Anche perché, sapeva che le truppe repubblicane francesi – gli invasori, secondo la vulgata controrivoluzionaria - furono costrette a ritirarsi al Nord, a causa delle vittorie riportate da austriaci, russi e britannici. Ricordiamo alcuni nomi dei giustiziati: Mario Pagano, Eleonora Pimentel Fonseca, Domenico Cirillo, Vincenzo Russo, Francesco Caracciolo, Ettore Carafa. Studiosi, letterati, militari.
Di riflesso l’assenza di cambiamento, come concreto mutamento delle proprie condizioni di vita, fecero subito scattare nel popolo l’equazione tra giacobini e signori. “Chi tène pane e vvino, ‘e sicuro è giacubbino” “Chi tiene pane e vino / ha da essere giacobino”.
Ne seguì la feroce persecuzione dei giacobini, le risate e i lazzi popolari, le macabre ballate e i motti sulle impiccagioni e decapitazioni, come quello appena ricordato (*).
Il futuro era del liberalismo, giacobino o meno, però rimase sempre nelle masse, nonostante il Risorgimento, l’età liberale e la Repubblica italiana, un sentimento di odio verso la cultura, come pensiero critico, che culminò nel fascismo e di rimbalzo negli eredi politici di quell’ideologia, “per li rami” si può perciò giungere fino a Fratelli d’Italia.
Come del resto si può rilevare dal linguaggio politico della destra oggi al governo: l’intellettuale come nemico del popolo.
Che si tratti di scrittori, artisti, attori, giornalisti, giuristi o attivisti per i diritti umani, il copione non cambia: chi pensa troppo, chi analizza, chi non si piega alla retorica del “noi contro loro” diventa subito un bersaglio.
Negli ultimi mesi, l’esempio è lampante. Ilaria Salis e Francesca Albanese sono state trasformate in simboli negativi al centro di una retorica politica e mediatica che non sopporta la complessità. Intransigente.
La prima, accusata di “militanza estrema”, è stata ridotta a una caricatura ideologica, al punto che un quotidiano come "La Verità" ha dato spazio a un neonazista ungherese per “raccontare la sua versione” dei fatti. La seconda, perché denuncia sistematicamente le violazioni dei diritti umani in Palestina, è stata dipinta come “filo-Hamas”, “antisemita”, “terrorista morale”. Altra caricatura.
Due donne, due percorsi diversi, ma la stessa condanna: aver osato parlare fuori dal coro.
La destra - soprattutto quella di Fratelli d’Italia e Lega - non odia gli intellettuali perché li ritiene falsi o arroganti, ma perché li percepisce come pericolosi.
Chi ragiona, chi contesta, chi mette in discussione l’autorità, mina l’equilibrio fragile su cui si fonda ogni populismo: la convinzione che il popolo debba credere, non capire. E allora il pensiero critico diventa tradimento.
Ergo: Roberto Saviano è un “profeta da talk show”; Fabio Fazio, “suo degno
compare”, Corrado Guzzanti “un comico depresso che odia l’Italia”;
Elio Germano “un attore politicizzato”; Albanese e Salis, “nemiche della
patria”. Si criminalizza la parola, si ridicolizza la conoscenza, si
punisce la competenza.
Ma questo odio per la cultura non nasce oggi. L’Italia ha una storia secolare di diffidenza verso chi pensa con la propria testa.
Dalla Controriforma cattolica, che trasformò la fede in disciplina e censura, alle debolezze dell’Illuminismo italiano, confinato nelle accademie e mai popolare, come abbiamo visto a porposito della Rivoluzione napoletana del 1799; dal pensiero controrivoluzionario dell’Ottocento, che esaltava l’obbedienza come virtù nazionale, fino al liberalismo risorgimentale ( e post), costretto purtroppo a compromessi con la Chiesa e con una società culturalmente arretrata.
Per dirla tutta: la cultura italiana è cresciuta con l’idea che l’intellettuale debba “servire” - il potere, la patria, la morale - ma non disturbare. Ogni volta che qualcuno rompe questo schema, scatta la reazione: la demonizzazione, l’ironia insultante, il sospetto.
La destra italiana, oggi come ieri, si nutre di un amore per l’ignoranza vestita da buonsenso. Sospetta di tutto ciò che è complesso, preferisce la certezza all’argomento, il dogma all’analisi, il salto nel cerchio di fuoco, al tuffo nella storia e nelle sociologia. Quest’ultima tuttora definita scienza “comunista”.
Di qui il fastidio verso i “professori”, i “giornalisti indipendenti”, i “filosofi”, i “funzionari ONU”. Non perché siano necessariamente di sinistra, ma perché rappresentano un mondo dove la parola pesa più dello slogan, e la verità non si misura in like.
La semplificazione è il loro strumento di potere. Chi complica, chi problematizza, chi fa domande, è un sabotatore. Meglio un popolo che si indigna a comando che uno che ragiona.
Dietro la polemica politica c’è dunque un tratto antropologico:
l’orgoglio dell’incomprensione. L’Italia è un paese in cui la cultura
non è mai diventata pienamente popolare; dove il successo dell’“uomo
pratico”, o per dire meglio “praticone”, ha sempre messo in ombra
quello del pensatore.
Sicché la destra, che in fondo si sente figlia di quella cultura della concretezza e della fede cieca nell’autorità, continua a vivere l’intellettuale come un corpo estraneo, un eretico, un guastafeste.
In fondo, non è l’intellettuale che la destra odia. È il pensiero stesso: l’idea che esista qualcosa di più grande del consenso, della bandiera, del leader.E questo, in un paese dove il potere ha sempre avuto paura della mente, resta il più grande dei delitti.
Il che spiega, e chiudiamo il cerchio, perché “Chi tène pane e vvino, ‘e sicuro è giacubbino”…
Carlo Gambescia
(*) Letture imprenscindibili: Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana, Rizzoli, Milano 1959; Benedetto Croce, La Rivoluzione napoletana del 1799. Biografie, racconti, ricerche, Gius. Laterza & Figli, Bari 1961.




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