentono, e non in meglio.   Pertanto, nell’ Italia di oggi, dove imperversano complottismo, anticapitalismo e populismo,  si rischia veramente di scivolare  verso  il  feuilleton politico-mediatico: il “romanzo criminale”, per dire una cosa al passo con i tempi.  Qui l’errore di Mattarella, che doveva opporsi.  Altro che “letterine”.

Qualche lettore penserà che da un difensore della democrazia  rappresentativa, come chi scrive, ci si aspetterebbe  altro atteggiamento verso uno  strumento parlamentare, in teoria, conoscitivo.  Il punto è che, come hanno provato numerosi studi, in materia,  la Commissione d’inchiesta, e più in generale, l’istituto stesso,   per funzionare,  imporrebbe la condivisione tra i partiti, rappresentati in Parlamento, ad esempio in ambito economico, delle stesse  idee sul modello di governo, stato e società.  
Ora, per tornare  alla Commissione d’inchiesta sulle banche, se una parte dei componenti, scorge balzachianamente, dietro ogni grande  fortuna un delitto, e un’altra intravede nello stato l’eroico difensore dei cittadini  dai tentacoli della grande finanza, che ci si potrà aspettare di buono? Quali potranno essere le conclusioni? E soprattutto  l’iter “politico” della Commissione stessa?  Che rischia di dare  la stura, con cadenza quotidiana  a titoli giornalistici  contro le "banche corrotte"?
Presto detto:  possiamo attenderci  solo l’ulteriore, e forse definitiva,  delegittimazione del sistema bancario, sistema,  che, a prescindere da cosa ne pensassero Balzac e Marx,  resta invece  il cuore pulsante dell’economia di mercato. Se si ferma,  l'organismo economico muore. 
Tradotto: i singoli uomini possono sbagliare, ma il sistema in sé funziona.  Ovviamente,  impone rischi, esalta il profitto,   ma senza rischi e profitto, non c’è sistema.  Sicché, ricondurre le possibili  colpe dei singoli, se si vuole la mancanza di virtù individuali  - perché le Commissioni puntano a nomi e cognomi da usare come capri espiatori politici -   ai vizi congeniti, collettivi, di un sistema dipinto come marcio, significa scegliere la  via  del suicidio sistemico. Che, come ogni strada  verso  l’inferno,  risulta lastricata di buone intenzioni.
Non è vero Presidente Mattarella? 
Carlo Gambescia   
                                                                             

venerdì 29 marzo 2019

L’editoriale di  Vittorio Feltri
Populismo giudiziario

Se qualche lettore desidera capire, in due battute,  come  riuscì Hitler ad afferrare il potere,  si legga il fondo di Vittorio Feltri sulla legittima difesa. Dove Salvini viene celebrato come una specie di  führer in sintonia con il popolo.  Perché -  riassumiamo la perla feltriana -   un leader  deve pensare come il popolo. Altrimenti non è democrazia.   
Insomma, secondo Feltri,  qual sarebbe  il compito del governo ? Quello di tradurre il legge la voglia di menare le mani del tizio del  bar, che al quarto-quinto superalcolico, afferma di essere pronto a  dare un fracco di legnate, fino a ucciderlo, a chiunque provi  a entrargli casa. 
Sicché portando alle estreme conseguenze il ragionamento,  Hitler e Salvini, facendosi promotori di un desiderio di vendetta collettivo, dagli ebrei ai topi d’appartamento,  incarnerebbero  la volontà del popolo. Senza la quale, ripetiamo, a giudizio di Feltri  non c’è democrazia.  
Pertanto, il lettore sarà felice di scoprire che la Germania hitleriana, incarnando la volontà del popolo tedesco, fu la più alta forma di democrazia del Novecento.  Sicché, anche Salvini sembra essere sulla buona strada.  Auguri.
Primo anno di  Giurisprudenza: il concetto di  stato di diritto implica il superamento  del concetto di vendetta. Ovvero, l’idea arcaica di farsi giustizia da soli.  
Si tratta della più alta forma di civiltà. Si chiama governo delle leggi. E cosa ancora più importante,   il fatto  che per ragioni organizzative, i tempi della giustizia  e l’operato di alcuni giudici politicizzati, lascino  a desiderare, non implica  la demolizione dello stato di diritto e la sostituzione  di esso, con le faide tra capi tribù armati fino ai denti.
Ovviamente -  come la sociologia insegna -  la comprensione del valore del diritto oggettivo non è da tutti. L'uomo comune vuole risposte non domande. E guarda  al particolare più che all’universale.  Il che non è un male, anzi.  Però,   servono dei paletti, delle regole generali, che,  senza scendere troppo nei dettagli (per evitare eccessi di legiferazione e regolamentazione), fissino solo alcuni principi,  chiari e semplici per tutti.  E uno di questi rinvia al divieto di farsi giustizia da soli.  Adam Smith, che un pochino se ne intendeva,  tra i compiti ridotti dello stato,  incluse l’amministrazione della giustizia,  oltre alla difesa nazionale e al miglioramento- mantenimento delle opere pubbliche.

Ora, elevare, in tema di giustizia,  il particolare (lo spirito di  vendetta) all' universale (delle leggi), celebrando la cosa come una lezione di democrazia, significa affossare lo stato di diritto e spianare la strada al populismo giudiziario: all'idea sbrigativa del popolo giudice ed esecutore al tempo stesso.
In parole povere, siamo davanti al tentativo (come pare riuscito)  di sostituire la volontà del bevitore di superalcolici,  a quella  di una raffinata cultura giuridica liberale.  Si mettono in discussione, tra l’altro con grande leggerezza, le stesse  coordinate  giuridiche, che consentono  il vivere civile. Certo, lo scambio protezione-obbedienza, che è  alla base  del moderno stato di diritto, non può e non deve risolversi mai  nella trasformazione dei cittadini in sudditi.  Servono equilibrio e prudenza.  Ma la libertà  non va confusa con la libertà di  farsi giustizia da soli.          
Quasi ci vergogniamo di dover scrivere queste cose, così banali.  Eppure…

Carlo Gambescia                                          

                      

giovedì 28 marzo 2019

Il  Ministro Bongiorno  e la  “castrazione chimica” degli stupratori
Il richiamo della foresta



Qual è il tratto distintivo della Civiltà Occidentale ? Insomma, ciò che distingue, l'universo storico e politico euro-americano, dalle altre Civiltà? Il mercato libero?  La democrazia parlamentare?  Lo stato di  diritto?  Diciamo che il comune denominatore  è rappresentato dalla condivisione della tradizione illuminista. Una linea di pensiero che affonda le sue origini intellettuali nella visione  cristiana, e ancora prima stoica, dell’ eguaglianza tra gli uomini.  Illuminismo significa libertà di critica e difesa dell’ eguaglianza. E quindi implica il rifiuto ragionato del pregiudizio.
I valori dell’Occidente hanno una portata titanica, perché la realtà sociale segue altre strade: quella del conformismo,  dell' ineguaglianza  e del pregiudizio.  Gli uomini si aggrappano alle proprie idee, giuste o sbagliate che siano, e di regola preferiscono non  sentire altre ragioni.  Al capire preferiscono il credere.  Pertanto, l’Occidente, inevitabilmente,  continuerà a entrare in contraddizione con se stesso. Esiste, purtroppo,  un  lato oscuro, ambiguo, inquietante dell'Occidente.

A questo pensavamo leggendo l’intervista del Ministro Giulia Bongiorno (*).  Dove si parla di introdurre, per i casi di stupro,  il   baratto (perché di questo si tratta) della sospensione della pena con la castrazione chimica.   A dire il vero il Ministro parla di “trattamento terapeutico o farmacologico inibitorio della libido”.  Per la serie,  se non è zuppa è pan bagnato... 
Cosa dire?  Che  ci si infuria,  in Occidente, quando si scopre che la lapidazione, non solo della donna,  è  prevista e praticata nel mondo islamico.   Poi però si propone la “lapidazione  chimica”. Certo, presentandola come misura alternativa e sotto  terminologie, come ora vedremo,  pseudo-liberali.
Qui, ripetiamo, il lato oscuro dell’Occidente. Dettato dalla contraddizione tra gli ideali  di libertà e uguaglianza e la forza del pregiudizio che invece  muove gli uomini nella realtà.
Nel caso  “del trattamento inibitorio della libido” il  pregiudizio è rappresentato da una antichissima  visione  circa la natura punitiva e repressiva  della pena. Pregiudizio, duro a morire.  Che in qualche misura rimanda al taglione e alla vendetta.
La condivisione  di  questo pregiudizio presuppone  il  rifiuto  della critica  migliorista dei sistemi penali, che risale almeno, negli intenti, al nostro Beccaria.  Come si può intuire, il Ministro Bongiorno,  si muove secondo le linee  di un diritto, se proprio così lo si vuole chiamare,  che con  i tratti distintivi,  illuminati,  dell’ Occidente, qui ricordati, non ha nulla a che vedere.
Ecco perché parliamo  di lato oscuro. Se si vuole di profonda ambiguità. Dettata da una astuta volontà di giocare su piani differenti. Dal momento che l’ idea di presentare la "castrazione chimica",  come esito  di una scelta volontaria, che volontaria  non è (perché l’alternativa è la galera), è solo un escamotage, o se si preferisce una foglia di fico sotto quale nascondere una visione pre-moderna  dei delitti e delle pene.  

Qual è la differenza, se non in un cavillo giuridico, tra la lapidazione e la "castrazione chimica"? Ma c'è un altro aspetto interessante, sociologicamente interessante. Il tentativo di   dare forma moderna  a contenuti  arcaici, è facilitato  da  ciò  che Carl Schmitt chiamava motorizzazione del diritto. Un dispositivo  sociologico   che nasce dallo strapotere dei poteri pubblici:  uno dei rischi, se non il principale,  della modernità. Si tratta però di un  fenomeno che  ha radici antiche, quanto la sete di potere insita nell'uomo. Uno strapotere  combattuto, in modo titanico, dal liberalismo moderno. Con  risultati, purtroppo, alterni. Come nel caso del diritto politico e penale.      
Facciamo un passo indietro. Se ci si pensa bene, il femminismo giuridico (per chiamare le cose con il  loro vero nome), che è alla base della proposta della Bongiorno,  viola il principio di uguaglianza  tra gli esseri umani, riportandoci, ad esempio, a forme di doppia (se non triplice o quadruplice) giurisdizione, come nell’età barbariche, tra Romani e  Longobardi.  Oppure, come avveniva  nella società castale indiana.   Altro che il moderno stato di diritto...
Di solito il femminismo giuridico, rivendica - per semplificare -  la doppia  legislazione, come atto riparatore, eccetera, eccetera.  Il che ha un suo fondamento.  Che però non fai conti, con il richiamo della foresta.  Perché,   la motorizzazione del diritto, riparatore o meno, porta con sé la progressione, pressoché inarrestabile, dei  poteri pubblici, e dunque del potere indotto della demagogia  e del plebiscitarismo.  E, come appena ricordato, del richiamo della foresta. Che,  chimico o sassoso che sia,   resta tale.        

Carlo Gambescia        
                                                                

mercoledì 27 marzo 2019

Il Congresso Mondiale delle Famiglie
Lo stato non è  la soluzione,
ma il problema


Sì,  è vero.  I libertari, per semplificare, arrancano.  I difensori, sempre per farla breve,  dei matrimoni  gay e dell’immaginario legato all’universo dei nuovi diritti sociali sono in difficoltà.  Cosa del resto,  ben evidenziata  nell’interessante  articolo del “Post” sul prossimo convegno di Verona.

Tutto il racconto [degli organizzatori del Convegno di Verona, ndr]  è stato posto in termini molto positivi e questo fa parte, come dicono molte e molti esperti, di come si è modificata la strategia comunicativa di questi gruppi anti-scelta nel corso degli anni: non viene utilizzato un linguaggio ideologico, ma molto edulcorato, patinato, quasi pubblicitario, legato sempre all’amore e alla bellezza e utilizzando temi e slogan di chi lavora a favore dei diritti umani e dei movimenti femministi. Durante la conferenza stampa ne è stato dato un ottimo esempio. Claudia Torrisi, giornalista freelance che collabora con Valigia Blu e VICE Italia, tra gli altri, ha fatto di recente un intervento a Bologna sulla questione della comunicazione. Citando alcuni studi americani ha spiegato che «È ormai raro trovare nella narrazione di questi gruppi e nelle loro immagini la classica immagine del feto». La retorica, il lessico e le campagne del WCF e di chi ne fa parte «si rifanno piuttosto a quelle dei gruppi che lavorano a favore dei diritti umani e ai movimenti femministi per dare validità, però, a discorsi che sono invece razzisti o sessisti.


Come stanno le cose, sociologicamente parlando?  La tecnica non è nuova.  I tradizionalisti - sempre semplificando -  usano le stesse armi retoriche dell’avversario, rovesciandole contro i libertari,  per difendere, se stessi, dall’esclusione sociale.  Si sfida il libertarismo  sul principio di non contraddizione.  Il senso concettuale  può essere riassunto così:  “se siete veramente libertari, dovete convenire, che anche noi abbiamo diritto di parola, e soprattutto che, anche noi,  difendiamo gli stessi vostri principi di libertà, estendendoli però a tutti, veramente a tutti,  al feto, alla famiglia eterosessuale, eccetera, eccetera” . Se un assunto  è vero, non può essere vero il suo contrario. Lo diceva già Aristotele,  molto prima delle moderne scienze della comunicazione.
L’argomento è   forte e  di senso comune, dunque sociologico perché rimanda a  valori naturali, diremmo intuitivi,  di giustizia retributiva:  “il dare a ciascuno il suo”.  Mai dimenticare, che le società, come insiemi di individui,  sono più sensibili  alla differenza che all’ uguaglianza. Pertanto,  la rivendicazione delle difformità, alle origini dei  movimenti libertari,  non poteva, prima o poi, essere rivendicata anche  dai movimenti di segno contrario.
Solo che in nome della difformità,  i tradizionalisti difendono valori, non individualistici (che rimettono le scelte all’individuo),  ma collettivistici, di uniformità sociale (che rimettono le scelte al gruppo sociale). Sicché, il conflitto, al netto dei contenuti, sociologicamente parlando, non è tra libertari e tradizionalisti,  ma tra individualisti e collettivisti. Con una particolarità però. Anch’essa sociologica.
In realtà, gli individualisti, per introdurre le nuove regole libertarie, non hanno potuto, non ricorrere allo strumento collettivistico delle pubbliche istituzioni. Altrimenti come avrebbero implementato le nuove regole?  Quindi, i libertari, abbassando la guardia,   hanno fatto pressione sulle istituzioni perché si ricorresse allo  strumento redistributivo, di correzione, dall’alto, del senso comune prevalente,  influenzato dai valori tradizionali.  Dopo di  che, però,  come sta avvenendo, i collettivisti, fiutato il pericolo,  a loro volta,  hanno chiesto alle stesse istituzioni,  una  redistribuzione, in senso contrario. Di qui, l’uso delle stesso linguaggio dei diritti, usato dagli individualisti.  E le conseguenti difficoltà di questi ultimi, contrastati sullo stesso terreno.
Come è stata possibile la commistione tra retributivismo e  redistributivismo? Per una ragione molto semplice: alla base delle posizioni individualiste e collettiviste, o se si preferisce, libertarie e tradizionaliste,  si scorge  la stessa visione costruttivista del ruolo delle  istituzioni pubbliche. Ci spieghiamo meglio: individualisti e collettivisti credono fermamente nella possibilità reale  di costruire e ricostruire le società dall’alto ad libitum.  Vi credono  prescindendo  dai contenuti effettivi difesi (individualisti o  collettivisti). E' una condivisione  di metodo.
Certo, è vero, che la libertà civile dei moderni rinvia alle Carte e alle Rivoluzioni liberal-democratiche, ai Parlamenti, ai Codici civili e di commercio, eccetera, eccetera, quindi a un atto costruttivista,   però è altrettanto vero che la successiva evoluzione del diritto pubblico, scivolato sul piano della tutela dei più pittoreschi diritti sociali,  ha strangolato  il diritto privato, e per eccesso di costruttivismo, i  privati diritti dell’uomo.  
Il conflitto tra libertari e tradizionalisti è un conflitto che avviene all’ombra di un individualismo, un falso individualismo (o libertarismo), protetto dallo stato. Di cui si avvantaggia, solo quest’ultimo, che come gruppo sociale (tra i gruppi sociali),  accresce il proprio  potere a danno dell'individuo.  
Il  bello, anzi  il brutto,  è che l'individuo si crede protetto, mentre in realtà, dopo ogni nuova misura, introdotta dallo stato, si ritrova meno libero di prima.  Ecco il grande inganno, che va oltre il conflitto tra individualisti e collettivisti.  La lotta per il riconoscimento di diritti, via via  scalarmente  sempre più differenziati, implica la sottomissione:  il micro, per la sua attuazione, rimanda al macro. E il macro reclama la sua libbra di carne.    
Ciò significa, come spiega chiaramente la sociologia, e non il solo  Reagan (per i malevoli),  che lo stato non è la soluzione del problema. Ma il problema.  

Carlo Gambescia                            


martedì 26 marzo 2019

Oltre “la non sconfitta” in Basilicata
La crisi del Pd come crisi del riformismo




Si rimprovera al PD, il più grande partito italiano di centrosinistra,  di non dire cose di sinistra. In Basilicata non è andato nuovamente a fondo, forse ha recuperato qualcosa,  ma alleandosi con altri partiti probabilmente più spostati a  sinistra che al centro.  Insomma, la gestione Zingaretti,  sembra proporsi  di dire cose di sinistra.
Però, che cosa significa dire di cose sinistra?   Bobbianamente, meno disuguaglianze.  Formali o sostanziali?  Di partenza o di arrivo? O tutte e due le cose?  Quindi più statuto dei lavoratori e  più welfare.  Lo stato sociale però costa.  A meno che non si punti decisamente sulla crescita economica. Ma come? Lasciar fare al mercato...  Guai, non è di sinistra.  Allora,  ricorrendo  agli investimenti pubblici? Quindi più tributi.  Oppure più debito pubblico... Ma finanziato da chi?    Quindi, patrimoniale, forse...  E con  le questioni ambientali, altro cavallo di battaglia, come la si mette?  Come  conciliare grandi opere infrastrutturali con la salvaguardia dell’ambiente?  Tutela  che, sempre a sinistra,  ha assunto  sapore  millenaristico?  
Queste le contraddizioni concrete, sulle quali poi si erge  la nobile ma  fragile torre della  battaglia per i diritti, che si riconnette nuovamente  con la questione dell’uguaglianza (e con le contraddizioni tra uguaglianza di partenza e di arrivo), ma anche con quell’eccesso di legiferazione  e di sprechi burocratici indotti che, messi insieme, rischiano sempre di   trasformare l’esercizio dei diritti  in  corsa a ostacoli.   
Non è dunque facile dire cose di sinistra,  soprattutto se in concorrenza con  i  movimenti  populisti, di destra e sinistra, che giocano  al rialzo, come sta accadendo in Italia,  liquidando la sinistra, come  il partito dei ricchi  che vuole imbrogliare cittadini e lavoratori.



Certo, si può giocare tatticamente, sulle contraddizioni del populismo,  attendendo  il fallimento del suo versante sinistro, rappresentato dal Movimento Cinque Stelle. Ma il vero problema è che dal punto di vista  strategico, ammessa e non concessa  la liquefazione  dei pentastellati, il PD continua  a barcollare,  come  l’intera sinistra nella storia d’Italia,  tra riforme e rivoluzione.
La dicotomia può sembrare desueta, dal momento che  il leninismo è alle spalle. Tuttavia, quel che manca alla sinistra, e al PD,  è una robusta cultura riformista. La sinistra italiana  in qualche misura è  trascorsa  dai sogni berligueriani di improbabili Terze Vie a un blairismo orecchiato, senza passare attraverso la tappa intermedia ma importante e formativa  della solida socialdemocrazia.  La  stessa ala centrista del PD, post-democristiana,  è tuttora  su posizioni - semplificando -  cripto-dossettiane, al fondo pauperiste. Certo, è vero che la crisi della  sinistra  riguarda anche  altre nazioni europee.   Ma il nostro Paese non ha grande cultura liberal-democratica alle spalle. Mai dimenticare che il fascismo ha natali italiani.   
Ad esempio, il capitalismo italiano,  per ragioni di  tardivo sviluppo,  di liberale  ha sempre avuto poco. Di qui, l’assenza di un produttivo confronto storico, a parte alcune eccezioni,  tra  borghesia liberale  e riformismo socialista. E su che cosa?   Sulla necessità   e sui reciproci vantaggi  di  non tirare il collo alla gallina dalle uovo d’oro: il capitalismo.      
Di questo mancato  confronto storico,  sfociato invece  nella critica della democrazia liberale, dello stato di diritto  e del mercato,  insomma dell’orizzonte imprescindibile di ogni autentico riformismo, approfittò il fascismo.
Oggi,  invece,  sembrano  approfittarne i populisti.  Pertanto il problema, non è dire cose di sinistra, perché le dice già Di Maio, e addirittura Salvini,  come ai suoi tempi le diceva Mussolini.  Ma dire cose riformiste. Però, come si fa a dirle   senza una seria tradizione socialdemocratica alle spalle?

Carlo Gambescia                      

lunedì 25 marzo 2019

Elezioni in Basilicata
Tutti gridano viva il popolo, viva il popolo, viva il popolo...



Le proiezioni  sul voto  in  Basilicata ci dicono alcune alcune cose dal significato più generale. Ovviamente, se  verranno confermate dallo spoglio dei voti.  Ma crediamo di sì.  
Innanzitutto,  che il populismo  è vivo e lotta insieme  a noi...  In secondo luogo, che la sinistra, Zingaretti o meno,  incamera una nuova sconfitta, in una regione dove -  attenzione -  non la sinistra  ma il centrosinistra, nel suo insieme (inclusi i post-democristiani di sinistra), aveva un ricco  feudo elettorale. 
Certo, se ci si limita, all’ approccio normalizzante, quello di considerare Lega e Cinque Stelle, due partiti normali, allora  la destra  (i "conservatori")  avrebbe  battuto la sinistra (i "progressisti") due volte (Pd e M5s).
Ma  non è così.  In realtà, il successo di Salvini  (anche  ammettendo la   ripresa di Forza Italia e il contributo di FdI)  indica che le  politiche  razziste  e populiste pagano elettoralmente, condizionando, crediamo,  l'intero centrodestra, insomma gli stessi alleati a partire dai forzisti, i più moderati (apparentemente).
Pertanto, ripetiamo, ha vinto il lato destro dell’alleanza populista. Inoltre,  la sinistra prova ancora una volta di non aver saputo elaborare una proposta politica riformista.  Di conseguenza, il Movimento Cinque Stelle, benché il grasso del  potere sia un ottimo cemento politico, potrebbe essere tentato dalla via della radicalizzazione. Quella di un’opposizione, altrettanto anormale, magari,  per ora,  all’interno del governo, rinviando ogni decisione al dopo europee.  Dando comunque il via al gioco del rialzo populista. 
Il vero punto della crisi italiana è rappresentato dalla mancanza  di una voce ragionevole a destra, a sinistra e saremmo tentati di dire perfino al centro. Ma quali conservatori e progressisti?  Siamo seri. Non confondiamo il bipartismo schizoide con il bipartitismo vero.  Tutti dicono e fanno (quando al governo) le stesse cose populiste.  L’agenda politica è dettata, diremmo sconvolta dal populismo. Tutti gridano viva popolo, viva il  popolo, viva il  popolo... E il popolo ci crede. 
Questo è il vero problema. 


Carlo Gambescia                

domenica 24 marzo 2019

Che ci stai  a fare a Posillipo con Fusaro e Malgieri? 
Sociologia di Corrado Ocone


Ci dispiace molto che Corrado Ocone  sia stato  bruscamente allontanato  dalla Fondazione Einaudi (di Roma) per aver partecipato a un convegno sovranista. E, comunque sia,  per aver espresso idee critiche nei riguardi dell’Unione Europea.
Conosciamo personalmente Ocone, uomo mite, colto, sottile ragionatore.  Si definisce  un liberale crociano.  Dialoga con tutti. 
Quel che invece non accettiamo  è l’atteggiamento di  un Fusaro, che coglie al volo  l’occasione per  denigrare il liberalismo dalle solite  posizione rosso-brune (*) o di un Malgieri che mette un cappello pseudoliberale  al repertorio di argomenti, che lui ben conosce, della “tentazione fascista” .  (**). Di Campi abbiamo già detto a sufficienza (***).
Per parafrasare  il titolo del  vecchio film di Arbore. Che ci fa Ocone a Posillipo con Malgieri e Fusaro?
Al di là delle battute e della nostra terminologia (posizioni rosso-brune, tentazione fascista), che  qualcuno potrebbe definire giornalistica, il vero punto sociologico  della questione Ocone è nella sociologia delle organizzazioni.
Piaccia o meno, ma  la logica organizzativa, a prescindere  dalle idee che si professino, liberali o maoiste, entra sempre in conflitto con la libertà intellettuale.  Si tratta di una regolarità metapolitica che concerne, ripetiamo tutte le organizzazioni.  Ovviamente, quanto più le organizzazioni, hanno necessità di riconoscibilità politica, e soprattutto di egemonizzarla (di tradurla, insomma,  in potere effettivo) tanto più diviene difficile  esprimere posizioni divergenti dalla linea di riconoscibilità.  Chi dice organizzazione, dice oligarchia, e chi dice oligarchia, dice uniformità ideologica.
Ora, difendere le ragioni della  libertà di pensiero   in una società di massa e iper-organizzata come la nostra, è opera ardua. Che spesso, gli intellettuali realmente liberi, pagano con  l’emarginazione. Come Ocone, dunque.  
Però qui va precisata una cosa:  esistono società e società.  Le nostre società aperte garantiscono, comunque delle libertà, interne e soprattutto esterne,  alle organizzazioni, garanzie  sconosciute alle società chiuse, come  ad esempio quelle del  socialismo reale. Per non parlare del totalitarismo  nazista e  del  regime dittatoriale   fascista. C’è una bella differenza, insomma.

Ora, qual è il rischio politico,  non tanto per  Ocone che conosce a memoria la differenza, ma per coloro che  fanno  finta di niente, come Fusaro e  Malgieri?  E che parlano di illiberalismo liberale (il primo) e  di   pensiero unico liberal (il secondo)?   In primo luogo, di  rimettere in circolo le stesse  cose  che si dicono contro la società  aperta e  liberale dal 1789. E in secondo luogo,   di favorire, se non addirittura sostenere, il gioco dei nemici della società aperta.
Un passo indietro. Ovviamente, la consapevolezza del nemico della società aperta  è di tipo etico-politico,  nel senso che rinvia  all’etica dei principi. È scelta pre-politica di valori. Si tratta però di una consapevolezza  a sua volta fondata  su una regolarità   metapolitica:  quella che insegna che la logica organizzativa impone inevitabilmente una diminuzione di libertà. Che però - attenzione - è maggiore nelle società chiuse. Consapevolezza, che dunque rimanda all’etica della responsabilità. Quindi alla  saggia commisurazione - dunque politica -   del rapporto valori-realtà.     
Ora, ad esempio, assimilare l’Ue a una dittatura, come fanno Fusaro e  Malgieri,   senza distinguere tra società aperte e chiuse, mettendo sulla stesso piano  la tecno-burocrazia europea con quella sovietica -  cosa che Ocone si è sempre ben guardato dal fare (se la memoria non ci inganna, ovviamente) -  significa spianare, irresponsabilmente (e impoliticamente)  la strada alla peggiore demagogia  populista.     
Ocone è stato “dimissionato”,  ma  non è misteriosamente sparito, processato e fucilato, come  nei regimi totalitari. È vivo e vegeto e lotta insieme a noi. Continua a parlare al mondo però da conoscitore dei limiti del mondo.  Un vero liberale.  Cosa che invece  non sono Fusaro e  Malgieri. Che non difendono Ocone, ma le ragioni della società chiusa.  Lo usano. Politicamente.    

                       

sabato 23 marzo 2019

Per non farla finita con Alessandro Campi
Domanda in attesa di risposta…



Proprio questa mattina  ne sorridevo ancora, radendomi la barba . Alessandro  Campi mi ha raffigurato come una specie di  incrocio umano  tra il dottor Livore, il ragioniere nevrotico inventato da Guzzanti, e una sorta di Mino Pecorelli della sociologia. 
Chi mi conosce,  sa bene che sono tutt’altra persona.  De minimis non curat praetor... Ci mancherebbe altro. E poi il mix Livore-Pecorelli mi fa sorridere "per quessto, quessto e quesst'altro motivo"... Fermo restando, purtroppo, che Pecorelli, oggi giustamente riabilitato da alcuni storici, fece una brutta fine… Come diceva Baltasar Gracián, “la queja trae descrédito, también a quien tiene razón”. Fino alle ultime conseguenze.
Nella mia replica (*), per chiudere il circolo balzachiano sul personaggio,  mi sono concentrato sul narcisismo di Campi, lasciando, intenzionalmente, inevaso un punto del suo post, la chiusa.  Dove Campi, mi ordina  di tacere  sui suoi rapporti personali con l’ex direttore del “Mattino”, Alessandro Barbano.    
Ecco il passo:

«Mentre invece una risposta finale e definitiva la merita la sua insinuazione sui miei rapporti personali con l'ex direttore del 'Mattino' Alessandro Barbano: su ciò che non conosci, taci, caro il mio bamboccione. »

Ora, io non ho insinuato proprio nulla. I rapporti personali tra Campi e Barbano, giornalista che apprezzo ma che  non conosco (come del resto stimo Ocone, che invece conosco), esulano dalla mia analisi, che non si occupa di buchi della serratura:  buchi ai quali Campi invece desidera ricondurre l'intera  questione, dipingendomi come il dottor Livore-Pecorelli.       
In realtà, il privato, in senso stretto, spoglio di inflessioni psicologiche e caratteriali, lo lascio volentieri a Dagospia. A me interessano, come accennato, i risvolti balzachiani degli individui sociali. Insomma,  mi intriga il punto di raccordo tra carrierismo e determinismi  politici e sociali,  non il carrierismo in sé.  E in chiave di sociologia applicata alle vicende della destra post-fascista,  come ben sanno i  non pochi lettori  che mi seguono.  
Pertanto Campi è solo  uno  tra i tanti "soggetti" osservati.  Certo, in un passato ormai lontano,  siamo stati amici. Non l'ho mai negato. Ne conosco perciò  vizi e virtù  (perché anche quelle ci sono). Però, mi si creda, non c'è nulla di personale, come invece il nostro Narciso vuole far credere.  Mi sono occupato, nei miei scritti, anche di Veneziani, Cardini, Buttafuoco, Malgieri e tanti altri con i quali ho interagito e collaborato. Però, ripeto, il mio interesse di studioso è sempre andato all'intellettuale come figura pub-bli-ca.    
Ed è  alla figura pubblica Campi,  nel quadro di ciò che si chiama dibattito pubblico, che ho chiesto pubblicamente, e tre,  di spiegare  perché si  sia esposto per  Ocone e non per Barbano,  “licenziati” in tronco, tutti e due, dai rispettivi editori (per così dire):  il primo, si dice,  perché vicino ai sovranisti e populisti, il secondo, come pare,  perché contrario al governo giallo-verde (**).
Ovviamente, ho avanzato una spiegazione al riguardo, sbagliata o meno. Evidentemente però  urticante. Ma la domanda resta lecita.  E purtroppo ancora in attesa di risposta.   
C'è stata o non c'è stata una  presa di posizione pubblica  anche per Barbano ? Campi può non rispondere. E' un suo  diritto.  Ma  non può vietare di porre domande del genere.  Si tratta dell'ABC del dibattito pubblico liberale. Pongo, insomma, una questione di metodo. Che va addirittura oltre i contenuti delle spiegazioni stesse.  
Carlo Gambescia 
   

venerdì 22 marzo 2019

Stella rossa sull'Italia
Arrivano  i cinesi



Fino a qualche anno  fa,  nessuno  avrebbe  immaginato la svolta cinese del Governo italiano. A parte forse, il compianto Bruno Lauzi, autore di una spassosa e preveggente  canzone.  Ricordate?

Arrivano i cinesi
succede un quarantotto
si piazzano in salotto
e non se ne vanno più

Perché, perché?
Perché lo chiedo a te
Perché, perché?
Perché?

Ce lo chiediamo anche noi.
Europeisti, filoamericani, filoisraeliani,  con qualche giro di valzer in Medio Oriente ,  al massimo qualche apertura amical-berlusconiana  verso la Russia putiniana, senza alcuna sovrapposizione ideologica eurasista.  Business as Usual. Senza alzare polveroni politici.  Ecco  il principio che animava l’Italia della Seconda Repubblica. E per alcuni osservatori anche della Prima. 
Ora però arriva addirittura il presidente Xi Jinping,  accolto in pompa magna. Per dire una banalità geopolitica:  Mao e successori, se ricordiamo bene,  non erano mai venuti Italia.  Chi scrive, sia chiaro,  non ha nulla in contrario sul fare affari con tutti. Ma ora la domanda è:  che vuole la Cina da noi? Risposta. I porti per i suoi traffici.  E noi che vogliamo dalla Cina?  Risposta. Che compri il nostro debito pubblico.  Nella bozza del memorandum, si parla di investimenti  infrastrutturali  della Cina in Italia e di una istituzionalizzazione del dialogo finanziario tra i rispettivi ministri competenti. (*).
Certo, poi c’è il piatto  forte  dei buoni affari  per le imprese italiani in Cina  con spruzzi di   retorica liberoscambista.  Cosa che non guasta mai.  Ma il succo dell’accordo è porti contro debito pubblico.  Succo politico.
Che significa?  L’economia, è sottoposta a fattori dimensionali. E questo fattore  tra Italia e Cina, è pari a quello tra la Repubblica di San Marino e l’Italia.  Tanto per evidenziare il gap strutturale tra Cina e Italia.  Il che è assai pericoloso. Inutile insistere sul punto. 
Qualcuno penserà  che la stessa logica si può applicare, magari retrodatandola, ai nostri rapporti con gli Stati Uniti e con l’Unione europea.  No. E per due ragioni.
La prima, è di tipo finanziario. Il nostro debito pubblico, non  è comprato direttamente dal Tesoro Usa o da quello Europeo (che neppure esiste). Certo, la Banca centrale americana (da non confondere con i fondi) e in via privilegiata quella europea (con acquisti massicci),  intervengono sui mercati (**), ma non sono  tutt’uno con il potere politico  Mai dimenticarlo.
Si dirà che la nostra è distinzione di lana caprina, perché dietro le Banche Centrali giganteggia l'ombra del draculesco  potere politico  statunitense e  franco-tedesco.
E sia. Ma attenzione,  qui emerge,  la seconda ragione. Quale? Che la Cina è una dittatura, Stati Uniti, Germania e Francia, no.  E come funziona la politica estera  delle dittature?  Si chieda ai tibetani e alle altre minoranze allogene sotto le grinfie cinesi.
Il  vecchio Kissinger, sosteneva che in politica estera, la  comunanza degli interessi è fondamentale, ma non è da meno, la comunanza dei valori. Semplificando: l' insalata economica sfama , ma con l' olio, l' aceto e il sale dei valori si appaga il palato.  Qui, oltre ad entrare in urto con gli Usa e l’Ue sull'insalata,  Italia e Cina  sono  lontane anni luce, almeno prima che giungessero i populisti al potere,  sull'olio,l'aceto e il sale: la metafora fa pena. Ma  questo oggi passa il convento. 
Naturalmente per le  destre italiane, l’arrivo di Xi è una specie di vincita al superenalotto. In particolare pensiamo  alle  sub-culture fasciste e  post-fasciste, confluite culturalmente nell'alleanza giallo-verde, che sognano dal 1945, di liberarsi dall’influenza della liberal-democrazia statunitense ed europea.  
Chi avrebbe mai immaginato, ripetono, a se stessi e ai sodali, leader e leaderetti miracolati, che “saremmo tornati a fare politica estera”?  Sì, come San Marino.  No peggio,  Salò. 

Carlo Gambescia

giovedì 21 marzo 2019

La tentata strage di San Donato Milanese
Odio porta odio



La guerra razzista  ai migranti, come oggi  si usa chiamarli,  non paga. Quel che è accaduto ieri, o meglio poteva accadere, a San Donato Milanese, non è il gesto di un folle, ma il risultato di una guerra delle razze, scatenata da  Matteo Salvini, con il  beneplacito di Luigi Di Maio.
L’ odio porta solo odio.  Attenzione, per capirsi meglio,   e fare un esempio nei termini di un'assoluta neutralità affettiva,  sostituiremo alla parola odio,  una lettera  dell' alfabeto, ad esempio la A . Pertanto,  A porta A.  
Si tratta di un principio sociologico, prima ancora che morale, che rinvia a due precisi meccanismi sociali: reciprocità ed emulazione.  Quanto più un atteggiamento si diffonde  tanto più si trasforma in comportamenti sociali,  comportamenti che si fondano sul principio di reciprocità (ricevo A rendo A) e sull’emulazione  ( tutti ricevono e rendono A, quindi anch’io, eccetera, eccetera).
Al posto della  A - immaginiamola come una scatola vuota -   la società può mettere  l’odio come l’amore, la tolleranza come l’intolleranza.  Ne riceverà, come di riflesso, e  in forza di una specie di moltiplicatore sociale,  una A al quadrato, poi al cubo e così via. 
Pertanto chiunque si ritrovi  al governo,  ma anche al comando dei media, eccetera, eccetera, dovrebbe pesare accuratamente  le  parole,  favorendo i  processi di organizzazione sociale rispetto a quelli di disorganizzazione sociale, per dirla sempre in termini sociologici. Insomma, dovrebbe evitare di mettere nella "scatolina" vuota  il seme della discordia, per usare il linguaggio comune.
E invece che cosa sta accadendo? Si dia un’occhiata  ai titoli dei giornali di oggi (*). L’Italia è divisa. Tra razzisti e antirazzisti. Inoltre, l’odio contro i migranti,  si suddivide in forma micro-scalare, quindi determina, altri conflitti, interni, tra fronti politici e sociali, a loro volta, divisi in subculture politiche, che vanno dal nazismo all’irenismo.
Stiamo assistendo all’inizio di una guerra di tutti contro tutti. La coesione sociale è in pericolo. E  cinquantuno  bambini  stavano per pagarne le conseguenze.
È normale tutto questo?  No.  Ma, si tratta, come abbiamo cercato di  spiegare, di un meccanismo sociologico  innescato  addirittura da coloro che sono al governo del Paese.  E che invece dovrebbero evitare il contagio e la diffusione sociale dell’odio.  
Come?  Evitando la vergogna dei respingimenti.  E soprattutto tenendo la bocca chiusa.

Carlo Gambescia                        

mercoledì 20 marzo 2019

 Occasionalismo, romanticismo e infallibilismo politico
 Et voilà, la destra post-fascista






Oltre Alessandro Campi
Oggi tornerò  sulla questione Campi.  E non per “ragioni personali”, che non ci sono mai state, mai ci saranno, ma per  ragioni sociologiche,  Se si vuole di sociologia politica, e anche di storia delle idee. Come del resto provano i numerosi articoli ( e almeno un libro, molto letto, scritto con Nicola Vacca,  A destra per caso),  dedicati alla questione della destra post-missina, semplificando post-fascista.
Campi, per me,   non è altro  che un esempio paradigmatico, dunque sociologico, dell’incapacità di certa cultura, dal passato missino, o comunque nei suoi dintorni, di  favorire la trasformazione del post-fascismo,  non dico  in un  immaginario  partito  liberale,  ma in qualcosa, capace, culturalmente,  di comprendere le ragioni della modernità cognitiva. Altrimenti detto, semplificando: del discorso pubblico liberale,  della tolleranza, della libertà economica.

Tradizione e modernità
Pensavo a queste cose,  proprio a proposito delle prime pagine  di oggi,  tutte dedicate allo scontro Salvini-Casarini.  Una specie di regolamento di conti,  per così dire,  tra opposti estremismi.
Come si è arrivati a tal punto?  Ecco, qui emerge  la precisa responsabilità, della cultura post-missina. Per fare qualche nome, penso  sul piano del giornalismo culturale, a figure come Veneziani e Buttafuoco, che nell’immaginario mediatico, rappresentano la “cultura di destra”. Oppure, su  un piano togato, a Cardini e allo stesso Campi.  Ma potrei  fare i  nomi di giornalisti, comunque non banali, come Malgieri e via  via  fino alle generazioni  più giovani  e rampanti.
C’è in tutti costoro, ovviamente secondo le più  diverse sfumature ideologiche e professionali,  o il rifiuto della modernità, nel senso sopra indicato, o la sua rielaborazione in chiave di modernismo reazionario: di modernità, come inveramento di una  tradizione (variamente interpretata), capace di avvalersi, strumentalmente,  anche delle euristiche  delle moderne scienze sociali.   In qualche misura, Marco Tarchi  -  e prima ancora Alain de Benoist,  maestro del professore fiorentino -   fu il mentore di Campi.  

Olismo
Non si discute qui, della bravura o meno dei singoli , delle pecche caratteriali o meno, eccetera, eccetera, bensì  del rapporto di questa cultura, al fondo tradizionalista,  con la modernità cognitiva, che in tutti, viene giudicata o come un  pericoloso deragliamento dalla tradizione  o  come  qualcosa  da ricondurre nell’alveo di una  filosofia della  storia, con  ricadute pratiche,  dove alla tradizione (vista, ripetiamo, secondo variopinte  sfumature) siano  riconosciuti i suoi diritti primordiali  fondanti e rifondanti. Il che implica  una visione olistica della realtà, che viene  immaginata  come innervata dalla necessità di ricondurre le varie parti  della realtà a tutto.  Che può essere lo  stato-nazione ipostatizzato (Campi), il medioevo immaginario (Cardini) , l’ Islam reinventato (Buttafuoco), il paganesimo di cartapesta (Veneziani), il conservatorismo sincretico (Malgieri).
Un  approccio  cognitivo  che ha impedito di prendere  -  culturalmente -    sul serio,  il ruolo, per ricaduta, della modernità cognitiva nell'ambito della democrazia rappresentativa, dell’economia di mercato,  dello stato di diritto. 

Occasionalismo
Il che spiega quell’occasionalismo politico  che determina i comportamenti della cultura post-fascista. Occasionalismo, come  uso strumentale   - all’occasione  -   della modernità.  Altrimenti detto, la sindrome occasionalista  spiega  quella volontà di   salire su qualsiasi treno politico, con l’intenzione di riuscire a  prenderne la guida  per  condurlo in una direzione, se non antimoderna, di certo ostile alla modernità politica ed economica. Ciò  spiega,  riconducendo l’universale sociologico  al più prosaico  particolare,    prima  i fascisti dopo Mussolini, (nelle varie sfumature intra e anti-missine), poi il post-fascismo di   Alleanza nazionale, l’unificazione con Forza Italia,   Futuro e Libertà , Salvini, Meloni, i populismi,  senza però fare mai il salto culturale -  per carità non facile -   dalla tradizione ( o meglio tradizioni)  alla modernità cognitiva.  L’occasionalismo,  consente di giocare su almeno due piani:  dal tradizionalismo puro al modernismo reazionario e viceversa.  Nonché di godersi o meno, secondo la propria dirittura morale,  le prebende del momento.


 Romanticismo  e infallibilismo politico
Altro punto fondamentale. L’occasionalismo politico si nutre di romanticismo politico.  Che cosa voglio dire? Che il romanticismo politico, consiste nella facoltà di  potersi riservare, in ogni occasione, salvando la propria purezza intellettuale, in nome del carattere archetipico  e  fantastico della creazione politica, il diritto di recesso ideologico.  
Attenzione,  non parlo di fallibilismo politico, ossia dell’accettazione  razionale della natura esperienziale della realtà, e quindi del  fatto che  sia l’errore sia il tentativo (come prova), facciano parte di un approccio cognitivo normale. Ma del suo esatto contrario:  l’ infallibilismo romantico, qualcosa di cognitivamente anormale, al fondo istintuale.  Semplificando:  per l’infallibilista,   ogni volta può essere quella decisiva, da cui non si torna indietro. Detta ancora più volgarmente: o la va o la spacca.  Di conseguenza:  Almirante era un padre-padrone, Fini il fratello di Badoglio,  e così via fino a quando verrà il turno della Meloni, di  Salvini e dei populisti. Ovviamente, dopo.  


La retorica della transigenza
Il punto però  non è il buco della chiave, dal quale osservare, le miserie umane o meno degli occasionalisti post-fascisti, ma la forma mentis  - definiamola così, semplificando  -  che  contraddistingue l’occasionalismo politico, che implica  il rifiuto della retorica della transigenza (che,  sviluppando le intuizioni di   Hirschman,  è anche  un' etica). E in nome di che ? Dell’intransigenza assoluta.  Nei riguardi di  cosa?  Della tolleranza dei moderni.
Il che spiega, per ricaduta,  non solo  le  posizioni sugli immigrati di Salvini, dunque lo scontro politico in atto,  ma l’appoggio culturale, larvato o meno,  che  viene da una destra post-fascista,  che ridicolizzando un Casarini, una Boldrini, un Saviano, ridicolizza la modernità, in particolare quella politica ed economica.  Al  fondo,  si continua a  rifiutare e irridere,  al di là dell'epifenomeno, il discorso pubblico liberale. 
Che poi la sinistra, certa sinistra, a sua volta faccia del proprio meglio, per farsi odiare, rinvia  non alla modernità in quanto tale, ma al momento egemonico, culturalmente egemonico, di una visione costruttivista,  dunque unilaterale della modernità,   che accomuna, quando si dice il caso,  modernisti reazionari e  modernisti  marxisti, con innervature liberal-socialiste, macro-archiche.   Ma questa è un’altra storia.            

Nulla di personale
In fondo, per tornare solo per un momento sul personale, cosa ha detto Campi? Che anche se scrivessi la Critica della ragion  pura, lui non la leggerebbe.  Pura retorica dell’intransigenza.  
Credete, cari lettori,   che io abbia ricevuto repliche,  ogni volta che ho affrontato, e non solo con Campi,  il  rapporto tra occasionalismo politico e modernità? Mai.    
Il che spiega, perché un intellettuale come Giano Accame, fautore convinto di una retorica  della transigenza, sia stato completamente dimenticato dalle destre post-fasciste.
Ieri il professor Luigi Marco Bassani, tra i commentatori, chiedeva a Campi,  cosa di preciso mi aveva fatto.  Nulla.  A me.        


Carlo Gambescia

P.S. Piccola curiosità, solo per gli appassionati  di telenovelas e  plot.  Sapete, amici lettori,  come ha risposto  Campi al professor Bassani? Come  avrebbe risposto Quinto  Navarra... Che tristezza.