venerdì 31 marzo 2006


                                             La morte di Angelo D'Arrigo

Riflessioni sullo sport dei moderni




Angelo D'Arrigo non è più tra noi. Con lui scompare un personaggio straordinario. Un uomo antico con ali modernissime. Un vero atleta e "sportivo", e non un "funambolo", come è stato scritto.
E' perciò bello dedicargli queste riflessioni sullo sport degli antichi e dei moderni.
La parola sport è moderna e, come è noto, di origine ingelse. Risale al XV secolo e indica divertimento. svago e passatempo. Mentre per gli antichi, e in particolare greci e romani, lo "sport" come attività fisica e ludica era soprattutto un fatto religioso e di perfezionamento fisico e interiore. Si gareggiava per gli dei della città ma anche per migliorarsi spiritualmente: la sfida riguardava se stessi e non doveva suscitare l'invidia degli dei.
Oggi invece lo sport significa svago per gli spettatori e denaro per chi lo svolge a livello professionstico. Permane l'elemento ludico, ma quel che conta è vincere per gratificare economicamente, non gli dei ma lo sponsor, e così guadagnare favolosi compensi.
Comunque sia, non bisogna idealizzare troppo lo sport degli antichi, né disprezzare quello dei moderni, o sottovalutare la possibilità di riscoprire valori antichi in un contesto moderno. Ad esempio i cosiddetti "sport estremi" sono un ottimo esempio di fusione tra valori antichi e moderni. Si pensi a discipline come il surf, il free climbing, il rafting, lo sci estremo, il parapendio, il paracadutismo a caduta libera. In queste nuove pratiche sportive, si recupera l'elemento della crescita, non solo fisica ma anche interiore: la competizione più che altro è con se stessi. Quanto al pubblico, si tratta quasi sempre di gente che ha praticato in precedenza lo sport che segue: non è mai completamente "passiva".
Quel che insomma distingue queste attività, e ne rappresenta l'aspetto antico, è il principio che la pratica sportiva deve puntare all' "autoperfezionamento interiore": il bisogno (moderno) di superare i propri limiti viene così conciliato con un ideale (antico) di perfezione corporea che ha nell'integrità fisica e nella pace con se stessi, gli strumenti per giungere alla conoscenza del proprio io.
Va però detto che per praticare questi sport ad alti livelli, occorre essere ben allenati. Di qui la necessità di addestrarsi in spazi artificiali e anche di ricorrere agli ultimi ritrovati della tecnica moderna. Tutto questo fa crescere i costi e rende più difficile sottrarsi agli sponsor e alla commercializzazione.
Non è perciò difficile ipotizzare che gli sport estremi rischiano di essere trasformati in potenti veicoli pubblicitari, puntati come cannoni verso una platea di di spettatori-consumatori passivi.
Una passività molto ambita proprio da sponsor commerciali e media. Tutti mossi da un'avidità di profitti che potrebbe finire per favorire il costante impiego di atleti professionisti, richiamati appunto dagli alti compensi, fissati dagli sponsor. Come del resto sta già accadendo...
Angelo D'Arrigo, era cosciente di questi pericoli, e si muoveva su un piano totalmente diverso.

Era antico e moderno al tempo stesso. Peccato, non ci sia più.

Carlo Gambescia

giovedì 30 marzo 2006


Profili/20
Julien Freund




Julien Freund (1921-1993) è un figura di sociologo-filosofo di non facile classificazione, dal punto di vista degli specialismi accademici. Studioso di filosofia politica, sociologia, epistemologia delle scienze sociali, storico del pensiero sociale, e in particolare di Carl Schmitt. La sua opera è vasta, originale, e probabilmente per il singolo specialista, difficilissima da indagare e comprendere in tutte le sue sfaccettature. Un'opera complessiva che al contempo affascina e atterrisce, come una specie di mysterium tremendum et fascinosum sociologico.
Freund nasce nel 1921 in Francia (Mosella). Il padre è un operaio socialista, la madre una contadina. Fin da ragazzo scopre, e prova sulla sua pelle, le divisioni sociali e le lotte operaie. Ma scopre anche - durante gli anni della Resistenza, cui partecipa direttamente - tutta la gravità dei delitti commessi in nome del totalitarismo ideologico e politico . Come nell'immediato dopoguerra, non può chiudere gli occhi, davanti alla grettezza della politica politicante. Deluso, dopo un' intensa attività politica e giornalistica(1945-1945) , mette a frutto l' "agrégation" in filosofia, andando a insegnare nei licei di Metz e Strasburgo (1949-196o). Ma la sua grande passione sono lo studio e la ricerca in campo politico e sociale. Negli anni Cinquanta si prepara alla tesi dottorato, sotto la guida di Raymond Aron. Nello stesso periodo entra in contatto con Carl Schmitt, all'epoca completamente isolato, per i suoi trascorsi politici: da lui riprenderà, sviluppandola, la nozione di politico come conflitto amico-nemico. Dunque, un rapporto intellettualmente fecondo, che durerà fino alla morte del pensatore tedesco (1985). Nel 1965 Freund discute alla Sorbona la sua tesi, che in seguito trasformerà un libro famoso, probabilmente la più importante opera di scienza politica e sociale della seconda metà del Novecento: L'Essence du politique ( ristampa della 3° edizione, Editions Dalloz, Paris 2004, www.dalloz.fr ). Negli anni successivi si dedica a tempo pieno all'insegnamento universitario, come professore di scienze sociali a Strasburgo. Dove crea il "Centre de Recherches et d'Etudes en Sciences Sociales"(1967), l' "Institut de Polémologie" (1970), e dove fino al 1979, anno in cui sceglie di andare in pensione anticipatamente per dissapori con l'amministrazione universitaria francese, dirige la Facoltà di Scienze Sociali. Attivissimo sul piano delle relazioni intellettuali: viaggia molto, partecipa a convegni e incontri internazionali, ottiene riconoscimenti internazionali, intreccia rapporti con studiosi, scrittori e pensatori, senza mai discriminare politicamente alcun interlocutore. In piena contestazione studentesca (1970), si dichiara "reazionario di sinistra". Muore di un male incurabile nel 1993.
L'opera di Freund si muove su due livelli concatenati. Per semplificare: quello della teoria e quello della verifica della teoria.
Il primo livello è segnato dal suo progetto, purtroppo inconcluso, di costruire una teoria generale dell'azione sociale, fondata sui concetti di essenza, dato, presupposti, finalità e mezzi. Una teoria al cui interno Freund vuole ricondurre sia quel che è costante nell'agire sociale ( a partire dall' "essenza" di quelli che per lui sono i sei campi dell'agire umano: il politico, l'economico, il religioso, lo scientifico, l'estetico e l'etico), sia quel che non lo è: ciò che è storicamente mutevole.
Il primo livello rinvia al secondo, quello della verifica della teoria. Verifica che Freund, purtroppo, ha potuto condurre a termine solo per il "politico" . Una sfera dell'agire sociale che ha come "dato" la società"; come presupposti l'ordine, l'opinione e la lotta, il conflitto-amico nemico; come finalità la protezione, come mezzi la forza e probabilmente anche l'astuzia. Con questi strumenti Freund riesce a provare come il politico, si riproponga nella storia, sempre con le stesse "forme", ma come dire, indossando abiti, o "contenuti" storici sempre diversi. Celebre, sul piano della verifica, è la sua riuscitissima critica dei movimenti pacifisti e utopisti, che sotto la candida e innocente pelle d'agnello, nasconderebbero invece una ferrea volontà di conflitto, non inferiore a quella che anima i fautori della guerra.
Ovviamente non tutti i passaggi logici sono sempre chiari, spesso affiorano contraddizioni. Di qui spesso la difficoltà, anche per la ricchezza di riferimenti personali, intellettuali, storici di cui i suoi libri sono zeppi, di riuscire a comprendere fino in fondo il senso riposto, o ultimo, della sua analisi.
Comunque sia, va però evitato l'errore di ricondurre la ricerca di Freund nell'ambito ristretto di un prudente realismo politico (magari liberale). In certo senso anche l'opera di Aristotele, di Hobbes di Schmitt può essere definita tale. Ma tutti sappiamo che questi pensatori sono anche "qualche altra cosa"... Come dire, c'è un surplus che sfugge, da sempre, agli interpreti. Qualcosa che affascina e atterrisce al tempo stesso. Difficile da indagare e capire. Un surplus che mette insieme "realismo" e "irrealismo" politico, senza però per questo essere il risultato della semplice somma delle due parti. Ecco, Julien Freund appartiene a questa categoria di grandi pensatori.

Freund, oltre come ovvio all' Essence du politique, ha scritto decine di libri, ne ha tradotti e curati altri, ma ha anche pubblicato moltissimi articoli scientifici e nei più svariati campi culturali. Si rinvia perciò alla preziosa antologia con ricca biobibliografia, a cura di Alessandro Campi, lo studioso che ha introdotto in Italia l'opera di Freund, Il terzo, il nemico, il conflitto. Materiali per una teoria del conflitto, Giuffrè Editore, Milano 1995 (www.giuffrè.it) . Notevolissmo anche lo studio di Jerònimo Molina, Julien Freund. Il politico, la politica, di prossima pubblicazione per i tipi delle Edizioni Settimo Sigillo(www.libreriaeuropa.it) , nonché Sébastien De La Touanne, Julien Freund. Penseur "machiavélien de la politique, L'Harmattan Paris 2004 (www.editions-harmattan.fr , meno interessante sotto l'aspetto interpretativo, ma ben documentato ). 

martedì 28 marzo 2006

Berlusconi  visto da Nanni Moretti



C'è un scena nel film di Nanni Moretti, "Il caimano", in cui si parla di Berlusconi, come di "uno che con le sue televisioni ha cambiato la testa degli italiani". Si tratta di un film, e quindi di cinema. Una forma d' arte, che a prescindere dai contenuti veicolati, implica sempre l'uso di una immediatezza espressiva, capace, se un regista ci sa fare,  di tenere lo spettatore con gli occhi "incollati" allo schermo. E' perciò giustificata e comprensibile la scelta di regista e sceneggiatori di veicolare un messaggio forte e - inutile negarlo - propagandistico...   
In realtà però,   i processi socioculturali di trasmissione dei valori funzionano così? Basta un imprenditore, più o meno capace, per "cambiare la testa della gente"? C'è un' altra scena nel film, dove Berlusconi, interpretato da Elio De Capitani, quasi rivolgendosi al pubblico in sala, parla di un "bisogno" preesistente del suo nuovo modo di far televisione. Le parole di Berlusconi, sembrano messe lì dagli sceneggiatori, come un richiamo colto alle teorie dei francofortesi, che giustamente hanno insegnato che il "bisogno" è sempre creato artificialmente dal "capitale". A dimostrazione, e questa è la tesi del film, che il "bisogno" è stato creato da Berlusconi stesso.
Ma nel caso dell'imprenditore milanese e delle sue compagnie televisive - ecco il punto - il "bisogno" non è stato creato dal nulla, ma semplicemente veicolato. I processi socioculturali di trasmissione dei valori (in questo caso "consumistici", ecc.) hanno un andamento a cerchi concentrici: un centro di irradiazione e un serie anelli, che ne rappresentano le progressive e successive sfere di diffusione. A ogni cerchio, corrisponde un nuovo veicolo sociale e un nuovo gruppo sociale da acculturare ("conquistare" ai nuovi valori). Per farla breve: Berlusconi ne è stato è il veicolo; gli spettatori italiani delle sue televisioni il gruppo sociale da acculturare.
Ora considerarlo, non come puro veicolo ma come il centro principale di irradiazione dei valori consumistici, è sbagliato sociologiamente e politicamente.
Sociologicamente, perché il centro di irradiazione della cultura consumistica è incarnato dagli Stati Uniti. Come fulcro di un processo di mutamento dei valori socioculturali che viene da lontano, e che in pratica ha attraversato tutto il Novecento. Raggiungendo negli anni Sessanta l'Italia, molto prima dell'ascesa di Berlusconi, (e qui si rinvia alla letteratura di critica del neocapitalismo dell'epoca, a cominciare da La vita agra di Luciano Bianciardi, 1962). Berlusconi si è limitato a recepire e rilanciare, fruendo delle innovazioni tecnologiche degli anni Novanta. Non va assolto ma neanche demonizzato... Nel suo caso, per parafrasare la Arendt, si potrebbe parlare di "banalità del male" televisivo-consumistico...
Anche perché la demonizzazione implica automaticamente un errore di tipo politico. Infatti,  far ricadere su Berlusconi tutta la "colpa" della deriva consumistica e televisiva (il cosiddetto "trash", ad esempio, è un prodotto televisivo tipicamente americano...), comporta la credenza, totalmente impolitica, che una volta sconfitto il Cavaliere, l' Italia di colpo tornerà a essere quella povera, frugale e onesta di "Bella Ciao" e "BiancoFiore"... Ma un' evoluzione di questo tipo ( o ulteriore involuzione, dipende dal punto di vista..), considerata anche la potenza, non solo cultural-mediatica, ma politica, economica e militare degli Stati Uniti, resta per il momento piuttosto difficile.
Insomma, Berlusconi passa, l'americanismo resta.
Il vero problema, o comunque il principale, non è perciò Berlusconi, il "caimano", ma come contrastare culturalmente, e poi politicamente, il progressivo e schiacciante predominio, per ora apparentemente inarrestabile, di una cultura consumistico-televisiva che giunge dagli Stati Uniti.
Potrebbe essere argomento per il prossimo film.  Anche se Moretti ha già dichiarato che girerà una commedia... 

Carlo Gambescia

lunedì 27 marzo 2006


Elezioni e partecipazione al voto




Nelle democrazie un buon barometro dello stato di salute è costituito dal tasso di partecipazione elettorale. Ora, all'incirca negli ultimi 15 anni, e il trend non riguarda solo l'Italia, la percentuale dei votanti, nelle varie "tornate" elettorali (incluse quelle referendarie) è costantemente diminuita. In Europa partecipa alle elezioni in media il 60 % degli aventi diritto, in Italia il 70 %, Negli anni Settanta e Ottanta, votava rispettivamente il 70 e l'80% . Si tratta di valori medi, che non escludono, dunque, picchi occasionalmente più alti. Il dato importante è il trend negativo: si partecipa, col proprio voto, alle elezioni sempre meno.
Sotto questo aspetto gli inviti generici delle forze politiche a votare sono semplicemente ridicoli perché ignorano la naturale strutturale del fenomeno.
La bassa affluenza indica tre pericoli.
Primo: la "salute elettorale" delle nostre democrazie è pessima, dal momento che un sistema che perde elettori rischia di perdere anche legittimità.
Secondo: la depoliticizzazione è ormai un fenomeno di massa. Quasi 2 europei su 4 non votano. più. E 1 italiano su 4. E una democrazia composta solo di individui dediti al "particulare" rischia di trasformarsi in fiera degli egoismi sociali.
Terzo: per quasi la metà degli elettori l'esercizio della libertà di voto è divenuto un peso. E purtroppo una democrazia in cui la libertà politica è trascurata o disprezzata, rischia prima o poi di aprire le porte al buon tiranno.
Cerchiamo di capire le ragioni strutturali di questo grave fenomeno.
In primo luogo, le nostre sono democrazie "consumistiche": l' elettore è interessato a difendere solo il suo livello di consumi. Tutto quel che esula dal mantenimento di un certo tenore di vita, come i grandi problemi ambientali, sociali, costituzionali, culturali non è tenuto in alcuna considerazione né dall'elettore né dalle forze politiche ( a parte rare eccezioni, meritorie sul piano dei programmi, ma che per ora quanto a risultati concreti, non hanno minimamente influito sulla struttura generale dei consumi privati).
In secondo luogo, dietro l'assenteismo elettorale c'è la cultura del disimpegno politico, così massicciamente diffusa a scopo preventivo dalla cultura mediatica del "divertentismo" capitalistico. E con "buoni" risultati purtroppo. Ricerche mostrano che solo 1 giovane su 4 crede nella funzione democratica del voto. E che per contro 3 giovani su quattro credono solamente (nel seguente ordine), nel lavoro, nell'amicizia e nell'amore. Tutti valori nobili e importanti, ma "privatistici" per eccellenza. Quanto agli adulti, è noto che 2 su quattro ritengono i partiti politici poco affidabili.
Un trend dunque preoccupante. Che non sarà facile invertire. Non si può infatti premere, per così dire, l'acceleratore sociale ed economico sui valori consumistici e privatistici, e poi prentendere  che un elettore, ridotto a homo consumans, possa partecipare attivamente alla vita pubblica, attraverso un voto, che in realtà, è dallo stesso elettore avvertito come qualcosa di lontano se non di totalmente estraneo ai suoi interessi di vita.

E' una gravissima contraddizione politica e sociale. Che nessuno sembra comprendere. Perché? 

Carlo Gambescia

domenica 26 marzo 2006


Il libro della settimana: Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicoloogia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2005m pp. 294, Euro 25,00 . 



Frank Furedi, ungherese, insegna sociologia in Gran Bretagna (Università del Kent). Si è già fatto notare qualche anno fa per un denso volume sulla Culture of the Fear (1997). Un libro scomodo e ben documentato sulla relazione tra rifiuto dell'altro, ripiegamento su se stessi, e diffusione sociale di una mentalità, come dire, da stato d'assedio, favorita dalle stesse istituzioni politiche a scopo di controllo sociale preventivo. Secondo questo studioso, oggi si vive in un clima hobbesiano, anche se apparentemente le "luci della città" sembrano non spegnersi mai. Si vive non più con e per l'altro, ma contro l'altro. La crisi dell'individualismo rinvierebbe dunque alla guerra di tutti contro tutti... E a un moderno Stato-Leviatano che protegge e incatena l'uomo al tempo stesso.
In questo nuovo lavoro, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, uscito in lingua originale nel 2004, e subito tradotto in italiano, Furedi pone e studia una questione fondamentale: quella dell'uso sociale della psicologia, e più in generale dell'idea di "vulnerabilità" degli esseri umani che vi è dietro. Furedi, non critica le tecniche terapeutiche, o in senso stretto il lavoro degli psicologi, ma la mentalità, oggi assai difusa, di considerare l'uomo come un essere perennemente in crisi, emozionalmente fragile, e bisognoso di cure e terapie "specialistiche", per andare avanti: per sopravvivere. In buona sostanza Furedi, non nega che vi siano uomini, come singoli, bisognosi di cure, ma critica la "cultura terapeutica" che caratterizza la nostra epoca. Per una precisa ragione: il fatto che in alcuni paesi ( come Stati Uniti e Gran Bretagna) siano le stesse istituzioni pubbliche, semipubbliche, private, a occuparsi del "benessere psicologico" dell'uomo, implica il rischio che la società possa trasformarsi, a breve scadenza, in una specie di gigantesco "setting". Dove sarebbero le istituzioni, il nuovo Leviatano, a decidere chi sia sano, malato, bisognose di cure, eccetera.
Risulta evidente che Furedi riprende e sviluppa le tesi di Rieff, Lasch, Sennett, e senza volerlo, visto che non lo cita, quelle di Sorokin. Ma ci sono pagine del libro in cui la sua critica di una società, come la nostra, a suo avviso ammalata di individualismo e priva di tradizioni condivise, si avvicina per vigore e capacità analitica, alle analisi di grandi reazionari come Spengler, o addirittura all'Evola di Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo. Ed è probabilmente proprio questa deriva, come dire, tradizionalista, che non è piaciuta ai pochi recensori del libro. Che uscito l'estate scorsa, è praticamente passato inosservato.
In effetti il punto debole del libro è proprio questo. Furedi critica i processi di secolarizzazione che hanno consegnato l'individuo nelle mani di psicologi e assistenti sociali, dopo averlo liberato da Chiesa e Aristocrazia, ma non indica alternative culturali possibili.
Fortunatamente Furedi non privilegia aurei passati o mitiche tradizioni eterne. E ciò è un bene. Ma al tempo stesso, non fa seguire, alle sue comunque interessanti analisi, "percorsi di fuoriuscita". Si dirà non è compito del sociologo. Certo. Però un volta chiuso il libro si avverte quella spiacevole sensazione, che prova sempre il visitatore smarritosi tra le rovine di una gigantesca città perduta. Che si guarda intorno attonito in cerca di una vita d'uscita... O dell'aiuto di una guida. 

Carlo Gambescia

venerdì 24 marzo 2006

Bot, rendite e tasse
Folclore  elettorale




La polemica sulla tassazione dei bot tra Berlusconi e Prodi indica purtroppo che la campagna per le politiche  ha toccato il suo punto più basso. In termini di disinformazione e folclore  (da campagna) elettorale.
Dinsinformazione: i bot (buoni ordinari del tesoro) vissero una vera e propria epoca d'oro negli anni Ottanta. In pratica, i governi del pentapartito (socialisti + democristiani + laici vari) li usavano per finanziare il debito pubblico e garantirsi il consenso sociale dei ceti medi. Negli anni Novanta, soprattutto dopo Tangentopoli, le dure politiche monetariste per entrare in Europa li hanno gradualmente resi meno appetibili (ma non del tutto, il risparmiatore italiano è molto conservatore...). Attualmente i titoli del debito pubblico rendono meno della quinta parte di quel che rendevano negli anni Ottanta, e circa la metà di essi è nelle mani di risparmiatori stranieri (in genere banche e fondi privati, non tassabili in Italia). Quel che va sottolineato è che la tassazione sui bot (oggi al 12.5 %) è sempre stata mantenuta piuttosto bassa (dai governi Craxi a quelli di Berlusconi passando per i governi Prodi e D'Alema). Più volte si è molto discusso accesamente su come accrescerla, senza mai approdare a nulla. Come del resto è stata mantenuta più bassa, rispetto alle media europea (in rapporto di 1/1.5 a 3), la tassazione sulle plusvalenze finanziarie: per non inimicarsi i ceti medio-alti. In Italia negli ultimi trent'anni, come ha ben mostrato Geminello Alvi nel suo ultimo libro Una Repubblica fondata sulle rendite (Mondadori), le tasse hanno gravato, e in misura enorme, solo sulle spalle del lavoro. Sarà perciò difficile, chiunque vinca le elezioni, invertire una tendenza, come dire "storica", fondata sul rapporto privilegiato tra governi (di qualsiasi colore) e ceti medi e medio-alti. Quale governo, potrebbe essere così pazzo, da recidere le radici di un consenso, non tanto politico quanto sistemico, basato appunto su un sistema che si fonda sull'economia della rendita a bassa tassazione?
Folclore  elettorale : sia il centrodestra che il centrosinistra mentono agli elettori, sapendo di mentire... Non è possibile infatti che entrambi gli schieramenti siano in buona fede. Luca Ricolfi nel suo ottimo libro Dossier Italia. A che punto è il contratto con gli italiani (il Mulino) ha mostrato, in modo inoppugnabile, come nelle due ultime legislature le politiche economiche, fiscali e finanziarie dei due Poli siano state pressoché simili sul piano temporale e dei contenuti. I conti pubblici del centrosinistra gestiti con oculatezza nei primi tre-quattro anni (1996-1999), hanno poi iniziato a far acqua da tutte le parti nell'ultimo scorcio di legislatura (2000-2001). Una simile involuzione hanno subito i conti pubblici del centrodestra: migliorano nei primi due anni (2002-2003), peggiorano nei successivi tre, in concomitanza con gli appuntamenti delle elezioni europee (2004) e delle prossime politiche.
Insomma, la necessità di guadagnare e conservare consenso, manovrando le leve della spesa pubblica e del fisco, è inversamente proporzionale alla distanza temporale che separa i governi dalle elezioni: più sono vicine le elezioni, meno virtuosi si fanno i governi; meno sono vicine, più si fanno virtuosi. E come mostrano numerosi studi e ricerche sociologiche si tratta di una "costante" non solo italiana.
Ciò significa, che il vincitore del 9 aprile, a prescindere dallo schieramento politico e dal folclore elettorale, tasserà e taglierà le spese. E visto che in Italia la rendita non si tocca da almeno trent'anni, come al solito a farne le spese sarà il lavoro. Soprattutto quello dipendente e privato. 

Carlo Gambescia

giovedì 23 marzo 2006

 

Profili/19
Gino Germani 




Gino Germani (1911-1979) è un esempio di come si possa essere studiosi di politica, senza però cadere nella trappola degli specialismi e soprattutto del "presentismo" politologico. Che si intende con questo termine? Si indica una politologia (ma il problema oggi riguarda tutte le scienze sociali), come quella attuale, ripiegata quasi esclusivamente sullo studio del "presente" (e delle sue implicazioni temporali immediate, dai cicli elettorali a quelli politico-economici), come unica realtà meritevole di essere approfondita. E quel è che più grave è che il "presente" - e soprattutto le sue forme politiche (che riflettono le istituzioni consolidatesi nell'Occidente euro-americano dopo due guerre mondiali) - spesso viene utilizzato ideologicamente da larga parte della politologia contemporanea in modo acritico e astorico come modello storico per giudicare tutte le forme politiche del passato, del presente e del futuro.
Gino Germani nasce a Roma nel 1911. Figlio di un sarto socialista e di una madre di origine contadina e fervente cattolica. Studia ragioneria e nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Economia e Commercio. Ma lo stesso anno viene arrestato e condannato a cinque mesi di prigione per aver distributo letteratura antifascista. Nel 1934, poco dopo la morte del padre, per evidenti ragioni economiche e politiche, emigra con la madre in Argentina. Nonostante la giovane età, oltre al ricordo di Roma e dell'Italia, porta con sé un notevole bagaglio intellettuale di letture e interessi, musica, filosofia, scienze sociali. Nel 1938, dopo aver provato a continuare gli studi di economia, decide di iscriversi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Buenos Aires (UBA). Dove grazie a Ricardo Levene, titolare all'epoca dell'unica cattedra di sociologia dell'UBA, scopre la sua vocazione di sociologo e scienziato politico. Negli anni Quaranta studia intensamente, fonda e scrive su riviste antifasciste, scopre e fa tradurre, introduce i classici della sociologia europea e americana, lavora per il ministero dell' Agricoltura e in campo editoriale. Addirittura si occupa del "Correo Sentimental", la rubrica di piccola posta della rivista "Idilio", rispondendo alle lettrici. E' un "hombre multifacético", pur conservando un forte accento italiano, parla fluentemente lo spagnolo e conosce molte lingue ( giungerà a scrivere libri e articoli direttamente in spagnolo, italiano, francese, inglese, portoghese). Uomo dall' intelligenza acutissima, lettore onnivoro e dotato di visione storica profondissima, oltre che sociologica. Soffre la dittatura di Peron. E sale perciò in cattedra solo nel 1955. E nei successivi undici anni (1955-1966), quale capace organizzatore non può non lasciare una forte impronta sul processo di istituzionalizzazione della sociologia argentina (crea cattedre, fonda istituti, promuove ricerche, forma discepoli, prende contatti con l'estero ). Acquisisce fama internazionale. Si reca spesso, invitato, negli Stati Uniti, dove tiene corsi all'Università di Harvard. Nel 1966, dopo il colpo di stato, lascia l'Argentina proprio per Harvard. Nel 1976 si traferisce in Italia, torna a vivere nella sua Roma, mantenendo però l'insegnamento americano. Ottiene una cattedra all'Università di Napoli, dove insegna fino al 1979, anno in cui muore.
L'impianto teorico della sociologia di Germani è di tipo struttural-funzionalista, e leggendo i suoi libri si avverte il forte influsso , oltre che di alcuni classici (Durkheim, Pareto, Weber), della sociologia parsoniana. Senzà però dimenticare il ruolo giocato nel suo pensiero da Marx e Freud. Questa sua scelta "americana" gli attirò purtroppo critiche in Argentina, a destra e sinistra: per i primi la sua sociologia era "antinazionale", per i secondi "serva" degli statunitensi. Mentre in realtà nelle sue opere Germani si è soprattutto sforzato di capire, da vero teorico, partendo da un impianto olistico (la società come un tutto), la reale portata sociologica di fenomeni come la modernizzazione, la secolarizzazione, il totalitarismo. Certo, non in chiave "presentistica", come puri e semplici fatti politici e sociali appartenenti a fasi di sviluppo precedenti: reperti archeologici sui quali gli scienzati sociali non devono indugiare più di tanto. Ma come costanti di tutte le società umane, e soprattutto come fenomeni connessi ai processi di disorganizzazione, organizzazione e rioganizzazione sociale. Dei quali la modernità è certo portatrice, senza per questo dover autorappresentarsi come l'unica depositaria dei valori di una specie di "migliore dei mondi possibili". Perciò Germani, non segue fino in fondo la sociologia di Parsons: non ne condivide l'ottimismo storico. Inoltre, per quel che concerne lo studio della società moderna Germani riprende e sviluppa il problema fondamentale della sociologia classica, quello dell'ordine sociale . A suo avviso le tensioni strutturali tipiche delle democrazie e della società moderne, nascono dalla tensione tra sviluppo crescente dei processi di secolarizzazione e perdurante necessità di un nucleo di valori condivisi e prescrittivi, ai quali nessuna società può rinunciare, pena la sua disintegrazione. Insomma, Germani è consapevole che senza un punto di riferimento comunitario, sociopsicologico, identitario (e non puramente contrattualistico) capace dunque di trascendere l'individuo, senza però tradirne il consenso, nessuna società è in grado di guardare con fiducia al futuro: di crescere e perpetuarsi. E questo spiega perché oggi le scienze sociali, in quanto riflesso di una società priva di un nucleo comunitario, siano così passivamente ripiegate sul presente.
Tra le sue opere ricordiamo: Estructura social de la Argentina (1955); Estudios del Psicologia Social (1956); La sociologia en America Latina (1964); Politica y sociedad en una epoca de transicion (1965, trad. it. parziale Sociologia della modernizzazione, Editori Laterza, Bari 1971); Sociologia de la modernizacion (1971, trad. it, parziale, Sociologia della modernizzazione, cit.). In italiano si veda anche Autoritarismo, fascismo e classi sociali , il Mulino, Bologna 1975); Saggi Sociologici a cura di A. Cavicchia Scalamonti e Luis Sergio Germani, Edizioni Libreria dell'Ateneo di G. Pironti, Napoli 1991 (con un'importante bibliografia delle opere, articoli e saggi, pubblicati da GG). Va infine ricordato il "Centro Gino Germani di Studi Comparati sulla Modernizzazione", che dispone di una ricca biblioteca diretta dal figlio, dottor Luis Sergio Germani, (Via Della Dogana Vecchia, 5 - Roma 00186 telefax 066876878). Il Centro, di cui è presidente il sociologo, professor Luciano Pellicani, pubblica il quadrimestrale "Modernizzazione e Sviluppo


Carlo Gambescia

mercoledì 22 marzo 2006

 

Lo scaffale delle riviste/5




Da non perdere l'ultimo fascicolo di Diorama Letterario ( n. 275, Febbraio-Gennaio 2006 - www.diorama.it) che ospita un ricco dossier sulla "società della sorveglianza". Articoli di A. de Benoist, M. Lhomme e un'intervista di M. Marmin al filofoso Eric Werner( del quale si ricorda il bel libro L'anteguerra civile. Il disordine come come condizione dell'ordine nelle democrazie contemporanee, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2004 - www.librerieuropa.it). Tratta ovviamente di altri argomenti l'intrigante l'intervista di Valentina Meroni e Sergio Terzaghi a Enrico Ruggeri.
Tutto da leggere l'informatissimo articolo su Thomas Mann, il tedesco di Marino Freschi, appparso sulla "Nuova Informazione Bibliografica" (n. 4, Ottobre-Dicembre 2005, pp. 635-660 - www.mulino.it/rivisteweb). Un'utilissima e accurata ricostruzione biobliografica ricca di spunti e osservazione stimolanti sul grande e politicamente controverso scrittore.
Altrettanto interessante "Le Monde diplomatique il manifesto (n. 3 anno XIII, marzo 2006 - www.ilmanifesto.i/MondeDiplo/ ). Da meditare il commento di Gerges Corm su Rivolte e rifiuto in nomedell'Islam (pp. 1 e 4). Secondo lo studioso, i palestinesi saranno colpevolizzati e puniti "per aver esercitato i loro diritti democratici (...). Gli Stati Uniti e l'Unione Europea hanno aderito a questa logica immorale che potrà solo aggravare la situazione (...): 'l'idea è quella di mettere i palestinesi a dieta, ma di non farli morire di fame' " (p.1). Tempestivo e documentato il "dossier lavoro" (pp. 12-16), articoli di D. Linhart, A. Racinoux, F. Lefresne, F. Ruffin, R. Fantasia.
Si parla invece di "Italia Globale" nell' ultimo numero di "Imperi" (n.7, anno 3, 2006 - tel. o6 39738949 - fax o6 39738665) , la rivista di geopolitica, con il cuore a destra, diretta dal poliedrico Aldo Di Lello. "Una parte consistente delle élites intellettuali e del ceto politico, scrive Di Lello, pare abbia smesso di sognare e parla, con gusto un po' autoafflittivo di "declino" (...). Prevale la cultura del sospetto (...) Come ne usciamo? (...) C'è bisogno di reinventarsi la patria" (pp. 5-6). Articoli di F. Eichberg, R.R. Venturi, A. Marcigliano, M. Leofrigio, S. Santangelo e altri.
Sempre in argomento si veda il sondaggio sui "10 super italiani" lanciato da "Storia in Rete" (n. 4 -febbraio 2006 - www.storiainrete.com), la nuova rivista di alta divulgazione storica diretta da Fabio Andriola. Classifica provvisoria: 1° Dante Alighieri, Camillo Benson Conte di Cavour (ex aequo), Alcide De Gasperi; 2° Leonardo da Vinci; 3° San Francesco e Cristoforo Colombo (ex aequo); 4° Giovanni Giolitti.
A chi invece voglia uscire intellettualmente dai confini italiani si raccomanda la lettura dell'ultimo fascicolo del "Journal of Economics Issues" ("JEI", n. 4, December, XXXIX, 2005 ). Particolarmente interessante, tra gli altri, l'articolo di James Forder Why Is Central Bank Independence So Widely Approved? (pp. 843-865), che si apre con due divertenti, ma non troppo per gli economisti, citazioni di George Bernard Shaw e Winston Churchill... Si ricorda che si tratta del periodico "sponsored" dall' "Association for Evolutionary Economics" (Department of Economics, Bucknell University, Lewisburg, Pennsylvania, 17837 Usa. Attuale "editor" della rivista: prof. Glen Atkinson - atkinson@unrnevada.edu ). Un' associazione di economisti "non ortodossi", che si ispira al primo istituzionalismo americano (Veblen e Commons, in particolare).
Infine a chi desideri saperne di più sul "passato, presente e futuro" della borghesia, si consiglia di leggere l'interessante focus in argomento apparso sull'ultimo numero di Italicum (anno XXI, Gennaio-Febbraio 2005, pp. 3-9 - www.centroitalicum.it). Articoli di L. Tedeschi, direttore della rivista e studioso di problemi economici, L.L. Rimbotti, A. Scianca, G. Adinolfi, A. Segatori, R. Olivieri. Notevole l'intervista al filosofo Costanzo Preve, Borghesia e postborghesia nell'era neocapitalista, a cura di Luigi Tedeschi (p. 6-7). 

Carlo Gambescia

martedì 21 marzo 2006


La rivolta dei giovani precari francesi
Un  nuovo Sessantotto?


La rivolta dei giovani precari francesi indica che il processo di  "precarizzazione" del lavoro in Europa è giunto a un punto di svolta.
Si tratta di un processo iniziato negli anni Ottanta con le cosiddette rivoluzioni neoliberiste. E che ha radici nell'economicismo angloamericano ("l'economia innanzitutto"). Dal momento che questo pensiero considera il lavoro un puro e semplice fattore di produzione. La maggiore libertà di cui discutono accesamente i liberisti implica una crescente libertà d'impresa. E la libertà d'impresa, a sua volta, impone assoluta autonomia decisionale: l' imprenditore deve disporre liberamente (nei limiti imposti dai codici) dei fattori produttivi: capitale (macchine, materie prime, ecc.), natura (terreni coltivabili, miniere, pozzi petroliferi, ecc.) e appunto lavoro (materiale, intellettuale, specializzato e così via).
Il lavoro umano viene così posto sullo stesso piano della materia morta, inanimata. Che, secondo  certo liberalismo economico,  si trasformerebbe in materia viva, animata soltanto grazie al soffio vitale del dio-imprenditore. Il lavoro, insomma, non sarebbe altro che un fattore che deve garantire, come gli altri fattori, produttività crescente. Dal punto di vista economico.
Pertanto quel che sotto l'aspetto sociologico è "precario" (come condizione di provvisorietà, incertezza, instabilità nel rapporto di lavoro), sotto l'aspetto economico-imprenditoriale è "mobile"(come condizione di un lavoro, quello umano, che può essere mosso, spostato, trasferito, secondo le esigenze dell'impresa).
Ora, protestare contro la precarizzazione economicista del lavoro come fanno i giovani francesi, indica che la mobilità dei fattori non può essere spinta oltre un certo limite. La ricerca capitalistica della produttività non può (e non deve) fagocitare l'intera "sostanza" umana di cui è "fatta" la società. L'uomo, come insegnano gli antropologi culturali, ha una grande capacità di adattamento (plasticità), la cui finalità è però la sua conservazione e non autodistruzione... E i giovani francesi hanno fiutato il pericolo di una deriva "antropologicamente" distruttiva. E prima di altri (perfino degli stessi sindacati) hanno "sentito", e sulla propria pelle, che è in gioco la riproduzione sociale, se non fisica, di una intera generazione, e di conseguenza della futura società nel suo insieme.
E ciò significa che si è giunti a una svolta. Dal momento che sussiste la possibilità che politici e imprese possano fare marcia indietro. E se così fosse la "retromarcia" francese (il ritiro di una legge che, tra le altre cose, prevede per i giovani fino a 26 anni assunti da imprese sopra i 20 dipendenti, il licenziamento senza giustificato motivo nei primi due anni) , potrebbe costituire un ottimo esempio anche per tutti gli altri paesi minacciati da una incombente precarizzazione del lavoro (non solo giovanile). E magari una "riflessione" anche in Italia sulla Legge 30.
Il che proverebbe anche la difficoltà di trasferire e applicare il modello economico-sociale angloamericano in Europa.
Non è invece il caso di parlare in un nuovo Sessantotto studentesco. La situazione economico-sociale è totalmente diversa. All'epoca primeggiavano (e si confrontavano) due modelli politici, sociali, economici differenti (quello euro-americano e quello socialista, cinese e sovietico. Mentre oggi ne è restato uno solo, quello statunitense. Il che indica che mancano alternative geopolitiche e sociali concrete. Inoltre, nel Sessantotto gli studenti come gruppo sociale miravano a sostituire, come parte dirigente, lo stesso movimento sindacale: agivano. Oggi invece si battono, certo giustamente, ma solo per sopravvivere alla precarizzazione: reagiscono. Infine, la protesta studentesca del Sessantotto esplose alla fine di un periodo di grande sviluppo, mentre oggi l'incendio francese divampa in una società sull'orlo del "desviluppo".
Di qui la necessità di evitare facili ed erronei raffronti e mitizazzioni. Lasciamoli a giornali e televisioni sempre affamati di rivoluzioni in diretta.
La "Sorbona brucia"? Forse. Ma non è assolutamente il caso di farsi venire il torcicollo.

Carlo Gambescia

lunedì 20 marzo 2006


Paradossi italiani
Berlusconi e Confindustria



Il fuori programma di Berlusconi a Vicenza è significativo. Almeno per due ragioni.
La prima è che il Cavaliere ormai sente odore di sconfitta. E di conseguenza punta tutto sui numeri a effetto. E' un ottimo venditore, e lo ha provato di nuovo a Vicenza : è riuscito a dividere e infiammare l'uditorio. E comunque a riscuotere un certo consenso, soprattutto tra i peones (i medi imprenditori). Il che però non gli permetterà di vincere.
La seconda è che finalmente è venuto allo scoperto l'atteggiamento di totale chiusura dei vertici di Confindustria nel riguardi del fondatore di Forza Italia. Basta leggere i giornali di oggi ("Berlusconi ci vuole dividere, eccetera.."). Ora, è vero che nel 2001, Berlusconi fu appoggiato da D'Amato, altro outsider, ma è altrettanto vero che già all'epoca, tra gli industriali aveva più nemici che amici. Venne appoggiato da Confindustria più per porre riparo alla dannosa litigiosità del centrosinistra, (quattro governi in cinque anni), che per meriti propri.
Perché questa ostilità nei riguardi di Berlusconi?
In primo luogo, perché i vertici dell'economia italiana lo considerano un parvenu. Si pensi all'atteggiamento snobistico nei suoi riguardi della famiglia Agnelli (ad esempio il rifiuto di Montezemolo,  attuale Presidente di Confindustria,  di far parte, anche come esterno, del governo di centrodestra, proprio lui che in passato, come in occasione dei Mondiali '90, aveva invece accettato incarichi parapolitici dal Pentapartito). Berlusconi perciò viene considerato un avventuriero: un uomo venuto dal nulla. Il che è vero. Ma va detto che anche gli Agnelli, fino alla prima guerra mondiale furono giudicati tali. E qui basta sfogliare qualsiasi buona storia sociale dell'industria moderna, per scoprire che sussistono pesanti "differenze di classe" anche all'interno degli ceti economicamente dominanti. La ricchezza per diventare "onorevole", deve avere almeno un secolo di consolidamento alle spalle. E La fortuna di Berlusconi ha meno di trent'anni.
In secondo luogo, e questo è un dato di sociologia politica (documentato da ricerche), nelle democrazie post-seconda guerra mondiale, e non solo in Italia, i vertici economici hanno sempre preferito governi di centrosinistra (attenzione di centrosinistra, non di sinistra in senso stretto), dal momento che questi hanno garantito e garantiscono, grazie al rapporto privilegiato con i sindacati, eventuali riforme del mercato del lavoro, o comunque di ancorare, grazie al consenso concertato tra le parti sociali, riforme e alta produttività del lavoro. Un solo esempio: le riforme italiane in senso liberista del mercato del lavoro, sono state introdotte negli anni Novanta dai governi di centrosinistra. Di qui l'inutilità per Confindustria di un Berlusconi incapace, non solo di controllare i sindacati, ma addirittura di trattare...
La vera domanda, al di là del folclore pro o contro il Cavaliere, è appunto questa: può Berlusconi garantire quella radicale riforma del mercato del lavoro in chiave liberista, che Confindustria invoca da anni. No. E chi può garantirla? Prodi e il centrosinistra.
Il tragico paradosso italiano è tutto qui. Da un lato un Berlusconi che vara leggi ad personam, e dall'altro un centrosinistra che si prepara a realizzare, malgrado alcune sue componenti minoritarie non siano d'accordo, una radicale riforma del mercato del lavoro. E probabilmente anche delle pensioni.
Altrimenti come spiegare il totale appoggio di tutta la stampa ( che una volta si chiamava in senso spregiativo confindustriale) al centrosinistra. Prodi che di solito è così cauto, dovrà pure aver promesso qualcosa a Montezemolo.

E sarebbe bello, prima di andare a votare, magari per il centrosinistra, capire che cosa... 

Carlo Gambescia

giovedì 16 marzo 2006


Profil/18
Robert Morrison MacIver





Robert Morrison MacIver (1882-1970) è un sociologo oggi poco studiato, se non del tutto dimenticato. Ed è un peccato. Perché la sua opera è di grande spessore teorico e soprattutto distinta da una studio attento dei rapporti tra tecnica, cultura e società. Per MacIver la sociologia non è una scienza iperspecialistica, frammentata nei più diversi saperi disciplinari ed esclusivamente basata sulla ricerca empirica, come è considerata oggi in ambito accademico.
A suo avviso la sociologia, pur avendo come base l'individuo, non può ignorare, il sistema di relazioni culturali e materiali, intorno al quale ruota l'agire umano. Per questa ragione lo studioso sociale deve saper maneggiare, oltre agli strumenti empirici, quell'immaginazione sociologica, per dirla con Wright Mills, che creativamente consente di intuire come un tutto la relazione tra l 'uomo da un lato, e la tecnica, la cultura e la società dall'altro.
MacIver nasce nelle Ebridi scozzesi nel 1882, da una famiglia di agiati commercianti di tessuti, religiosamente molto devota, ma apertissima ai bisogni culturali del figlio. Studia all'Università di Edimburgo lettere classiche (1898). Poi passa a Oxford (1903) dove prende il suo B.A. (1907) e allarga gli orizzonti culturali, aprendosi alle scienze sociali del suo tempo (Simmel, Durkheim, Lévy-Bruhl). Consegue il Ph.D presso l'università di Edimburgo (1905). Dopo di che la sua grande passione verso la filosofia sociale e poltica gli fa accettare un incarico insegnamento di filosofia e sociologia (disciplina all'epoca all'avanguardia) presso l'Università di Aberdeen (1907-1915) Un dissidio intellettuale sul valore della filosofia politica hegeliana (criticatissima da MacIver, che parte dall'individuo e non dallo stato) con il suo superiore di facoltà, il professor J.B.Baille (il traduttore inglese della Fenomenologia), lo spinge a trasferirsi in Canada (1915). E qui insegnerà all'Università di Toronto finoa ad assumere la direzione del Dipartimento di Scienza Politica. Dopo di che si trasferisce negli Stati Uniti per insegnare alla Columbia University di New York (1927). Fonda, con altri studiosi la New School for Social Research (1935), che accoglierà molti studiosi europei rifugiatisi in America, a causa delle persecuzioni nazionalsocialista. Nel 1940 viene nominato presidente dell'American Sociological Society. Nel 1950 lascia l'insegnamento di filosofia politica e sociologia alla Columbia per dirigere una serie di importanti progetti di ricerca sulla libertà accademica, la discriminazione sociale e la delinquenza giovanile. Nel 1963-1964 è chiamato a dirigere la New School for Social Research. Muore nel 1970, ultraottantenne.
Tra le sue opere principali: Community: A Sociological Study (1915, che meriterebbe, ancora oggi, una traduzione italiana), The Modern State (1926), Social Causation (1942, trad. it a cura di Leonardo Allodi, Franco Angeli Milano 1998), The Web of Government (1947, trad. it. il Mulino, Bologna 1962, intr. di G. Poggi, ancora utilissima), Society: An Introductory Analysis (1949); As a Tale That Is Thold. The Autobiography of R.M. MacIver (1968). Per un'ottima introduzione al suo pensiero si veda Leonardo Allodi, Quello che non è di Cesare. Comunità, società e Stato in R.M.MacIver (Franco Angeli, Milano 2000 - www.francoangeli.it).
Insomma, un sociologo-filosofo di altissimo livello. Di particolare importanza è la sua visione triarticolare del sociale. Che MacIver suddivide in tre ordini: "l'ordine culturale", che comprende religione, filosofia, arte, tradizioni, costumi, e che rappresenta lo schema di riferimento in cui trovano espressione i processi di socializzazione e di riconoscimento individuale; "l'ordine sociale", che concerne le relazioni umane organizzate, in gruppi e istituzioni; "l'ordine tecnologico", che consiste in un insieme di tecniche o "strumenti per vivere", nel senso dell'idea di civilizzazione spengleriana, applicabili dall'uomo alle condizioni biofisiche.
Dalla triarticolazione fra questi ordine nasce e si consolida la società. Sul cui destino però l'ultima parola spetta sempre all'uomo. Scrive MacIver, rimasto per tutta vita un fiero di avversario di Hegel: "Gli strumenti che la civiltà forgia possono essere simboleggiati da una nave pronta a salpare verso i porti più diversi. Il lido verso cui veleggiare rappresenta invece l'esito di una scelta culturale. Senza la nave non potremmo partire. Le sue caratterstiche potrebbero rendere il viaggio più o meno lungo. Potremmo adattarci o meno alla vita di bordo, lasciando che la nostra esperienza muti in funzione di essa. Ma la direzione verso cui potremmo andare non è predestinata dal ' design' della nave" (Society: An Introductory Analysis, Reinehart & Co., New York 1949, p. 51). Insomma, siamo sempre a noi, uomini, a decidere individualmente e non lo stato, l'economia, o qualsiasi altra incarnazione di uno spirito assoluto. E questa è la fondamentale  lezione di Robert Morrison MacIver. 
Da non dimenticare mai.

Carlo Gambescia

mercoledì 15 marzo 2006


I libri della settimana: J.B. Schor, Nati per comprare, Apogeo, euro 18; J.F. English, The Economy of Prestige, Harvard University Press, usd 29.95




Ecco due libri per capire come funziona la società dei consumi.
Il libro di Juliet B. Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli ostaggi della pubblictà (Apogeo, 2005 pp. 291, www.apogeoline.com), ricercatrice della Boston University è importante per scoprire come la pubblicità sia ormai diventata un elemento della socializzazione infantile. Secondo le sue ricerche il bambino americano medio a 18 mesi è capace di riconoscere i loghi pubblicitari, e a due anni di chiedere ai genitori prodotti pubblicizzati in televisione, con parole proprie e indicandone "col ditino" la marca. Questo indica che negli Stati Uniti la pressione sociale al consumo sui bambini è fortissima. Il che implica enormi investimenti nel marketing per l'infanzia. Ad esempio, alcuni canali televisivi, come Channel One, hanno stipulato accordi con le scuole primarie, scambiando la fornitura di materiale audiovisivo e attrezzature con la visione obbligatoria, nei luoghi di ricreazione se non addirittura in classe, di dieci minuti giornalieri di pubblicità. La Schor esamina anche il rapporto, purtroppo di causalità diretta, tra bombardamento pubblicitario e comportamenti antisociali. Dal momento che i bambini sottoposti a stress da acquisti forzati, non crescono in ambienti familiari sani e creativi, ma mercificati e votati "istituzionalmente" al culto del possesso. E ciò accade a prescindere dalla qualità e dal livello del reddito familiare. In tal senso si può parlare per il bambino medio americano di una vera e propria perdita dell'infanzia. Il "disadattamento" da stress pubblicitario non potrà perciò non avere pesanti conseguenze sul futuro della società americana. Queste le pessimistiche conclusioni dell'autrice. Sarebbe molto interessante condurre un analogo studio sulla situazione dell' infanzia europea italiana, per individuare, si spera, possibili dissonanze con la realtà americana, e comunque, eventuali rimedi.

Il testo di James F. English, The Economy of Prestige. Prizes, Awards, and Circulation of Cultural Value (Harvard University Press, 2005, pp. 409 www.hup.harvard.edu/catalog/engeco), professore di letteratura della Pennsylvania University, è utile per scoprire i meccanismi che regolano l'industria culturale. L'autore riprende e sviluppa le tesi sul "capitale sociale" del sociologo francese Pierre Bourdieu. I premi letterari, artistici, cinematografici, musicali, eccetera, sono studiati come meccanismi riproduttivi di un valore economico che attribuisce, moltiplicandosi, a vincitori, produttori e organizzatori, un enorme potere sociale analogo a quello degli oligopoli di mercato. Di qui la necessaria "commercializzazione" a ogni livello del "valore sociale di riproduzione" del "bene sociale-premio" Un processo che si estende a tutti. Anche agli stessi avversari del consumismo culturale. I quali, pur istituendo "contropremi" e "controfestival", finiscono inghiottiti, appena le "contromanifestazioni hanno successo (e l'autore cita, tra gli altri, il caso del "Sundance Festival") nel circuito mediatico della commercializzazione e della riproduzione del valore sociale di mercato. L'analisi di English non assume mai alcun connotato moralistico, ma pecca probabilmente di economicismo (come del resto anche l'analisi del suo maestro Bourdieu; notevole a riguardo la polemica, tutta francese, negli anni Ottanta tra Bourdieu e Alain Caillé...). Si tratta, comunque, di un libro interessante perché documentatissino e ricco di informazioni, in particolare sull' industria anglo- americana dei premi. E di cui si raccomanda la traduzione italiana. 

Carlo Gambescia

martedì 14 marzo 2006

 Milosevic secondo Carla del Ponte
Verità storia o  verità giuridica?




L'improvvisa morte di Milosevic ha lasciato i giudici dell'Aja di stucco. Ovviamente anche da morto, Milosevic non è sfuggito al rituale di degradazione, cui era stato sottoposto da vivo. La stragrande maggioranza dei giornali mondiali (in particolare americani ed europei) ha continuato a usare verso "Slobo" lo stesso tono impietoso che di solito si impiega per informare i lettori della morte in carcere di un pericoloso pedofilo, stupratore, serial killer: un rifiuto dell'umanità.
Ora, qui, non si vuole assolutamente negare le responsabilità politiche di Milosevic. Né ricostruirne la biografia o le vicende  giudiziarie. Per questi aspetti si veda l' articolo  di Tommaso di Francesco e Danilo Zolo, apparso sul "Manifesto" (domenica 12 marzo, p. 7 ). Ma più semplicemente soffermarsi su un punto particolare: la dichiarazione del procuratore del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia Carla del Ponte ("Corriere della Sera"  lunedì 13 marzo, p. 15 ). Una dichiarazione, questa sì, che veramente lascia di stucco, chiunque creda nel diritto e nella giustizia,
Ecco quel che ha dichiarato la del Ponte: "No, non credo che abbiamo sbagliato a riunire le imputazioni in un unico processo, anche se molto più lungo e complicato di un procedimento diviso in tre tronconi per Croazia, Bosnia, Kosovo. Volevamo ricostruire la verità storica di un unico conflitto. No, tornassi indietro, non farei nulla di diverso".
Quel che  suona  in modo particolarmente sinistro è il fatto che un giudice dichiari di voler "ricostruire la verità storica". Una visione a dir poco aberrante, che dal punto di vista della procedura e del diritto penale moderni non ha alcun fondamento. Il giudice infatti deve applicare la legge esistente, e non conformarla, di volta volta, alla verità storica del momento. Il diritto concerne i principi, la storia i fatti . La verità da "ricostruire", al massimo, può essere processuale, interna al giudizio e accertabile giuridicamente, ma mai storica: la verità processuale concerne un "diritto" offeso; la verità storica riguarda invece un "fatto": la relazione politica (accertabile, e giustificabile, solo politicamente e non giuridicamente), tra vinti (i giudicati) e i vincitori (i giudici). Il giudice può temperare il suo giudizio, nel caso singolo, ricorrendo al principio di equità, che tuttavia non può mai essere contrario ai moderni principi del diritto e della procedura penale, i quali escludono l'accertamento di qualsiasi forma di verità extragiuridica. Infine, la verità storica invocata dalla del Ponte, rappresenta giuridicamente un passo indietro: il ritorno a una specie di medievale "giudizio di Dio", che vede però la Storia sostituirsi a Dio.
Si potrà dire: anche il diritto penale moderno, ha origine da precisi fatti (storici): le rivoluzioni borghesi. Certo, ma la rivoluzione del 1789 (per citarne una) come portata storica (dal punto di vista dello sviluppo giuridico moderno), può essere messa sullo stesso piano della guerra tra la Stati Uniti e Nato da una parte e la piccola Serbia dall'altra? Che invece ricorda da vicino una guerra coloniale per eliminare un "ras"o un sultano sgradito...
Milosevic, "il macellaio dei Balcani" è morto. Ed è probabile che politicamente lo fosse sul serio. Ma come definire certi giudici, se non macellai dei diritto? 

Carlo Gambescia

lunedì 13 marzo 2006

                     La politica dell'irrealtà                                      

                             


Ora, di sicuro, fino al confronto con Prodi si parlerà solo della "fuga" di Berlusconi dal programma di Lucia Annunziata. Come fino all'altro ieri si era parlato soltanto del confronto televisivo tra il Cavaliere e Diliberto... E così via, tra prese di posizione politiche, dichiarazioni, eccetera.
Per definire tutto questo c'è un solo termine: irrealtà.
Oggi la politica, e non solo in Italia, si svolge su tre piani.
Il primo è quello militare, e riguarda le guerre euro-americane in Medio Oriente. Si tratta di un settore in cui domina l' iperrealismo della volontà di potenza. Un iperrealismo che si manifesta come una forma di realismo esasperato: un "più che realismo" che esige l'eliminazione fisica del nemico. All' "avversario", come figura nella quale si dovrebbe, comunque e sempre, individuare e riconoscere (apprezzandola) almeno una "traccia" di comune umanità, si è sostituito il "nemico", come rappresentazione iperrealistica del male assoluto.
Il secondo è quello economico, e concerne il controllo delle risorse materiali, in primis il petrolio. Si tratta di un ambito in un cui domina il realismo degli interessi economici. Un realismo che si esprime per quello che è : il "realismo affaristico" di chi affronta la realtà nella sua concretezza di fatto, senza badare a componenti ideali o emotive. Un atteggiamento che qualche volta si coniuga con gli interessi militari, e qualche volta no ( di qui le "guerre" soltanto "economiche") . Attualmente interessi petroliferi e volontà (militare) di potenza procedono di pari passo.
Il terzo è quello mediatico che concerne il controllo delle risorse ideali, culturali ed emotive. Si tratta di un settore in cui domina l'irrealtà della politica-spettacolo. Una irrealtà voluta e imposta, dal momento che il mondo dei media dipende funzionalmente e strutturalmente (per risorse, mezzi e uomini) dal settore economico. Di qui un atteggiamento rivolto sistematicamente a falsificare, mascherare, abbellire gli aspetti iperreali (militari) e reali (economici) della politica. In che modo? Presentando la politica, come una specie di "reality" televisivo, un mondo "similvero", ma in realtà immaginario o comunque finto, con scambi di accuse, "lieto fine", o magari colpi di scena e "fughe", come quella di Berlusconi davanti a Lucia Annunziata.
Quel che conta, insomma, per la politica-spettacolo è evitare qualsiasi dibattito serio sugli aspetti iperrealistici e realistici della politica attuale. Perciò più si discute del Cavaliere e di Lucia Annunziata, più la verità si allontana....
Perché prestarsi a questo gioco?

Carlo Gambescia

venerdì 10 marzo 2006


La vita "low cost" dei giovani




Stando a certi giornali sembra che oggi sia di moda tra i giovani mostrare di saper vivere con mille euro al mese. In realtà, tra i ventenni-trentenni non affiora grande entusiasmo per la vita low cost, ma soltanto rassegnazione.
Infatti, secondo alcune ricerche sociologiche, i giovani tra i 25 e il 35 anni (ma si è ancora "giovani" a 35 anni?), avrebbero smesso di lottare per migliori condizioni lavorative. Anche se con titoli accademici finiscono per accontentarsi (1 laureato su 2) di lavori precari. Perché?
Per almeno quattro ragioni.
La prima ragione, risale al fatto che i giovani sono le vittime più facili, e in certo senso predestinate, di una società che dipinge la "flessibilità" come il migliore dei mondi possibili. Chiunque oggi accetti di buon grado un lavoro a termine e sottopagato, è subito definito un "buon lavoratore": gode di consenso sociale. E se giovane, si ritiene che sia più che giusto per lui "fare gavetta". La flessibilità rinvia a sua volta al nuovo modello di relazioni lavorative adottato in Europa negli ultimi 15-20 anni. Che tendenzialmente è molto simile (anche se non ancora uguale per fortuna) a quello americano, basato sulla discontinuità del rapporto di lavoro.
La seconda ragione, risale a un fatto culturale: il mordi e fuggi delle imprese nei riguardi del lavoratore precario è dovuto a un vero e proprio mutamento di valori. Anche se in passato lo era, oggi non è più accettata (e se lo è, spesso a fatica) l'idea di una soglia dignitosa, per tutti, di benessere, sicurezza e stabilità lavorativa.
Pertanto, ed ecco la terza ragione, per gli under 35, formatisi (in termini di processi di socializzazione e "acculturazione") negli ultimi 15-20 anni, "precarietà" e "basso stipendio" oggi rappresentano la "normalità". E qui ha giocato e gioca un ruolo determinante la pressione sociale (la "coazione" ad assorbire e imitare certi comportamenti ritenuti socialmente vincolanti e inclusivi). Soprattutto sul piano mediatico, il messaggio, per così dire "subliminale" è di dover accettare qualsiasi lavoro anche malpagato, precario e privo di tutele, per mostrare al mondo "quanto si è bravi". Per "sentirsi" con se stessi, come quel attore, oggi, importante, ma che ieri, faceva anche lui cameriere o il dipendente di un call center... Insomma, il precariato viene presentato come un segno di distinzione sociale: il biglietto fortunato per una carriera luminosa.
Infine, e questa è la quarta ragione, la rassegnazione dei "giovani perdenti", che è pero mitigata dalla speranza di poter prima o poi emergere, o comunque "sistemarsi bene", si accompagna a una socialità conflittuale, segnata da bassa sindacalizzazione e da una insufficiente vita relazionale sul posto di lavoro. Tutti, pensano a se stessi, e nell'altro non c'è lo specchio del proprio precariato, ma un potenziale e pericoloso concorrente, nella gigantesca gara che ha come traguardo rinnovi contrattuali e premi di produzione. Tutti rigorosamente individuali.
Quali conclusioni?
Sicuramente non positive Dal momento che quanto più si diffonde la flessibilità tanto più si afferma il processo collettivo di degradazione del lavoro.

Perciò per molti giovani il "low cost" potrebbe diventare una condizione permanente di vita.

Carlo Gambescia