Ieri si parlava tra amici del ritorno in politica della triade “Dio, Patria e Famiglia”. A destra, ovviamente.
Sono emerse tesi differenti, alcune addirittura favorevoli al recupero del trinomio.
Cosa aggiungere? Che, purtroppo, ogni volta che qualcuno torna a evocare “Dio, Patria e Famiglia”, un brivido attraversa non solo la nostra schiena ma quella cosa che si chiama la storia.
Suona l’allarme rosso, anzi nero. Perché queste tre parole, apparentemente innocue, portano con sé due secoli di retorica conservatrice, di obbedienza, di potere travestito da virtù.
L’origine della formula è più antica di quanto si pensi. Non nasce con Mussolini, ma nell’Ottocento cattolico e nazionalista. La Francia controrivoluzionaria parla già di “Dieu, Patrie, Famille” per opporsi al trinomio repubblicano “Liberté, Égalité, Fraternité”.
In Italia, Giuseppe Mazzini usa una versione più ampia — “Dio, Umanità, Patria, Famiglia” — ma in senso etico-universalista, non confessionale. Quindi, tutto sommato, potabile.
È solo tra la fine dell’Ottocento e gli anni Trenta del successivo che la triade assume i connotati di un programma politico di ordine e subordinazione: la Chiesa ne fa un pilastro della morale familiare; i regimi autoritari e fascisti lo trasformano in motto ufficiale.
Il fascismo italiano, pur senza fissarlo in legge, lo fa proprio nello spirito: religione di Stato, culto della nazione, donna madre e angelo del focolare. E nella Germania nazista si evocano, per la donna, le tre K: Kinder, Küche, Kirche (Bambini, Cucina, Chiesa).
Nel 1940 il maresciallo Pétain sostituisce il motto repubblicano con “Travail, Famille, Patrie”. In Portogallo, Salazar proclama “Deus, Pátria, Família”. Franco, il "caudillo", vi aggiunge la "Justicia", tramutandolo in quadrinomio. In Italia, come detto, la propaganda fascista ripete ossessivamente lo stesso schema: la donna al servizio della famiglia, la famiglia al servizio della patria, la patria al servizio di Dio (e del “Duce”).
Insomma, ogni volta che il potere ha bisogno di consolidarsi,
richiama questo triangolo psuedo-sacro, e lo fa per dire, in fondo,
“obbedite”.
Evocare oggi “Dio, Patria e Famiglia” significa tornare a un mondo in cui l’individuo non esiste per sé, ma è subordinato a tre istanze: Dio, che cessa di essere un fatto privato e diventa garante pubblico del comportamento morale; la Patria, trasformata in estensione dello Stato al quale vanno dovute fedeltà e sacrificio; e la Famiglia, ridotta a strumento di disciplina sessuale e sociale.
Le istituzioni che, per ricaduta, incarnano questa triade – Chiesa, Stato e patriarcato – si sostengono a vicenda, fino a sovrapporsi. Il risultato è una gabbia perfetta per la mente umana: la legge diventa morale, la morale diventa religione, e la colpa diventa il cemento dell’ordine. Disobbedire non è più solo un reato: è un peccato.
Nella società moderna e liberale, invece, le cose stanno all’opposto. Dio è questione di coscienza. Lo Stato è neutrale rispetto ai valori individuali. La famiglia è un punto di partenza affettivo, non una struttura normativa. È questa la rivoluzione vera della modernità: liberare la persona dal giudizio degli altari, dei tribunali e dei padri.
Oggi, quando Giorgia Meloni richiama “Dio, Patria e Famiglia”, non sta citando Mazzini ma un repertorio emotivo ben collaudato. È il linguaggio del rifugio e della paura: la promessa di protezione in tempi incerti, pagata al prezzo dell’obbedienza. Un modo elegante di dire: “torniamo indietro, dove tutto era chiaro: Dio sopra, lo Stato al centro, la donna a casa”.
Per dirla, dottamente: protezione in cambio di obbedienza. Come dire: “Torniamo a Hobbes”… Locke, più scafato e liberale, direbbe, con disgusto, “qui invece si torna a Filmer, che ho tanto combattuto”, teorico della totale identità tra potere dei re e potere paterno.
Per farla breve, in un mondo complesso, evocare quei simboli è come voler rimettere il genio nella bottiglia. La modernità, con tutte le sue contraddizioni, ha rotto per sempre la triade del controllo. Chi tenta di resuscitarla non difende i valori: difende i confini del potere.
Qui torna utile la lezione di due classici della sociologia e di un imbucato.
Come spiegava Durkheim, la società moderna vive una tensione costante tra integrazione e libertà: più ci emancipiamo dalle autorità collettive, più cresce il rischio dell’anomia — ma anche la possibilità dell’autonomia. E Weber mostrò come la secolarizzazione e la razionalizzazione giuridica - cioè la separazione tra religione e diritto - fossero il tratto distintivo della modernità occidentale.
Dopo di che arrivò Foucault, a spiegarci che il potere disciplina i corpi e interiorizza la colpa, scoprendo, in fondo, l’acqua calda dopo che Durkheim e Weber l’avevano già riscaldata.
Insomma, la triade “Dio, Patria e Famiglia” rappresenta l’esatto contrario: una ri-sacralizzazione della vita sociale, dove ogni scelta individuale deve giustificarsi davanti a un principio superiore.
In fondo, il fascino perverso del trinomio sta proprio qui: si promette sicurezza contro la libertà.
Però il vero problema non è credere in Dio, amare la patria o avere una famiglia: è quando qualcuno ti dice come devi farlo, e pretende pure di chiamarlo valore.
Cioè - e concludiamo - si tratta dell’idea, che tanto piace anche a certa sinistra, che esista sempre un’entità superiore pronta a sapere ciò che è bene per te. Ad esempio, lo Stato.
E in questo, la destra di Giorgia Meloni e la sinistra di Elly Schlein si somigliano più di quanto credano. La sinistra, se vuole distinguersi davvero, dovrebbe riscoprire la libertà come valore, non come concessione dello Stato.
Per il resto, Dio per sé, e ognuno per tutti.
Carlo Gambescia




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