venerdì 29 settembre 2017

Referendum catalano
España invertebrada?




Referendum catalano, tre notizie significative.

La prima.
Con le migliaia di agenti inviati in rinforzo in Catalogna negli ultimi giorni sono ora oltre 10mila gli uomini della Guardia Civil e della Policia Nacional nella regione 'ribelle' con il compito domenica di impedire lo svolgimento del referendum di indipendenza, ha indicato oggi il 'ministro' degli interni catalano Joaquim Forn.

La seconda.
In una lettera ai colleghi delle 27 capitali Ue il sindaco di Barcellona Ada Colau ha chiesto oggi una mediazione della Commissione Europea nella crisi catalana. Colau, eletta con Podemos, sottolinea che il conflitto catalano non è una questione interna spagnola e deve essere affrontato nella sua dimensione europea.

La terza
 Parlamento basco ha espresso oggi "appoggio e rispetto" al referendum di indipendenza catalano previsto domenica e dichiarato "illegale" da Madrid. In un documento approvato con i voti del partito nazionalista moderato Pnv del premier Inigo Urkullu e degli indipendentisti di Bildu, il parlamento basco si oppone a qualsiasi misura repressiva dello Stato spagnolo per impedire lo svolgimento del voto il primo ottobre.

Qual è il legame sociologico?   Sintetizziamolo  in  tre punti.
1) Che il conflitto politico, implica sempre l’appello a una autorità istituzionalmente superiore, in  questo caso l’Ue;  2)  che  implica la nascita di alleanze, sulla base del meccanismo “il nemico del mio nemico è mio amico”,  in questo caso i separatisti baschi; 3) che l’uso della forza, inevitabilmente, rappresenta sempre la soluzione in ultima istanza, in questo caso l’invio dei poliziotti spagnoli per impedire il referendum.
Pertanto,  l’esito  del conflitto spagnolo, dipende da  fattori interni ed esterni, non tutti controllabili, perché ad esempio l’uso indiscriminato della forza potrebbe far cambiare idea all’Ue e provocare prese di posizione ancora più decise da parte dei baschi e del separatismo in genere. E non solo in Spagna.
Si dice che il diritto di secessione dei popoli sia sacro.  Il che, se si riflette bene, sul piano dei principi,  non è che un prolungamento ideologico - e argomentativo -  dello stato-nazione (un territorio, una lingua, una sovranità),  in nome del quale la Spagna vuole vietare il referendum. In realtà, il diritto dei popoli, nelle sue varie vesti politiche  ( specialmente in quella secessionista che lo rappresenta a livello di potere costituente vs potere costituito) è un fenomeno sociale a doppio taglio.   Che ricorda, sul piano formale (dei processi formali,  astratti dai contenuti), quello della moda,  nel senso che si vuole, collettivamente, essere uguali e diversi al  tempo stesso:  uguali tra catalani,  indossando, per così dire una certa maglietta, e diversi dagli spagnoli, che ne indossano un'altra, di moda per  Madrid.   E così via, secondo un microfisica del potere,  dall’alto verso il basso, che regola le  “mode politiche”, dalla genesi sociale alla istituzionalizzazione.  Ad esempio come si comporterebbero le  "istituzioni" catalane, una volta stabilitesi,  con   minoranze interne, allo stato nascente,  che si “abbigliassero” in altro modo?  Va da sé che invierebbero la polizia catalana. Per contro le  stesse  minoranze, invocherebbero l’alleato europeo e  spagnolo contro il "centralismo" catalano. E così via.
Questa è  la  sostanza  sociologica (e metapolitica) del processo conflittuale in atto.  Certo, esistono le Carte costituzionali, frutto di buon senso e prudenza politica.  Carte  che dovrebbero impedire tutto questo. In fondo,  la Spagna post-franchista,  gode di un sistema di autonomie, anche a livello locale, perfino  comunale e  provinciale, molto liberale.  Eppure, sembra non bastare.
L’antica malattia spagnola, diagnosticata  da  Ortega y Gasset,  di una   España invertebrada , votata all’autodissoluzione, vittima  dei suoi  regionalismi  e separatismi,   sembra riaffacciarsi. 
Si dirà:  non è una malattia, Ortega era un liberale conservatore,   che non capiva  l’ansia di libertà  dei vari  popoli  insediatisi  nella penisola iberica.  Probabile,  ma la cura, al punto in cui si è giunti, qualunque "terapia" si scelga,  rischia di essere dolorosa, molto dolorosa. Per tutti.     

Carlo Gambescia   

domenica 17 settembre 2017

Arma dei Carabinieri
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 18 settembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO
Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio ambientale svolta nell'ambito della procedura riservata n. 765/2, autorizzazione COPASIR 8932/3a [Operazione NATO “ASCOLTO FRATERNO” N.d.V.] è stata intercettata, in data 17/09/2017, ore 11.32, una conversazione telefonica tra le utenze 333***, intestata a FINZI MATTIA, Segretario del Partito Democratico, e 347***, intestata a BERNASCONI SILVANO, Presidente di “Forza Italia”. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della conversazione summenzionata:

[omissis]

BERNASCONI SILVANO: “Magistrale, Mattia, magistrale. Chapeau!”
FINZI MATTIA: “Scusa ma non capisco.”
BERNASCONI SILVANO: “Sì, vabbè. Comunque, mossa da maestro, davvero. Praticamente è fatta.”
FINZI MATTIA: “Fatta cosa?!”
BERNASCONI SILVANO: “Il Partito della Nazio…ma vuoi che ne parliamo di persona, eh? Hai ragione, al telefono non è sicuro.”
FINZI MATTIA: “Senti, Silvano, io adesso avrei da fare, ciao…”
BERNASCONI SILVANO: “Fai lo gnorri adesso? Guarda che ci metto un minuto a cambiare idea.”
FINZI MATTIA [pausa]: “Silvano: guarda che non ho capito davvero.”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Cioè mi vuoi dire che non sei stato tu?”
FINZI MATTIA: “Che non sono stato io a fare cosa?!”
BERNASCONI SILVANO: “Be’ ma scusa…[pausa] Giorno uno: un magistrato parla ai giornali, si sgonfia l’inchiesta su tuo padre, tu giuri in pubblico vendetta tremenda vendetta, ‘chi mi ha attaccato pagherà’. Giorno due: un altro magistrato sequestra tutti i conti di Matteo Saltini, la Lega fa campagna elettorale in bicicletta, nel centrodestra vinco e stravinco io. Vuoi farmi credere che non c’entri niente?”
FINZI MATTIA [pausa]: “Non c’entro niente. Se vuoi non crederci ma non c’entro.”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Ma allora chi è stato?”
FINZI MATTIA: “Non lo so.”
BERNASCONI SILVANO: “No, non è possibile…ce li avete in tasca voi i magistrati, dai…”
FINZI MATTIA: “Magari.”
BERNASCONI SILVANO: “A me la racconti, questa fola?”
FINZI MATTIA: “Una volta. Una volta poteva essere vero…”
BERNASCONI SILVANO: “ ‘Poteva’? Mi avete rovinato la vita, coi processi!”
FINZI MATTIA: “A parte che non sono stato io, ti ripeto: una volta poteva…va be’: una volta era vero. Adesso no, non più.”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Ma allora chi li controlla questi qua?”
FINZI MATTIA: “Non lo so. Forse non li controlla nessuno.”
BERNASCONI SILVANO: “Impossibile.”
FINZI MATTIA: “Pensaci, Silvano. Al tempo di Mani Pulite, al tempo tuo, un disegno c’era, chiaro e coerente. Si capiva subito a cosa servivano i processi. Ma adesso?”
BERNASCONI SILVANO: “Te hanno cercato di farti fuori, uguale a me. O no?”
FINZI MATTIA: “Sì, ma per fare cosa? Per metterci chi, al posto mio?”
BERNASCONI SILVANO: “Mah…forse…dici D’Altema? Litta?”
FINZI MATTIA: “Ma dai. Non vedi che tiri a indovinare?”
BERNASCONI SILVANO: “Cioè tu dici che adesso i giudici…fanno di testa loro?”
FINZI MATTIA: “Sì.”
BERNASCONI SILVANO: “Che non li controllate più?”
FINZI MATTIA: “Qualcuno forse lo controlliamo, ma nell’insieme non li controlliamo più.”
BERNASCONI SILVANO: “Cribbio.”
FINZI MATTIA: “Cribbio sì.”
BERNASCONI SILVANO: “Cioè chi va al governo lo decidono loro.”
FINZI MATTIA: “Neanche. Lo decide qualcuno di loro, di testa sua.”
BERNASCONI SILVANO [pausa]: “Be’, stavolta caso ha voluto che hanno deciso bene, no? Con la Lega fuori dai piedi, la palla passa a noi due. Alle elezioni vinci tu, vinco io, e facciamo la coalizione di governo.”
FINZI MATTIA: “Mah. Forse. Bisogna vedere. Per esempio: e se Saltini non ci sta?”
BERNASCONI SILVANO: “Come non ci sta? C’è una sentenza, c’è un ordine del magistrato…cosa fa Saltini, la marcia su Roma? Fa come ho fatto io, protesta e ingoia il rospo.”
FINZI MATTIA: “Ma a te non ti hanno mica espropriato il partito, Silvano. Questa è un po’ forte, non trovi? Non sono un circolo parrocchiale, hanno cinque milioni di voti.”
BERNASCONI SILVANO: “Ma cosa vuoi che facciano?! Tu al posto loro cosa faresti?”
FINZI MATTIA: “Mah, non lo so, però…per dire, hanno il Lombardo-Veneto: e se dichiarano lo sciopero fiscale?”
BERNASCONI SILVANO: “Be’ ma sarebbe la…non so, la rivoluzione? No, no, Saltini non ce l’ha il coraggio…”
FINZI MATTIA: “Forse. Ma se ce l’avesse? Dopo cosa fai? Lo arresti? Li arresti tutti? Tutti i parlamentari? Tutti i consiglieri regionali, provinciali, comunali? Tutti gli elettori? Dichiari la legge marziale, mandi l’esercito?”
BERNASCONI SILVANO: “Effettivamente…”
FINZI MATTIA: “Quindi non lo so cosa faremo io e te. Stiamo a vedere.”
BERNASCONI SILVANO: “Cribbio, lo dicevo io che dai e dai, con questi giudici…”
FINZI MATTIA: “…eh lo so. Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.o  Osvaldo Spengler


(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)


Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...






venerdì 15 settembre 2017

Giuseppina Ghersi, Aldo e Carlo Rosselli
 Crimini di guerra e crimini di pace 



Probabilmente a qualche lettore non sarà sfuggita la polemica sulla targa dedicata a Giuseppina Ghersi,  tredici anni,  stuprata e uccisa nel 1945 dai partigiani,  nel savonese,  perché ritenuta una “collaborazionista fascista”.
Ovviamente, la scelta è strumentalizzata dalla destra e dalla sinistra: i primi perché assetati di vendetta, i secondi, in particolare quelli di antica fede comunista, perché convinti di essere nel giusto. Al riguardo, la reazione di Rifondazione comunista è esemplare:


«Anche Rifondazione comunista di Savona prende posizione contro la targa in memoria di Giuseppina Ghersi e lo fa citando questo pensiero di Italo Calvino: "Dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’ Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, chè di queste non ce ne sono" (1). 

Pur con  tutto il rispetto per Calvino, grande scrittore, non condividiamo la seconda parte del ragionamento. I partigiani comunisti  filo-sovietici  avrebbero instaurato  una feroce dittatura, altro che società pacifica e democratica. Le buone intenzioni non bastano per giustificare né capire  il fenomeno totalitario.
Pertanto, ben venga  il  monumento  riparatore. Quello che però non  giustifichiamo è la scelta del luogo per il cippo: una piazza di Noli dedicata ai fratelli Rosselli, uccisi in Francia da sicari di estrema destra  al servizio dell’Ovra e di Mussolini. Benché, va detto,  non esista prova provata del coinvolgimento diretto del dittatore (2). Personalmente, a prescindere dall'accertamento delle responsabilità apicali, propendiamo per  la tesi della feroce esecuzione fascista,  negata invece dalla storiografia di destra, che rimanda a  faide,  interne all’ambiente antifascista.   
Il punto però è un altro.  Lo stupro e l’uccisione della piccola Ghersi, rinviano  ai crimini di  guerra, a un terribile stato di eccezione,  dove in nome di  pòlemos  furono commesse nefandezze da tutte le parti in lotta. L’uccisione dei fratelli Rosselli rimanda invece a un atto premeditato, commesso a freddo,  per così dire un crimine di  pace.  Furono sgozzati  e finiti a colpi di pistola,  una cosa terribile (3).
Quale delle due uccisioni fu più grave?  Difficile dirlo. Probabilmente, i crimini di pace sono i più odiosi. Ma è un giudizio personale. E fermo restando che siamo davanti a due  atti di barbarie. Avvenuti però in situazioni storiche assai diverse. Mai dimenticarlo. Quindi parificarli, scegliendo lo stesso luogo celebrativo è un errore. Perché  non aiuta a capire né ricordare  quanto siano stati rovinosi il fascismo  e l’antifascismo dei partigiani comunisti. 

Carlo Gambescia                

(2) S.G. Pugliese, Carlo Rosselli. Socialista eretico ed esule antifascista (1899-1937), Bollati Boringhieri 2001, p. 212.
(3) Ibid., pp. 210-211.

giovedì 14 settembre 2017

             Chikungunya,  ed è subito emergenza     Democrazia da panico giudiziario


Leggevamo, proprio ieri un ottimo articolo di Jorge Sánchez de Castro  (*), dove si  evidenzia  come la liberal-democrazia, nella fattispecie quella spagnola, ma il fenomeno è anche italiano, sia ormai  nelle mani dei giudici.  Semplificando: il Terzo Potere  avrebbe  sostituito, andando oltre il dettato costituzionale,  i Poteri  Esecutivo e Legislativo,  nel weberiano monopolio legale dell'uso della forza: Rajoy, per intervenire, o comunque  per  favorire qualcosa che gli somigli, in Catalogna, dove è in atto un  gravissimo processo di secessione, sta attendendo  una decisione della Corte Costituzionale sulla natura illegale del referendum indipendentista, indetto dalle autorità catalane. Come  se si trattasse di un conflitto sulle autorizzazioni per le licenze di caccia...    
In altre parole,   mentre  è in gioco l’unità politica,  in  un quadro da pre-guerra civile (tra l’altro, la Spagna ne sa sa qualcosa),   dove Legislativo  ed Esecutivo  dovrebbero congiuntamente dare il via a una immediata repressione -  preferibilmente scalare, ma con ogni mezzo necessario -   si attende, in apparenza seraficamente (solo in apparenza), la decisione dei giudici sulla liceità del referendum indipendentista. 
Per andare dove? Non si sa. Dal momento che, una volta emessa la sentenza, l’intervento dell’Esecutivo  sarà inevitabilmente  condizionato da altre decisioni  giudiziarie in senso contrario, prese da altre corti, gerarchicamente inferiori, sui singoli provvedimenti  relativi all' eventuale uso della forza, anche se autorizzato dal Potere Esecutivo con il placet del Legislativo. Di qui, altri ricorsi, eccetera, eccetera.  Non è facile mettere d'accordo i giudici. Ci sarà sempre un magistrato, che per varie ragioni, si opporrà. Il che, in una situazione di equilibrio tra i poteri, garantisce tutti i cittadini, politici e non. Ma non è questo il caso.      
Si potrebbe tranquillamente  dire  che la Spagna è una democrazia sospesa.  Dove,  una classe politica nazionale,  in preda al panico,  non sa cosa fare, dal momento, che  teme  di finire, per una decisione avventata, nelle maglie  di una giustizia onnipotente. Di qui,  l’ironico titolo dell’articolo di  Jorge Sánchez de Castro: Jueces contra el Pánico”.
E in Italia? Più o meno è la stessa cosa. Inutile qui ricordare i governi caduti per “sfiducia giudiziaria”.  Si pensi, invece,  alla decisione di ieri dell’Istituto Superiore di Sanità, prolungamento scientifico del Ministero della Sanità,  quindi un organo, anche se non in senso formale, dell’Esecutivo (politico). Che cosa si è deciso?   Di introdurre, d'emblée,  su due piedi,  per la città di Roma, il blocco parziale delle  donazioni di sangue. Risultato? Si è subito  innescato  un infernale meccanismo mediatico dell’emergenza, per una presunta malattia infettiva, trasmessa dalla zanzara tigre... E per quale ragione?  Perché, come in Spagna, gli uomini politici -  o comunque "l'aiutantato" politico -   temono  l’intervento “giustiziere” della magistratura: di un Terzo Potere, ormai debordante. E quindi "precorrono" i tempi...
Del resto, il fenomeno è diffuso  anche a livello micro politico. Durante l’estate,  la Regione Lazio , temendo un’inchiesta della magistratura per danno ambientale,  non  ha  minacciato di chiudere i rubinetti del Lago  di Bracciano  che alimentano in forma minima il sistema idrico romano?  Dando vita a  una  inutile  situazione di panico sociale, andata a sommarsi  al panico politico,  che ne era all’origine?
Certo, la situazione spagnola è più grave, c’è una secessione di mezzo.  Ma il meccanismo è identico. I politici temono i giudici,  quindi non decidono.   E quando e se decidono, decidono  in preda al panico da indecisione,  solo   per evitare di essere indagati e  finire nel tritacarne del populismo mediatico che funziona a colpi di intercettazioni  in prima pagina e conferenze stampa delle Procure.
Si chiama democrazia da panico giudiziario. E non porterà nulla di buono. 
Carlo Gambescia

                          


mercoledì 13 settembre 2017

 Riflessioni/Per andare oltre la legge Fiano
Perché si rimpiange il fascismo?



Della Legge Fiano, ieri approvata alla camera, ci siamo già occupati(*). Oggi invece vorremo affrontare un altro aspetto delle propaganda  nazista e fascista, che  questa misura vuole severamente punire. L’interrogativo che proponiamo ai lettori è il seguente: perché, ancora oggi, si rimpiangono Hitler e Mussolini?
Le risposte potrebbero essere le più differenti. Per alcuni, semplicemente,  perché avevano ragione, punto e basta, su tutto: dall’antisemitismo all’anticapitalismo, dall’antiliberalismo al nazionalismo esasperato.  Per altri, perché Italia e Germania, sotto il Duce e il Fuhrer erano paesi ordinati  e potenti. Per altri ancora,  perché fascismo e nazismo  rappresentavano una visione della vita eroica, ma in fondo più semplice.   Per altri ancora, perché la Germania nazista e l’Italia fascista lottavano contro la decadenza morale e dei costumi dell’intero Occidente.
In buona sostanza, coloro che rimpiangono fascismo e nazismo, rimuovono l’ultima parte dell’evoluzione politica dei due regimi, parliamo della guerra disastrosa,  che ovviamente addebitano ai perfidi nemici.  E ne valorizzano le conquiste sociali, per molti storici presunte,  glissando sull’assoluta mancanza di libertà.
In sintesi però,  chi rimpiange il fascismo mostra  di  privilegiare la sicurezza alla libertà. Che me ne faccio del diritto di voto, se non ho nulla sulla  tavola?  Che me ne faccio della libertà di pensiero, se  un rapinatore mi aspetta nascosto dietro’angolo della strada?  Sono queste le tipiche risposte, a livello di nazi-fascismo comune,  non di tipo “intellettuale”,  dei nostalgici di Hitler e Mussolini.  
Cosa dire?  Che l’appello alla sicurezza, in una società che ha fatto del welfare il suo  feticcio "può  funzionare":  ha il suo fascino, soprattutto in tempi di crisi. Naturalmente, la nostra situazione economica e sociale, anche in termini evolutivi, non è quella degli anni  Trenta del Novecento,  né la società di oggi è “militarizzata”, come  allora, però quanto più si diffonde il mito dell’insicurezza tanto più il richiamo di forze eversive che  promettono ordine e protezione, può accrescere la sua attrazione.
Probabilmente, l’errore delle democrazie liberali consiste nell’aver puntato tutto sulla welfarizzazione e poco sulla mercatizzazione della società, privilegiando la cultura della sicurezza a quella del rischio. Per così dire,  si è fatto troppo socialismo preventivo.  Infatti, contrariamente a quel che si sostiene, le nostre, a partire dall’Italia, non sono società di mercato, ma società miste, dove spesso la componente di welfare è molto superiore a quella di mercato.  Di qui, la diffusione, a danno di una cultura del rischio, della cultura della sicurezza, condivisa  - quando si dice il caso -  da tutti i nemici della società aperta (da destra a sinistra): una sicurezza sociale, ad alta intensità,  difficile però da sostenere fiscalmente ed economicamente.  Il che però  spiega  il  gioco al ribasso -   a parole -   di quelle   forze eversive che  promettono tutto a tutti. E che per giunta pretendono di perseguire l'obiettivo, tirando il collo alla gallina dalle uova d'oro: il capitalismo. Una follia. 
Naturalmente, la cultura del rischio ha le sue controindicazioni. Tuttavia,  resta  parte integrante di una società libera. Non se ne può fare a meno.  E  pur con i suoi costi sociali, alti all'inizio,  ha accresciuto, come provano le cifre  sull’evoluzione dell’Occidente, la libertà e il benessere di tutti.  Per contro, la cultura della sicurezza, che, storicamente parlando,  discende da quella del rischio - perché giunta dopo la rivoluzione economica moderna, per redistribuirne i frutti -  ha un suo lato decisamente oscuro, del quale,  si potrebbe tranquillamente fare a meno:  fascismo e nazismo vanno oltre le semplici controindicazioni,  proprio perché attentano alle libertà di tutti. Eppure non vi si riesce... Dov' è l'ostacolo?
Si potrebbe  pensare che l’uomo preferisca la sicurezza alla libertà,   per la serie - diciamo così -   natura contro cultura.  Insomma,  che  il protezionismo "securitario" (semplificando),  sia frutto di una precisa antropologia:  un fatto naturale. E che quindi la società aperta e la cultura del rischio siano solo una parentesi storica, culturale...  Non ha vissuto forse l’uomo per millenni in società chiuse, fin troppo prudenti, al contrario delle  società aperte,  moderne,  amanti  del rischio?
Qui si apre un' ultima questione, inquietante per chiunque ami la libertà, la tolleranza e la forza della ragione: se fascismo e nazismo, sono natura, basterà la cultura, quindi leggi come quella proposta dall’Onorevole Fiano,   per batterli?  Definitivamente? 
Carlo Gambescia

                                                

  

martedì 12 settembre 2017


Riletture/ Il libro sempre attuale di Chantal Delsol
Il totalitarismo  del "tutto è  possibile"

di Teodoro Klitsche de la Grange


http://www.liberilibri.it/chantal-delsol/155-elogio-della-singolarita.html

Il  lungo studio di Chantal Delsol, Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva, (Liberilibri),  a distanza di qualche anno dalla pubblicazione in Italia, uscì nel 2010,  ottiene ulteriori conferme delle analisi svolte.
Il punto da cui parte l’autore è che “Il totalitarismo, di qualunque obbedienza sia, fa la sua comparsa quando cominciamo a credere che “tutto è possibile”” tuttavia “Rifiutare il “tutto è possibile”, farne la pietra angolare degli errori del secolo significava, è stato detto, equiparare il terrore all’utopia; significava collocare le perversità dell’annientamento dell’uomo sulla stessa scia degli ideali di una nuova strutturazione della natura umana. Numerosi decenni di perseverante riflessione, tuttavia, hanno finalmente reso possibile dichiarare apertamente che il concetto del “tutto è possibile” rappresenta la nascita del XX secolo”. Al di là di come “tutto è possibile” è stato inteso nei grandi totalitarismi del XX secolo, questo topas della modernità (o della di essa parte più caratterizzante) è stato declinato in due sensi. Il primo che non vi sono regole vincolanti, se non quelle che da la politica. E’ la prevalenza della volontà politica (quindi umana) su ogni norma, anche di natura/origine trascendente: la fine del diritto naturale, dei vincoli morali, il trionfo della sovranità nelle sue forme più radicali (la dittatura sovrana). E’ quello che sintetizzava Dostojevski con la frase “se non c’è Dio, tutto è permesso” o già Sofocle nel “discorso della corona” di Creonte nell’Antigone (anche se più “moderato”). Quanto al secondo che non vi sono regole, neppure le leggi naturali, di fronte alla capacità prometeica dell’uomo di poterle cambiare o controllare. Con ciò l’uomo pone se stesso al centro non solo del mondo istituzionale/normativo, ma dello stesso mondo. Innovando il concetto di sovranità “classica” espresso da Spinoza, Thomasius, Kant (tra gli altri), per cui l’uomo (il sovrano) poteva mutare tutte le regole, ma non le leggi naturali. Invece la modernità, proprio nel marxismo (realizzato) ha espresso una visione del mondo fondata sulla convinzione che è possibile cambiare la natura umana, cambiando i rapporti di produzione.
Sarebbe questa la soluzione “dell’enigma irrisolto della storia”, la quale porterebbe all’edificazione della società comunista (senza classi) connotata dall’assenza di tutti i presupposti del politico (Freund). Una società senza comando/obbedienza, nemico/amico, privato/pubblico. E di cui non si è vista l’ombra: il comunismo è morto nella transizione tra il vecchio ordine distrutto e quello vagheggiato, impantanato nelle “regolarità” del politico, che credeva superabili (e modificabili).
Tuttavia il “tutto è possibile” continua a connotare il post-comunismo, Certo manca la violenza, connaturale ai totalitarismi “Nel “tutto è possibile” del totalitarismo, che era costretto a fare ricorso alla violenza, noi crediamo che sia soltanto il ricorso alla violenza a essere pericoloso. Dovremmo quindi realizzare questo “tutto è possibile” con altri mezzi. La modernità tardiva crede ancora che noi possiamo fare quel che vogliamo dell’uomo, ma a condizione che questo avvenga nella libertà: la stessa ideologia è sempre all’opera anche se in forma diversa”, la certezza del “tutto è possibile” è così condivisa dai totalitarismi “e dalle democrazie della modernità tardiva, perché essa trae la propria origine dalla religione del progresso, che ha generato sia gli uni che le altre”. Per Fukuyama, la cui brillante interpretazione del crollo del comunismo implicava anche la negazione delle “regolarità” del politico, almeno di quella amico/nemico “«la biotecnologia sarà capace di effettuare ciò che le ideologie del passato hanno maldestramente tentato di realizzare: dare vita ad un nuovo essere umano». Questa “ri-naturazione” passerà attraverso la genetica e la farmacopea”. Così l’immensa speranza nutrita dalla modernità di determinare l’avvento di una società perfetta, di un uomo puro, vuoi attraverso le ideologie totalitarie al potere, vuoi attraverso il progresso ininterrotto, faceva si che l’incompiutezza dell’uomo venisse considerata come una tara …. In questo modo la scomparsa delle ideologie ha lasciato intatte le loro fondamenta, ovvero il primato delle idee sulla realtà e quella forma mentis particolare che si ostina a screditare l’essere a vantaggio di un “bene” disincarnato”. La volontà di potenza, trasferita dalla politica alla biologia, o meglio a una politica “biologica”, non elimina il nichilismo, e soprattutto somiglia assai al “Mondo nuovo” di Huxley.
Scriveva circa un secolo fa Hauriou che le fasi di decadenza delle società umane sono caratterizzate dal prevalere del denaro e dello spirito critico: oggi si direbbe dell’economia e del relativismo. Anche la tarda modernità è dominata dal primato dell’economia. Ma tale primato “del denaro inteso come valore rappresenta la conseguenza logica, ancorchè pregiudizievole, della derisione dei valori spirituali”, scrive la Delsol.
E’ perché quelli sono decaduti che il denaro appare decisivo, anche se tale decisività è più apparente che reale, e se ne vedono già limiti ed usura. Quanto al relativismo non sfugge alla regolarità del politico “il relativismo della modernità tardiva non lascia presagire un futuro caratterizzato dalla tolleranza, ma piuttosto la sostituzione della motivazione del conflitto. Con la scomparsa delle certezze, le lotte e le oppressioni non si verificheranno più nel nome di verità di rappresentazione, ma nel nome di verità di essere”.
Il relativismo, ha contribuito al depotenziamento di dottrine, ideologie, religioni e messaggi universali “Ha eliminato un certo tipo di guerre combattute sotto lo stendardo di messaggi universali, ma così facendo ha contemporaneamente permesso che sul campo lasciato libero si sviluppassero conflitti nazionalistici o etnici. Il fanatismo ha trovato nuove giustificazioni”. E con ciò è stato piegato anch’esso alle regolarità del politico.
Nel complesso un libro più che interessante; scritto alla fine del secolo scorso è stato “convalidato” dal tempo trascorso.
Teodoro Klitsche de la Grange



Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).

lunedì 11 settembre 2017

Arma dei Carabinieri (*)
Nucleo di Polizia Giudiziaria di [omissis]
VERBALE DI INTERCETTAZIONE DI CONVERSAZIONI O COMUNICAZIONI
(ex artt. 266,267 e 268 C.P.P.)
L'anno 2017, lunedì 11 settembre, in [omissis] presso la sala ascolto sita al 6o piano
della locale Procura della Repubblica, viene redatto il presente atto.
VERBALIZZANTE
M.O Osvaldo Spengler
FATTO

Nel corso dell'attività tecnica di monitoraggio svolta nell'ambito della procedura riservata n. 145/5, autorizzazione COPASIR 501/3 [Operazione “ARMA VIRUMQUE” , N.d.V.] è stata registrata in data 10/09/2017, ore 8,45 la seguente conversazione tra le utenze di Stato 321***, in uso a S.E. il Ministro della Difesa  ALBERTA PINETTI,  e 342***, in uso al Comandante Generale Arma dei Carabinieri Gen. PIERO SETTANTASETTE. Si riporta di seguito la trascrizione integrale della registrazione suindicata.


S.E. ALBERTA PINETTI: “Generale, Lei già immagina perché La chiamo.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Naturalmente, signora Ministro. I fatti incresciosi di Firenze.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Quindi?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Quindi può star certa che la punizione sarà esemplare.””
S.E. ALBERTA PINETTI: “Esemplare come?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE [pausa]: “Esemplare, signora Ministro. Sospensione, indagine interna…anzitutto c’è l’abbandono di posto, già accertato…poi se le indagini della magistratura proveranno…”
S.E. ALBERTA PINETTI: “No, scusi, generale: qui di esemplare non vedo proprio nulla.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Scusi Lei, signora Ministro, ma non La seguo.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Signor generale. Do per scontato che la Sua prima preoccupazione sia la tutela del buon nome dell’Arma. Mi sbaglio?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Certo, è così. Per due mele marce, non si può…”
S.E. ALBERTA PINETTI: “…ecco. Per due mele marce non si può e non si deve dubitare dell’Arma. Ma allora, deve risultare chiaro a tutti che i due colpevoli dello stupro di Firenze sono mele marce, e non rappresentano l’Arma.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Mi permetta, signor Ministro: che siano colpevoli dello stupro non è ancora accertato. Uno non parla, l’altro sostiene trattarsi di rapporto consensuale. La magistratura…”
S.E. ALBERTA PINETTI: “…la magistratura indagherà, certo. Ma intanto qui li stiamo proteggendo.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Mi perdoni, non capisco.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Perché non sono stati diffusi i nomi dei colpevoli?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Non vedo come la diffusione dei nomi degli indagati potrebbe favorire l’accertamento delle responsabilità, signora Ministro.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Ma Lei certo vede che l’opinione pubblica si interroga se non stiamo applicando due pesi e due misure. Degli stupratori di Rimini, perché migranti, si è saputo tutto e subito. Degli stupratori di Firenze, perché carabinieri, non si sa nulla.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE [pausa]: “La comunicazione ai media di dati coperti da segreto istruttorio nel caso di Rimini non dipende da noi, signora Ministro.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “E la mancata comunicazione di dati coperti da segreto istruttorio nel caso di Firenze da chi dipende, signor generale? ”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Questo non posso saperlo, signora Ministro.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Le propongo un’ipotesi. E se dipendesse dalla moral suasion dell’Arma? I media hanno interesse a mantenere un rapporto di fiducia con l’Arma, che sa tante cose.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: [pausa]: “Io penso, signora Ministro, che tutti hanno interesse a mantenere un rapporto di fiducia con l’Arma, in particolare il Governo.”
S.E. ALBERTA PINETTI [pausa]: “Su questo non posso che concordare. Però…”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “…però?”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Però Lei sa che a volte, ahimè troppo spesso, non è possibile evitare la diffusione di dati coperti da segreto istruttorio.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Fenomeno deprecabile.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Senz’altro, ma frequente. Se si ripetesse nel caso di Firenze, a chi addossarne la responsabilità? Non certo all’Arma.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Certo. Nemmeno al Governo, del resto.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Infatti.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Certo, se si pensa alle famiglie…”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Delle due vittime statunitensi?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Delle due vittime, certo. Ma anche dei due indagati, signora Ministro.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “La famiglia è importante, ma per un servitore dello Stato viene dopo il dovere, e dopo l’interesse superiore dello Stato. Non crede?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Senz’altro.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Allora siamo d’accordo?”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Senza il minimo dubbio.”
S.E. ALBERTA PINETTI: “Bene. Dunque sarà fatta chiarezza.”
Gen. PIERO SETTANTASETTE: “Chiarezza esemplare, signora Ministro.”

Letto, confermato e sottoscritto
L’UFFICIALE DI P.G.
M.Osvaldo Spengler

(*) "Trattasi" -   tanto per non cambiare stile,  quello  della  Benemerita...  -   di ricostruzioni che sono  frutto della mia  fantasia di  autore e commediografo.  Qualsiasi riferimento  a fatti o persone  reali  deve ritenersi puramente casuale. (Roberto Buffagni)

Chi è il  Maresciallo Osvaldo Spengler?  Nato a Guardiagrele (CH) il 29 maggio 1948 da famiglia di antiche origini sassoni (carbonai di Blankenburg am Harz emigrati nelle foreste abruzzesi per sfuggire agli orrori della Guerra dei Trent’anni), manifestò sin dall’infanzia intelletto vivace e carattere riservato, forse un po’ rigido, chiuso, pessimista. Il padre, impiegato postale, lo avviò agli studi ginnasiali, nella speranza che Osvaldo conseguisse, primo della sua famiglia, la laurea di dottore in legge. Ma pur frequentando con profitto il Liceo Classico di Chieti “Asinio Pollione”, al conseguimento della maturità con il voto di 60/60, Osvaldo si rifiutò recisamente di proseguire gli studi, e si arruolò invece, con delusione e sgomento della famiglia, nell’Arma dei Carabinieri. Unica ragione da lui addotta: “Non mi piace far chiacchiere .” (Com’è noto, il carabiniere è “uso a obbedir tacendo”). Mise a frutto le sue doti di acuto osservatore dell’uomo in alcune indagini rimaste celebri (una per tutte: l’arresto dell’inafferrabile Pino Lenticchi, “il Bel Mitraglia”). Coinvolto nelle indagini su “Tangentopoli”, perseguì con cocciutaggine una linea d’indagine personalissima ed eterodossa che lo mise in contrasto con i magistrati inquirenti. Invitato a chiedere il trasferimento ad altra mansione, sorprese i superiori proponendosi per la sala ascolto della Procura di ***. Richiesto del perché, rispose testualmente: “Almeno qui le chiacchiere le fanno gli altri.”
***

Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...


domenica 10 settembre 2017

   Treccani,  Machiavelli, Berlusconi e Fabio Brotto...  
   Coraggio, un approccio sociologico


Con Fabio Brotto ci si frequenta da anni sui Social. Già professore di Liceo dalla vasta cultura, alla quale unisce  grandi capaci  intuitive e argomentative,  frutto di  immense letture in varie lingue, e cosa più importante, ben metabolizzate. 
Pertanto, ieri  ho subito   accolto e rilanciato, sulla mia pagina Fb il suo post sul "Coraggio".

CORAGGIO INTELLETTUALE. Perché il coraggio intellettuale è così raro? E perché così infrequente è il coraggio degli intellettuali? In questo ceto prevalgono di gran lunga il conformismo, lo spirito di gregge e la codardia. Questa mattina, leggendo un post dell'amico Carlo Gambescia, mi è venuto in mente questo pensiero: Se ne avessi il tempo e la forza, mi diletterei a scrivere un trattatello "Del coraggio fisico e di quello intellettuale". Poiché in tutta la mia vita ho constatato il primo essere molto più abbondante e diffuso del secondo. Troverai molti più uomini pronti a battersi contro la polizia in assetto di guerra che membri del ceto intellettuale pronti ad affrontare apertamente uno scontro col proprio superiore, o con chiunque essi avvertano come in grado di nuocer loro. Perché tanti tra insegnanti, e cattedratici vari siano affetti da codardia congenita, non lo so. So però che Platone sosteneva giustamente che la vigliaccheria è generatrice di ogni altro vizio.
E certo il mondo è pieno di persone che hanno paura delle ombre, e nella loro mente danno sostanza alle cose che non sono, e le temono. E non temono invece ciò che è reale, realissimo, che è dentro di loro e corrode il loro spirito e la loro mente.    (Fabio Brotto)

Va subito  precisato che il suo post prendeva spunto  da  un mio articolo sul “calcione” sferrato  a un Berlusconi, già  politicamente morente, da  un’istituzione prestigiosa come Treccani, contribuendo a   trasformare  una  celebrazione di Machiavelli  nell’ ennesimo atto dovuto di anti-berlusconismo (*) . Dispiace dirlo, ma le cose stanno così.      
Al posto di Alessandro Campi, che  ha curato mostra e catalogo,  ci saremmo subito dimessi. Altro che figurare nel comitato scientifico  di un’ operazione, per altri aspetti senz'altro meritoria, che però - ripetiamo - ha dovuto pagare la sua libbra di carne  all’istituzionalizzazione della caccia al Cavaliere. Del resto, per dirla con Manzoni,  “il coraggio, uno se non ce l’ha, mica se lo può dare”: la carne è debole, insomma.
E qui veniamo al post di Fabio Brotto.  Che abbiamo  letto e  apprezzato.  Tuttavia,  il sociologo non può non  muovere da premesse diverse. Quali?  Deve ragionare  del coraggio, non in quanto tale, se si vuole filosoficamente, bensì come fenomeno, per l’appunto  sociologico,  contestualizzandolo  all’ interno della  società di massa.  La chiave è la conformazione sociale ("di massa") non quella economica (come invece  riteneva, errando,  Bourdieu: la società sovietica, altrettanto "di massa", aveva gli stessi problemi della nostra, ma amplificati dallo strapotere del partito unico). Parliamo di  un sistema sociale caratterizzato da fenomeni mimetici e di emulazione collettiva.   Dove si privilegiano, sul piano della deferenza e della mobilità sociali, altri valori: dall’umanitarismo al pacifismo. Parliamo, per giunta,  di  una società fortemente burocratizzata e  segnata  da dinamiche conflittuali, politicamente sublimate, legate però  a contrasti, altrettanto neutralizzati, tra gruppi di pressione,  politici, economici, culturali  e sociali,  vincolati  però, a loro volta, a  forme condizionali di fedeltà,  frutto di accordi pubblici e privati, anche taciti, fonti, rispettivamente, di  burocrazie effettive e dell’anima. Insomma, non c'è la guerra sociale, in senso tradizionale, ma molto fumo,  e tossico.         
Nel suo insieme, anche solo per autodifesa,  con ricadute però nella psicologia collettiva, la società incoraggia -  oggettivamente -  nella migliore ipotesi il quietismo, nella peggiore il conformismo. Sicché il coraggio, non viene assolutamente favorito  socialmente,  né  sul piano fisico, né su quello intellettuale,   se non quando -  attenzione -   lo si  collega  a valori come il pacifismo e  l’umanitarismo, oppure lo si emargina   nell'ambito delle attività  sportive, ludiche, ricreative (anche estreme).  
In questo senso, per dirla con Fabio Brotto,  il coraggio, anche sociologicamente parlando, è l'ombra di se stesso. Oggi, l ’uomo coraggioso è colui che si sacrifica per gli altri. L’atto è totalmente sganciato dal valore militare,  per non parlare dello spirito guerriero.  Si pensi, ad esempio,  alla metamorfosi morale subita  dagli eserciti,  trasformati in strumenti di pace e  assistenza alle popolazioni (ovviamente, poi la verità si vendica, ma questa è un’altra storia…). Ecco  tutto ciò  che resta  della morale post-cristiana e post-socialista: una società,  non più all'ombra delle spade, ma dei cerotti,  che, al  massimo,  valorizza, anche in chiave post-liberale (purtroppo), la welfarizzazione del coraggio.  Il che però  non significa  che si debba celebrare la società guerriera, anche perché, considerate le premesse strutturali,  non potremmo non trovarci dinanzi  la medesima società di massa, ma militarizzata.  
Pertanto,  dovrebbe  ora risultare chiaro, che all’interno di una struttura burocratica come Treccani, collegata per  l’occasione  a un mondo altrettanto burocratico come l’Università,  in un contesto di conflitto accanito per le risorse (materiali e immateriali, dai finanziamenti alle prestigiose direzioni culturali), prevalga il conformismo, come regola dell'obbedienza weberiana,  verso le logiche  politico-culturali dominanti, presentate come astratte e razionali.  Siamo dinanzi alle   logiche iterative di una specie di welfare della deferenza.  Di qui, come  omaggio dovuto  ai potenti, che redistribuiscono pani e  pesci,  la “pedata” a Berlusconi.
Gli stessi attori sociali ( i professori burocratizzati e i burocrati "professoralizzati"),  qualora cambiasse la logica politico-culturale dominante,  sarebbero  ben  disposti  a vezzeggiare il redivivo Silvio  Berlusconi. Come impone il welfare della deferenza.  E la riprova, umanissima riprova,  di questo atteggiamento,  che l’amico Roberto Buffagni, buon lettore di Manzoni, ha definito  del “Servo Encomio & del Codardo Oltraggio", è nel fatto che la stragrande maggioranza dei  miei tremilacinquecento “amici” di Fb,  molti dei quali  a conoscenza di fatti e misfatti,  si sono ben guardati, dall’intervenire o rilanciare.  Perché? Mai esporsi.  “Tengono famiglia”.  E quello che dicono in privato, si guardano bene dal riaffermarlo in pubblico.  
Del resto, la società non incoraggia…  La carne è debole… Berlusconi, politicamente,  mezzo morto… Avanti il prossimo.
                Carlo Gambescia



venerdì 8 settembre 2017


  Per la serie (manzoniana),  "Servo Encomio & Codardo Oltraggio"
   Un calcione a Berlusconi non si rifiuta mai... 



In questi giorni sto lavorando alla  cura di  un volume,  per ora top secret,  e  nel leggere  varie cose, mi sono ritrovato tra le mani, il catalogo, uscito nel 2013,  della mostra romana dedicata a Machiavelli. Per essere precisi: “Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013” (Roma, Complesso del Vittoriamo, Salone centrale, 25 aprile-16 giugno).  
Un sontuoso tomo di circa cinquecento  pagine, edito da  Treccani, curato, come la mostra, da Alessandro Campi, che gode  dell’ Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana (tutto con la maiuscola),  nonché  di partnership economiche e scientifiche apicali (per dirla in burocratese): dall’Eni a Gennaro Sasso, studioso del  Machiavelli  di  spessore internazionale.
Pertanto,  siamo dinanzi a  una lettura interessante e assai  godibile nella parte illustrativa. Senonché, come abitudine italiana  - Machiavelli ne sapeva qualcosa -  tra  tanti dottissimi saggi,  nella sezione “Il Principe oggi",   ne spicca uno (si fa per dire) di un giornalista politico di “Repubblica”,  Filippo Ceccarelli, Mussolini, Craxi, Berlusconi. Il Principe e lo specchio del potere.  Dove si regolano i conti,  come si evince dal titolo,  con tre illustri morti: due veri, uno non ancora, ma malconcio,  mai piaciuti alla cultura di sinistra,  quella, per la cronaca,   che dice di sapere cosa sia esattamente bene per ogni singolo italiano.  
Mussolini, Craxi e Berlusconi, come è noto, hanno scritto direttamente o indirettamente sul  Principe di Machiavelli. Il Duce  si doveva laureare (ad honorem), sul Segretario, brindando all’uso della forza in politica, ma  non se ne fece nulla  e finì appeso come un qualsiasi principotto nemico di Cesare Borgia, detto il Valentino.  Craxi invece sognava di  polverizzare  il Pci berlingueriano, presentandosi come Nuovo Principe, e invece nel 1992 fu il Pci, via giudici, a ridurlo in polvere, anche fisicamente, neppure di stelle. E non in quel di "Sinigaglia" ma di Hammamet.  Berlusconi,  molto più semplicemente, si accostò a Machiavelli,  per  darsi una ripulita intellettuale, come  il  borghese di Molière,  prima di scendere in campo. E mal gliene incolse. Avrebbe dovuto ascoltare i consigli dell'altro Segretario, non della Repubblica Fiorentina, ma di quella domiciliata in Via del Corso, come Direzione del PSC: Partito Socialista Craxiano.
Dei tre, l’unico ancora vivo, sebbene politicamente malconcio,  resta il Cavaliere, anzi restava, perché il Catalogo uscì nel 2013, anno di elezioni, si votò in febbraio, e Berlusconi andava tenuto a cuccia. Di qui, evidentemente, l’idea di continuare  a  smerdarlo (pardon),  magari  "accademicamente", per aiutare la baracca anti-decisionista (non che Berlusconi, poi, decidesse più di tanto...). E così accreditarsi verso chi si apprestava a vincere: il Pd.  Poi le cose andarono diversamente. Ma questa è un'altra storia...  
I professori però,  si sa,   sono perfidi, perché demandano il lavoro sporco agli assistenti, ai   ragazzetti di bottega... Ecco le conclusioni di Ceccarelli sul “capintesta” Berlusconi, così viene bollato il Cavaliere, in perfetta  linea con  l'aurea  vulgata  di Saviano.      

«E seppure è vano tirare bilanci sull’attualità e tanto più  in questa sede, è anche vero che tra gloria e successi, sconfitte e processi, fallimenti e scandali di ogni variopinto genere, la vicenda berlusconiana sembra essersi accesa e consumata proprio intorno alla fama e all’altrui considerazione, per non dire intorno all’attenta, ma anche alla mancata, cura dell’immagine dell’imprenditore, del leader, del presidente, oltre che dell’uomo. Ma al giorno d’oggi è come se il potere se ne andasse a picco o in fumo o alla malora in un clima perturbante di ridanciana euforia, come dinanzi a un cataclisma lungamente annunciato da cafoni, buffoni, luminarie, coriandoli e cenere.» (p. 330)

Puro stile “Repubblica”, di Scalfari e successori,  con l’Alto Patrocinio, della “Repubblica”, quella vera, di Napolitano. Che all'epoca contava.   Una vera nota stonata, politicamente stonata, per così  dire,  tra “orchestrali” di  altissimo livello.   Inoltre -  quando si dice il caso… -   per leggere il  saggio di Ceccarelli  non è necessario comprare il Catalogo,  basta   andare sul sito Treccani dedicato a “Machiavelli e il suo tempo”, dove lo si trova, solo soletto, o quasi, come prolungamento Internet della mostra e  dell’antiberlusconismo, gratis e di massa, o quasi,  via Scalfari  (*). Con due clic si adotta un antiberlusconiano.  
Insomma,  un calcio  al Cavaliere,   non si rifiuta mai.    Soprattutto,  se aiuta a farsi accettare nei salotti buoni delle due “Repubbliche”.  Non è vero Alessandro Campi?

Carlo Gambescia                                                  



giovedì 7 settembre 2017

L'infelice  titolo del “Tempo”
La voce di Razzistopoli



Per dirla con una celebre canzone di Bobby Solo: “Non c’è più niente da fare”. Un grande quotidiano della capitale, come  “Il Tempo”,  dalle illustri tradizionali liberali,   è nelle mani dei razzisti.  E pure dei fascisti?  Non si può dire con certezza.  Sembra  che il suo direttore tenga in bella mostra, nel suo studio domestico, un busto di Mussolini. Ma sono solo voci.  Quindi, come si dice nei film giudiziari americani,  la giuria -  i lettori -   non ne tengano conto. Anzi,   mi scuso  subito con i vertici del giornale romano, perché una leggenda metropolitana, come questa, non doveva assolutamente scapparmi dalla penna…  Nessuno è perfetto.
Invece, a dire il vero,  il titolo di ieri non mi era sfuggito.  Però  ho subito pensato:  qui è come sparare sulla croce rossa, anzi su una specie  di "Alabama Sentinel" italiano.  Magari, mi sono detto, ci torno su domani. E ora eccomi qui. 
Parliamo di un titolo,  l’ ultimo di una serie, dove sbrigativamente, a proposito della morte della bimba per malaria,  si  evoca, andando ben oltre il caso specifico, il fantasma collettivo dell’immigrato, portatore di malattie  contagiose e  pericolose.  Senza alcuna prova,  salvo la classica circolare scaricabarile del Ministero della Salute, dove  i burocrati  “scoprono” e "avvisano" che in alcuni paesi di provenienza degli immigrati extracomunitari allignano malattie come la malaria.  
Eventualmente,  ammesso e non concesso che  "Il Tempo" avesse avuto fin da ieri informazioni precise sul caso,  la colpa della morte della bimba,  non doveva  essere  imputata agli  immigrati, bensì  alle autorità di polizia e mediche per gravi carenze nella vigilanza. Di conseguenza,  il titolo  giusto, magari polemico, se si vuole di destra ma non razzista,  poteva essere: “Una bimba muore di malaria.  Dove erano i controlli?" Oppure,  "Dove erano i  medici e  la polizia?”.  
Addossare la colpa  all’ “immigrato collettivo”,  nuova versione del capro espiatorio girardiano, significa solo alimentare, in modo irresponsabile,  un clima  di odio e di potenziale guerra civile: una specie di Razzistopoli. Per riprendere quei giochi di parole che piacciono tanto al direttore del "Tempo".
Qui vorrei portare  una  testimonianza personale  su quanto siano fragili le persone e pericolosi certi  stereotipi e  messaggi.   Dove  abito,  ci sono dei Bed & Breakfast, i turisti perciò  vanno e vengono, talvolta schiamazzano. Alcuni condomini hanno installato telecamere.  Giorni fa un mio vicino mi ha suonato e mostrato, sul video del suo cellulare, alcune riprese: vi si vedeva un uomo, uno sconosciuto,  che nottetempo,  si aggirava a piedi scalzi  per le  scale con aria stupita, guardandosi intorno e digitando, al tempo stesso,  sulla tastiera del telefonino.
Il vicino, un tipo  atletico, quindi fisicamente sovrastante,  di buona famiglia,  al mio modesto dire che forse si trattava di un turista, che la sera prima, in compagnia di altri, aveva rumoreggiato in cortile, mi fa notare, con uno sguardo  che non ammette repliche, che l’aspetto dello sconosciuto era   quello di un europeo dell’Est.  E che poi, "prova della prove", era a piedi scalzi, per giunta alle quattro di notte,  ergo,  ci trovavamo dinanzi al classico topo d’appartamento dal cognome con desinenza in escu. A fronte di tanta sicumera, ho ceduto:  ecco gli effetti devastanti della “pressione sociale”  ( immigrato dell’Est  uguale ladro +  paura di essere derubati). Sicché,  dopo aver ringraziato il vicino, pure calorosamente,   ho subito avvisato mia moglie di stare con gli occhi  aperti,  perché, eccetera, eccetera.
Il giorno dopo il portinaio, mi  ha svelato che lo sconosciuto era   un turista neozelandese con giovane famiglia al seguito, che non riusciva a ritrovare il  portoncino  della sua temporanea abitazione romana. Forse a causa di  qualche bicchiere di troppo. Forse.
Ora, se un  sociologo, non riesce  resistere alla pressione sociale, che pure studia e conosce, figurarsi il famigerato “uomo della strada”, non necessariamente un sottoproletario (un "bianco povero", come si dice negli Usa). Tradotto: ci vuole poco a scatenare, soprattutto  a livello di folla, la logica del linciaggio, dell’impiccalo più in alto, della caccia all’uomo.  Frutto  di antropizzazioni sbagliate di matrice etnocentrica, per dirla dottamente.
Ecco perché, tanto per essere chiari, titoli da Razzistopoli,  come quelli del “Tempo”, sono fuorvianti e pericolosi,  fanno crescere una pressione sociale che va ad alimentare  solo  paura  e odio.

Carlo Gambescia