lunedì 6 ottobre 2025

Fascismo soft alla Casa Bianca? Trump militarizza le città democratiche

 


Trump dispiega truppe nelle città politicamente avverse. La cosa suona come il titolo di un romanzo distopico? Sogniamo o siamo desti?

Purtroppo è cronaca. Negli ultimi giorni la Casa Bianca ha ordinato lo spostamento di unità della Guardia Nazionale verso metropoli governate dai democratici. E ora che un giudice ha temporaneamente bloccato il trasferimento di forze verso Portland, che secondo Trump “sarebbe devastata dalla guerra”, l’amministrazione sta cercando di aggirare lo stop puntando sulla rimodulazione dell’operazione. Senza per questo cambiarne la sostanza.

Si tratta di un brutto scenario che deve far riflettere, non tanto per il bisogno di ordine — se mai ce n’è stato uno plausibile — quanto per il messaggio che accompagna ogni camion militare: «Lo Stato sono io», cioè il Presidente Trump. Non suona forse come una forma di assolutismo politico? E che cos’è l’assolutismo politico, se non una delle tante svergognate manifestazioni di un redivivo spirito fascista?

Si dirà che non è la prima volta che ciò accade negli Stati Uniti. Certo. Qui è legittimo ricordare alcuni (apparenti) precedenti, sempre a proposito di ordini esecutivi: nel 1957 Eisenhower federalizzò la Guardia Nazionale dell’Arkansas per far rispettare una sentenza della Corte Suprema e proteggere i «Little Rock Nine» (nove studenti afroamericani che, nel 1957, tentarono di iscriversi alla Central High School di Little Rock, sfidando la segregazione scolastica imposta dallo Stato). Lì la forza federale fu impiegata per difendere i diritti civili di cittadini minacciati dall’autorità locale: uno scopo costituzionalmente nobile e non negoziabile.

Nel 1965 Lyndon B. Johnson chiamò a raccolta poteri federali per permettere la marcia da Selma a Montgomery: ancora una volta, l’intervento aveva lo scopo di proteggere il diritto di voto e la supremazia della legge federale sul potere locale ostile. Se vogliamo parlare di storia americana, questi sono i casi che di solito si citano, ma vanno citati con cautela. Perché la forza statale stava correggendo un torto istituzionale, non imponendo una violenta retorica politica.



Certo, l’America ha avuto pagine più grigie: nel XIX secolo i presidenti mandarono truppe per sedare scioperi — come Hayes durante la Great Railroad Strike del 1877 o Cleveland nella Pullman Strike del 1894 — ma anche per imporre l’ordine nel Sud durante la "Reconstruction", quando Grant dovette usare l’esercito per contenere il Ku Klux Klan e garantire il voto agli ex schiavi. Jackson, il presidente protopopulista, non amava molto i giudici indipendenti, ma comunque resto nei ranghi della Costituzione. In altri casi, come nelle guerre contro le rivolte dei nativi, la forza federale fu strumento di conquista interna più che di giustizia. Tutti episodi che appartengono a un tempo in cui lo Stato Federale era in “costruzione” e la democrazia istituzionale faticava a gestire freni e i contrappesi offerti dalla Costituzione americana.

E allora perché ciò che ora avviene deve inquietare più del solito? Per due ragioni: la prima è sostanziale e politica, qui la forza non viene invocata per proteggere cittadini minacciati, bensì per reprimere dissenso in città democratiche, politicamente «scomode»; la seconda è istituzionale, negli ultimi anni proprio Trump ha capeggiato espliciti tentativi di delegittimare i risultati elettorali, prima fomentando la piazza, dopo “bonificando”, come sta accadendo, gli apparati dello Stato.

In un simile quadro, anche un uso formalmente legittimo di strumenti giuridici — come l’Insurrection Act o l’autorità presidenziale di federalizzare la Guardia Nazionale — si carica di un significato politico che travalica la norma. La legalità diventa strumento di pressione, e la forza pubblica, anziché presidiare l’ordine costituzionale, viene piegata a rappresentarlo in modo intimidatorio.

 


Questo non significa che la risposta debba essere la guerra civile. Anzi: proprio perché la posta è altissima, le contromosse devono restare nel campo della legge e della responsabilità istituzionale: ricorsi giudiziari, inchieste parlamentari, denunce pubbliche, formazione di una coalizione civica forte, responsabilità penale dove sussistano reati, e soprattutto un voto consapevole. Se la democrazia ha un antidoto, è la combinazione sinergica di istituzioni forti e un’opinione pubblica che non svende la verità per comodo partito.

Detto altrimenti: l’uso della Guardia Nazionale come strumento di esibizione del comando politico è una novità nella forma e una caricatura nello spirito. La storia americana offre al massimo echi, mai precedenti reali. Chi oggi invoca Little Rock come giustificazione compie un’operazione di maquillage retorico: confonde la difesa dei diritti con la messinscena dell’ordine.

In realtà, nessun presidente — né Johnson, né Eisenhower, né Grant — aveva mai usato la forza federale contro autorità democraticamente elette, per piegarle politicamente. È una rottura profonda, che mina il principio stesso del federalismo americano.

La liberal-democrazia, si sa, non sopporta, e non ha mai sopportato, la confusione tra governo e messaggio: quando lo Stato assume un aspetto muscolare, la Costituzione rischia di essere cancellata.

La domanda che resta è amara: basterà una sconfitta elettorale per rimettere tutto a posto?

 


Forse, ma non automaticamente. Perché un uomo come Trump che tratta la legalità come un apparato scenografico non scompare con un voto: lascia uno stile, un linguaggio, una tentazione. Cioè una struttura politica e culturale. E delle peggiori. Come del resto si può rilevare dalla natura dei suoi collaboratori, a partire del Vicepresidente Vance.

Perciò resta difficile formulare previsioni.

Comunque sia, al momento la vera resistenza democratica non si misura nelle piazze, ma nella tenuta delle istituzioni: magistratura autonoma, forze dell’ordine fedeli alla legge, stampa vigile, società civile sveglia.

Ovviamente, dal punto di vista intellettuale, il primo passo è di riconoscere il pericolo: chiamarlo per nome, senza sconti, e ricordare che l’ironia pubblica, la verità documentata e la pressione istituzionale restano le armi più temibili contro chi sogna di governare con la paura.

Trump non sta semplicemente forzando la legge: sta tentando di riscrivere il significato stesso di potere federale. E questo — nella lunga storia americana — non era mai accaduto.

Si dice che chiunque evochi il pericolo fascista cada nell’esagerazione. Ma che termine usare per un tentativo di distruzione della tradizione politica americana, liberale e democratica, se non quello di fascismo? Certo, non ci sono le camicie nere o brune. Però, nonostante ciò, potremmo parlare di una specie di fascismo soft, sottile, mascherato di legalità. Per ora.

Quel che invece è sicuro è che c’è già un duce, o aspirante tale: Donald Trump.

Carlo Gambescia

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