sabato 30 settembre 2023

A proposito di “Melonomics”...

 


Carlo Trigilia, oggi professore emerito di sociologia economica, va tuttora apprezzato per la sua giusta insistenza teorica (sviluppata in non pochi volumi e saggi) sul ruolo dell’informale nello sviluppo del mercato. Cioè del momento non istituzionale, ad esempio della cultura civica ramificata. Che Trigilia ha sempre inquadrato in un’ottica locale (dal basso verso l’alto). A lui si deve la fortuna del termine “distretto” economico e sociale.

Pertanto è un professore che parla o meglio scrive di cose che conosce. Però uno dei pericoli della sociologia è quello dello schematismo. Morbo che talvolta colpisce anche i migliori.

Come capita al professor Trigilia quando scrive di “Melonomics” quale prolungamento della “Reaganomics” (*). Il che, dispiace dirlo, significa due cose: 1) attribuire a Giorgia Meloni una cultura economica liberista che Fratelli d’Italia, per ragioni di eredità politica antiliberale (quindi siamo ben oltre il puro liberismo) ignora del tutto; 2) difendere di rimbalzo, non sappiamo quanto intenzionalmente, l’approccio statalista all’economia italiana, che la sinistra, sempre per eredità ideologica, ma di segno contrario, coltiva tuttora.

Si prenda come esempio lo schema proposto da Trigilia, delle due destre che convivrebbero all’interno del governo Meloni: quella neo-liberista del “tassa di meno spendi di meno” e quella populista dello “spendi di più e tassa di meno”.

Politiche che a suo avviso rinviano a un elettorato composito: operai e precari da una parte, piccoli imprenditori, lavoratori autonomi dall’altra. Di qui l’impossibilità di far quadrare il cerchio del consenso della “Melonomics”: se si tassa di meno non si più spendere di più, se si spende di più si deve tassare di più.

A dire il vero, l’unica politica coerente, dal punto di vista del realismo economico (quale rispetto delle leggi economiche, tra le quali ne ricordiamo una, semplicissima, di buon senso: le uscite non possono superare le entrate), sarebbe quella del  “tassa di meno spendi di meno” . Che però fa perdere voti. 

In realtà, Giorgia Meloni sembra invece molto affezionata a Palazzo Chigi. Quindi difficilmente cadrà sulla “Melonomics”, ammesso e non concesso che sia frutto di una meditata scelta culturale e non di un’improvvisazione dell’ultimo minuto:  cosa che invece crediamo possibile, considerato lo statalismo che ha sempre caratterizzato i fascisti dopo Mussolini. 

Pertanto la Meloni continuerà a navigare a vista. L’unica cosa che sa fare. Fino a quando, come una mela fin troppo matura, cadrà dall’albero. Generale Vannacci permettendo (pardon per la battuta, ma anche Pulcinella, scherzando, eccetera, eccetera).

E qui veniamo a ciò che sottende il ragionamento di Trigilia, che è il ragionamento tipico della sinistra. Il professore, nonostante gli anni trascorsi a studiare l’economia informale su microscala sembra non aver mai smesso di credere nell’ economia formale, in macroscala, teleguidata dallo stato. E nel nome di un mantra caro alla sinistra: quello, schemino più schemino meno, del “più si tassa più si spende”. Che non è meno pericoloso dello “spendi di più e tassa di meno" della destra populista.

Si mediti su un punto: i due approcci, sia il “più si tassa più si spende” sia lo “spendi di più e tassa di meno”, si basano sullo stesso presupposto, quello di una crescita economica elevata. Che però può essere favorita solo dallo sviluppo dell’economia di mercato, che invece rischia di essere fortemente limitato da quella spirale tra spesa pubblica e pressione tributaria che invece limita la libertà di mercato. Come? O con le tasse più elevate (sinistra) o con la spesa pubblica crescente (destra populista).

Va detto che sinistra e destra populista, poiché entrambe stataliste, puntano, per spezzare la spirale spesa pubblica pressione tributaria sul mitologico recupero dell’evasione fiscale, che però, come gli studi confermano, è funzionale alla crescita delle pressione tributaria. Quindi l’evasione fiscale si combatte con il taglio delle tasse.

Del resto l’evasione, per quanto possa essere criticabile dal punto di vista dello “stato etico” (di destra o sinistra) – altro Leviatano, ma, come si dice,  che  basti  una pena al giorno... – è una forma di autodifesa del contribuente, come individuo che cerca di sottrarsi al bacio della morte dello stato.

Il professor Trigilia non si offenda, ma nel nostro futuro non vediamo alcuna “Melonomics”, ma solo un passaggio di consegne tra due “fratelli coltelli”, se ci si perdona la caduta di stile. Infatti se il governo Meloni dovesse cadere, si passerebbe dai sostenitori dello “spendi di più e tassa di meno” (destra populista) al seguaci del “più si tassa più si spende” (sinistra). 

Che malinconia.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/cosi-la-base-elettorale-di-fdi-condiziona-la-melonomic-uk0yysr9 .

venerdì 29 settembre 2023

Ong. La lezione tedesca

 


La stampa organica alla destra, a cominciare da “Libero” e dal “Giornale”, dipinge la Germania come scafista  o comunque  alleata degli scafisti.  La destra politica, per ora tace, probabilmente perché acconsente.

Per quale ragione Berlino sarebbe dalla parte degli scafisti? Perché si rifiuta di bloccare i finanziamenti alle Ong. E perché si rifiuta di bloccarli? Secondo la destra per puro egoismo.

Di qui le reazioni polemiche da parte della destra italiana che però si ferma al risultato finale: l’opera di salvataggio delle Ong. Che in realtà evitano che i migranti affoghino. Causa nobilissima. Che una destra, altrettanto attenta agli ideali, dovrebbe capire. Si pensi al declamato romanticismo politico di Fratelli d’Italia e stampa sodale, al culto per gli ideali e i valori, per la religione, per dio, la famiglia, rigorosamente etero, benedetta da dio, eccetera, eccetera.

Nonostante ciò si dipinge la posizione della Germania in chiave materialistica:  Berlino  finanzia le Ong  – ecco le accuse di egoismo – perché vuole mettere in difficoltà l’Italia, trarsi dall’impaccio economico di accogliere direttamente i migranti, lasciando la patata bollente nelle mani delle autorità portuali italiane e delle popolazioni rivierasche, per così continuare a fare i suoi comodi, eccetera, eccetera. Insomma, puro materialismo. Analisi raffinatissima…

Qui viene fuori, come dicevamo la rimozione della storia. Oggi, se ci si passa l’espressione, di gran moda. Ci spieghiamo meglio.

Se invece di rimuoverla si ricordasse la storia tedesca dal 1933 in poi, anno dell’ascesa di Hitler a potere, si potrebbe scoprire e comprendere lo sforzo ideale compiuto dai tedeschi stessi: in larga parte da quei cristiani e quei socialisti, che non erano pochi, e che avevano sofferto sotto il nazismo. Sforzo, ripetiamo, di capire, emendarsi, fare in mondo di non incorrere negli stessi errori. Dinanzi a certi orrori non si può più fare finta di nulla, come invece accadeva durante il nazismo. Ecco il vero sottotesto ideale della scelta tedesca di aiutare le Ong. Altro che egoismo e materialismo…

Una lezione per l’Italia. Una battaglia morale scaturita dal basso, che invece le destre filofasciste e antiamericane europee – esiste in argomento una letteratura sterminata – hanno sempre liquidato come frutto del “lavaggio del cervello” dei tedeschi da parte dei vincitori, in particolare  americani con la "complicità"  delle forze politiche di ispirazione cattolica e socialista.

Ora, però i nodi vengono al pettine. Chi è al governo in Italia? Una destra, che ha origini fasciste e che ha sempre odiato la Germania antifascista: quella, come dicevamo, del “Mai più Hitler”.

Un’ Italia fascista o filofascista che ha rimosso, anche perché non lo ha mai accettato (sposando la tesi del lavaggio del cervello), il pentimento tedesco, frutto di una scelta ideale che invece innobilisce le sue classi politiche. Le stesse che oggi non possono non difendere le Ong: prolungamento culturale e morale  di una Germania che ha capito i suoi errori. Si tratta perciò per i tedeschi di una battaglia ideale che affonda le sue preziosi origini nell’antinazismo e nell’antifascismo. Sechi su “Libero” scrive invece  di “ipocrisia tedesca”. Guardi  invece  in casa propria.

Di questa battaglia ideale  ovviamente in Italia non si parla. Si attacca la Germania, come dicevamo, dal punto di vista degli interessi materiali. Anche perché – altro punto fondamentale – la stampa organica alla destra non ha alcun interesse a rispolverare il fascismo e l’alleanza con la Germania nazista. Argomenti scomodissimi per il governo Meloni.

Quindi doppia strategia: 1)rimozione della catastrofe nazifascista e 2) forte accento sull’egoismo tedesco. 

A onor del vero, anche alla sinistra italiana sembra sfuggire questo aspetto delle radici ideali del sì tedesco alle Ong. Perché batte sul questioni del diritto marittimo, del colonialismo e del neocolonialismo europei, e di un dolciastro umanitarismo. Se ci passa la caduta di stile: scorge l’osso umanitarista non la ciccia storica.

Però in questo modo si facilita e legittima il gioco delle destre, in particolare quella italiana, che non ama parlare del suo vergognoso passato fascista. Anche perché non si è mai sinceramente ravveduta. Qui risiede la profonda differenza tra una Germania, o comunque una sua larga parte, che ha capito la lezione e un’ Italia che invece continua a far finta di nulla.

E intanto nel Mediterraneo il migrante muore affogato. Ovvio, ci ripetono i “gazzettieri” di “Libero”, per colpa della Germania alleata degli scafisti…

Carlo Gambescia

giovedì 28 settembre 2023

Nessun IT-Alert della discordia. Che tristezza…

 


Destra e sinistra polemizzano “anche” sulla pesca dello spot Esselunga, incentrato su una bambina che dona il "frutto probito"  al papà separato, sperando che i genitori tornino insieme. Un pensiero della mamma si lascia intendere… Piccola e graziosa bugia da telenovela.

La sinistra attacca la destra, perché vede celebrata quella famiglia “tradizionale” difesa dalla destra, che per questo motivo invece apprezza lo spot. Esselunga, per tirarsi fuori dalla polemiche, potrebbe farne uno, con la famiglia che invece piace alla sinistra. Insomma, par condicio. In questo caso anche pubblicitaria. Probabilmente finirebbero subito le polemiche.

Libertà, in fondo, è sapere di poter scegliere qualcosa, anche lo spot che piace di più.

Purtroppo, non ha scatenato polemiche, se non da parte dei complottisti (che però per una volta hanno ragione), il proditorio IT-Alert della Protezione Civile sugli smartphone dei cittadini. Dal momento che si sono violati fondamentali principi di libertà.

Insomma, a differenza della pesca, non si è registrato un IT-Alert della discordia. Sulle cose serie si tace. Che tristezza,

Si dirà che esageriamo perché in sé si tratta di un semplice messaggino sonoro e testuale, come tante altre forme di pubblicità invasive. In realtà si dimentica, che in questo caso, all’altro lato dello Smartophone giganteggia lo stato. Cioè la polizia, i carabinieri, l’esercito. Non un venditore di frullatori.

Per capire in che razza di vicolo cieco rischiamo di infilarci, formuliamo un’ipotesi, in apparenza catastrofista, ma da non sottovalutare.

Si rifletta. Nel caso di un colpo di stato militare, attraverso il sistema di IT- Alert, si potrebbe costringere le persone, a non uscire di casa minacciando pene severe, addirittura la fucilazione. Si farebbe così strame delle libertà di pensiero, di parola, eccetera. Magari sostituendo, altrettanto proditoriamente, il capo della Protezione Civile con un generale della Folgore, contornato dai suoi  armatissimi parà.

Dicevamo, a proposito dello spot Esselunga, della par condicio eccetera. Ma, se uno spot non piace, si può anche spegnere la televisione o cambiare canale. Per contro all’ IT-Alert non ci può sottrarre. Di qui la sua pericolosità. È anche vero che lo si può disattivare, ma impone l’uso di determinati smartphone, già predisposti. E comunque sia è una procedura ex post. Per molti non è proprio come spegnere la televisione.

Insomma, esiste una questione di principio. Ci spieghiamo meglio.

Ammesso e non concesso, che le finalità del sistema It-Alert riguardino solo la protezione civile, in una società aperta e libera, esiste una cosa, come a proposito dello spot Esselunga, che si chiama di libertà scelta.

Perché, in linea principio, esiste il sacrosanto diritto, espresso dal singolo, “anche” di non voler essere “salvato” dallo stato. O comunque di pretendere di “salvarsi”con mezzi propri. O, addirittura di voler morire, perché lo si ritiene romantico, durante una qualche catastrofe. In sintesi: "si salvi chi vuole". Si chiama libertà individuale.

Perciò qual è la “procedura” giusta, rispettosa delle libertà di scelta del singolo? Chi proprio desideri essere “salvato” dallo stato può scaricare, se vuole, un’applicazione. Ma ex ante, cioè prima, non dopo, ex post. Si dirà sono inezie. Oziose questioni di principio. Roba da professori tra le nuvole. Giudichi il lettore.

Però  -  cosa più grave ancora -   di questi aspetti  non si è  discusso.  E neppure si capisce il silenzio del Garante della Privacy.   Perché lo stato, attraverso la Protezione Civile, da vero prepotente, con la solita scusa di proteggere i cittadini, è penetrato come un ladro nottetempo nelle nostre “case” digitali, preparando la strada – qui i complottisti per una volta hanno ragione – a un’altra irruzione: quella di polizia, carabinieri esercito, in caso di un colpo di stato.

Per dirla con l’Alberto Sordi di “Tutti a casa” – anche se non abbiamo tanta voglia di scherzare – questa volta i ladri si sono alleati con i tutori della legge. I tedeschi con gli americani, come nel film aveva ipotizzato Sordi al telefono con il comandante, scatenando le risate il sala.

Solo che questa volta non si tratta di una pellicola. Non c’è da ridere.

Ciò che veramente turba è che a differenza della pesca Esselunga, destra e sinistra non hanno aperto bocca su un fatto veramente grave che rischia di pregiudicare la nostra libertà futura.   Perché ad esempio la recezione dell'avviso  potrebbe diventare obbligatoria.  Anche perché la gente comune sembra non rendersi conto. Anzi, dalle interviste, forse mirate ma comunque autentiche, si è dichiarata soddisfatta. Questi sono gli amari effetti collettivi  della sbornia  politica da  statalismo da Covid.  

Non solo però.  Come sempre, l’uomo alla libertà preferisce la sicurezza. 

Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

mercoledì 27 settembre 2023

Napolitano, Berlusconi e i necessari bocconi amari della democrazia parlamentare

 


Basta sfogliare i quotidiani organici (“Il Giornale”, “Libero”, La Verità, “Il Tempo”) per capire quanto la destra continui a detestare anche da morto, Giorgio Napolitano.

L’accusa principale resta quella di aver tramato per far cadere nel novembre del 2011 il governo Berlusconi IV, in carica dal maggio del 2008. Per durata il secondo governo nella storia della Repubblica, preceduto solo dal Berlusconi II (2001-2005).

Più che di trame parleremmo però di un clima di sfiducia determinatosi nel paese e nella maggioranza che sosteneva il governo. Del quale lo stesso Berlusconi era consapevole. Clima non proprio sereno già presente all’indomani delle elezioni vittoriose, in seguito amplificatosi sulla spinta delle correnti di opinione antiberlusconiane. Un’atmosfera politica che però non fu risolutiva per la caduta del governo.

Infatti, non avendo più i numeri (ma per poco), il Cavaliere si dimise senza fare tante storie e poi votò il Governo Monti. Nessuna opposizione durissima e vendicativa, nessun appello alle piazze di Forza Italia.

Del resto la stessa lunga durata del Berlusconi IV, che aveva già superato la scissione di Fini, attesta che da parte del Quirinale non vi era alcun progetto prestabilito per far cadere il governo del Cavaliere.

Ovviamente Napolitano, uomo di sinistra, e con più di qualche lettura, non poteva non tener conto, culturalmente parlando, della cappa di crescente malumore che avvolgeva e opprimeva il governo del Cavaliere

In realtà, se proprio di “complotto” si vuole parlare, va detto che Berlusconi, che non era un signor nessuno e aveva i suoi addentellati nei vari settori della società civile, della magistratura, e dell’amministrazione pubblica (polizia, carabinieri ed esercito inclusi ), se avesse voluto, avrebbe potuto puntare i piedi, recuperare i pochi voti che gli mancavano in Parlamento e continuare a governare fino al termine della legislatura.

Il punto è che Berlusconi temeva di diventare impopolare: non avrebbe mai preso le inevitabili misure economiche poi varate da Monti. Non voleva “passare alla storia”, come invece è accaduto al suo successore, come una specie di “carnefice” di pensionati, commercianti, impiegati statali, geometri, commercialisti, partite Iva, eccetera.

In sintesi: Berlusconi, sapeva benissimo che si doveva intervenire, ad esempio, sulle pensioni, ma temeva che gli italiani – l’Italia profonda, quella del Masaniello piccolo-borghese, che oggi vota Meloni – non lo avrebbe mai perdonato.

Se complotto fu, il Cavaliere lasciò fare. E in questo modo, probabilmente senza volerlo, salvò la continuità istituzionale. Perché? Per la semplice ragione che nella storia delle democrazia parlamentare, fin dalle lontane origini britanniche,il rovesciamento di un governo, come risultato di una pressione esterna, cavalcata anche dalla dialettica delle passioni e degli interessi della pubblica opinione, ha sempre giocato un ruolo non secondario.

Il punto fondamentale resta quello del senso della misura. Capire dove ci si debba fermare. Soprattutto sul piano delle reazione politica dopo la defenestrazione. Che riguarda soprattutto i “defenestrati”. Cioè la loro capacità di “incassare” il colpo.

Ad esempio, la Terza Repubblica francese, che visse di rovesciamenti parlamentari, spesso improvvisi, durò settant’anni (grosso modo dal 1870 al 1940). La Repubblica di Weimar, altrettanto instabile, si spense neppure dopo quattordici anni (1919-1933). L’Italia repubblicana sotto questo profilo ha superato la longevità della Terza Repubblica francese: viaggia per gli ottant’anni.

Per dirla brutalmente: la democrazia parlamentare, implica il boccone amaro. Una democrazia parlamentare ha regole tacite che qualche volta prevedono il colpo basso. E la capacità di incassarlo. Ovviamente, se si vuole che la democrazia duri. Si chiama, come detto, continuità istituzionale. E implica la condivisione. Altrimenti, se si passa al colpo su colpo, se si accetta la spirale dell’odio complottista, accade che ai Guizot seguono i Napoleone III, ai Giolitti i Mussolini.

Vittorio Emanuele II, con il secondo Proclama di Moncalieri, nel novembre del 1849, sciolse la Camera, per ottenere una maggioranza favorevole a ratificare il duro trattato di pace imposto dall’Austria vittoriosa, promettendo però di salvaguardare la continuità istituzionale del parlamento liberale. I deputati si fecero “defenestrare”, gli elettori votarono una Camera pronta a ratificare, il Re mantenne la sua parola. Vittorio Emanuele II si guadagnò l’appellativo popolare di “Re Galantuomo”.

Anche nel 2011 la continuità istituzionale fu garantita. Sebbene grazie alla fifa di Berlusconi. Atteggiamento che oggi, ovviamente, la destra politica e giornalistica, non ama ricordare. Di qui le accuse di complotto, di vittima sacrificale, eccetera, eccetera. La nobilitazione. Come pure le dure critiche a Napolitano, perfino da morto.

In realtà, la vera domanda è un’altra. In una situazione simile a quella del 2011, come si comporterebbe Giorgia Meloni?

La risposta ai lettori.

Carlo Gambescia

martedì 26 settembre 2023

Sinistra. L’errore delle concessioni argomentative al governo di destra

 


Il titolo è lungo e   complicato lo ammettiamo, però tocca una questione fondamentale. Quale? Quella dell’errore della sinistra di sposare le tesi del governo di destra. Per dire meglio: di accettare i presupposti argomentativi di Giorgia Meloni.

Che cos’è un presupposto argomentativo? È una premessa: una definizione da accettare in modo preliminare come base, diciamo teorica, per il successivo svolgimento di una certa azione.

In sociologia si parla di pre-assunto. Cioè di una visione dell’uomo ( lato antropologico), che rinvia a una definizione di ciò che accade, e di riflesso di ciò che può accadere. Visione che precede, dettandole, le decisioni, condizionando così la pratica sociale e politica (lato sociologico).

A questo pensavamo, leggendo su “Domani” un interessante articolo in cui si prova, dati alla mano, che, a differenza di quanto sostiene il governo di destra, non vi è alcun rapporto tra presenza in mare delle Ong e aumento degli sbarchi, il cosiddetto pull factor, evocato di Giorgia Meloni (*).

Ovviamente l’articolo smaschera l’inutile polemica della destra italiana con la Germania, sui finanziamenti di quest’ultima, proprio alle Ong. Il che va benissimo, però non è sufficiente.

Qual è il pre-assunto del Governo Meloni in argomento: che il diverso è pericoloso (concezione antropologica), e che il migrante di conseguenza, in quanto diverso, rappresenta un pericolo (concezione sociologica). Di qui la necessità, secondo il governo, di contrastare i migranti che rappresentano un pericolo per gli italiani.

Questo pre-assunto porta  con sé l’ inevitabile  insorgenza  di discussioni di pura lana caprina che vanno dalla distinzione tra migrante regolare e irregolare alla discussione sul pull factor.

Perciò, per la sinistra, accettare di scendere su questo terreno argomentativo significa aderire al pre-assunto della destra del migrante come un pericolo, sempre incombente, per gli italiani. Si fa, ripetiamo, un’importante concessione argomentativa al governo di destra.

Perché accade questo? Per la semplice ragione che la sinistra, al di là degli interessi elettorali (che in democrazia sono gli stessi per tutti i partiti), è profondamente divisa sul piano culturale, come prova in modo esemplare l’articolo uscito su “Domani”, tra libertarismo e solidarismo.

Ci spieghiamo meglio.

Essere libertari significa non porre limiti alla libertà di movimento degli esseri umani. Quindi il migrante, per il libertario, non è pericoloso né innocuo. Il migrante è un essere umano, portatore di un diritto alla felicità, che può intendere come meglio crede. Di conseguenza Ubi bene, ibi patria.

Essere solidarista significa invece sostituire al valore della libertà quello della solidarietà. Quindi il migrante, per il solidarista, va aiutato a realizzare il suo diritto alla felicità. Se per il libertario i costi della realizzazione della felicità ricadono sull’individuo, per il solidarista devono ricadere sulla società. Ubi societas, ibi patria.

Ora poiché la destra è radicalmente antilibertaria, soprattutto dove persiste ancora una tradizione conservatrice, per non dire fascista, ma altrettanto radicalmente solidarista in base però a principi nazionalisti – per capirsi Ubi patria, ibi societas -, la sinistra, che non è antilibertaria per principio, ma che al tempo stesso è solidarista, trova un fertile terreno comune con la destra sul piano della solidarietà, che però diventa fonte di continue e inutili divisioni.

Per quale ragione? Perché il solidarista di sinistra vuole estendere la solidarietà a tutta l’umanità mentre il solidarista di destra solo alla propria nazione. Qui il conflitto. Il che però diventa immediatamente un problema di costi e di istituzioni redistributive, lo stato in primis, ma anche di tipo internazionale. Il che, ripetiamo, genera conflitti – semplificando – tra liberal-socialisti e nazional-socialisti.

Questo atteggiamento solidarista della sinistra, che si potrebbe ricondurre a un’ idea di welfare state universale, la conduce a scendere sullo stesso piano argomentativo della destra, che invece guarda esclusivamente al welfare state nazionale. Tuttavia, una volta presa questa strada si finisce per discutere solo di mezzi e non di fini: l’individuo sparisce soppiantato dalla società. Al centro del dibattito spicca la distinzione tra società nazionale e società universale, l’una contro l’altra armata. Il che in concreto vede da un lato gli stati nazionali e dall’altro le istituzioni sovranazionali ( o comunque le grandi potenze che si arrogano, eccetera, eccetera). Purtroppo, Tertium non datur.

Pertanto cedere al solidarismo significa mettere in soffitta il libertarismo e spostare inevitabilmente la discussione sul piano dei costi. In fondo cosa rimprovera l’Italia alla Germania? Di finanziare le Ong. E la Germania all’Italia? Di non essere solidale con i migranti. E come risponde l’Italia? Chiedendo più finanziamenti europei. E così via lungo i tortuosi sentieri in salita del conflitto tra liberal-socialisti e nazional-socialisti.

Come può uscire la sinistra da questa spirale welfarista? Rifiutando di scendere sul terreno argomentativo della destra. Come? Recuperando la sua tradizione libertaria. Scegliendo, come dicevamo, l’ubertosa pianura della libertà individuale, dell’ Ubi bene, ibi patria.


Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.editorialedomani.it/politica/italia/meloni-rilancia-la-solita-fake-news-del-pull-factor-ma-e-il-viminale-stesso-a-smentire-il-legame-tra-ong-e-sbarchi-wosi8yss .

lunedì 25 settembre 2023

Ma quale governo normale…

 


In questi giorni i commenti sulla vittoria di un anno fa di Fratelli d’Italia e alleati circolano mescolati  ai giudizi sull' anno (o quasi) di governo di un partito che in realtà rivendica l’eredità missina. Compresa la tesi fascistissima per la quale gli unici errori commessi da Mussolini furono quelli di scegliersi l’alleato sbagliato e di varare, per colpa di führer, una legislazione antisemita. Insomma, senza l’alleanza con Hitler gli ebrei italiani, grazie al duce, sarebbero vissuti felici e contenti.

Si dirà che non sono le posizioni ufficiali di Fratelli d’Italia. Certo, ci mancherebbe altro. Però basta fare un giro in Rete per scoprire come personaggi noti o meno della cultura di estrema destra (tra i noti, Veneziani, Cardini, Buttafuoco) difendano la memoria storica di un “fascismo buono”, almeno fino al 1938,  se non oltre.

Altro che governo e partito normali…  In realtà  tutti questi pesciolini, fuori e dentro il partito,  si inseguono e accoppiano  nello  stesso  acquario,  come vedremo più avanti.    

Di questo si dovrebbe parlare: “delle radici che non gelano”, per usare una terminologia cara ai fascisti dopo Mussolini:  razzismo, concezione autarchica dell’economia, cattolicesimo reazionario, familismo, nazionalismo, eccetera. E non della normale agenda di un normale governo, che non ha mantenuto le promesse, come qualsiasi altro normale governo.

Anche perché così – saltando la questione del Dna fascista – si riporta l’analisi sul piano di una politologia dolciastra e accomodante. Come ad esempio fa Alessandro Campi, nominato dal Ministro Sangiuliano commissario straordinario all’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano. Che oggi sul “Messaggero”, dando un furbastro tocco di modernità politologica al suo editoriale, evoca addirittura la teoria degli effetti non previsti, per giustificare il sostanziale fallimento di un anno di governo di Giorgia Meloni.

In realtà, gli effetti imprevisti rinviano alle decisioni umane. Perciò, ad esempio, non si può parlare dell’inflazione come della classica tegola caduta all’improvviso. Come è noto, perfino agli studenti del primo anni di economia, se si pompa denaro nell’economia, in particolare pubblico, il livello dei prezzi sale. Si vuole il bene (crescita del potere d’acquisto), si ottiene il male (inflazione, che taglia il potere d’acquisto).  Pertanto, se si continuerà su questa strada, come il Governo Meloni si illude e pretende, le tegole in caduta libera si moltiplicheranno. Altro che effetti non previsti.

Però, attenzione: in qualche misura anche la nostra analisi, una volta sposata la tesi della normalità del governo Meloni, racchiusa nel modernismo reazionario sul piano politologico di Alessandro Campi, rischia di perdere smalto. Perché, invece della “Luna” fascista, anche noi guarderemmo il “Dito” di un politologia dolciastra e accomodante con Giorgia Meloni.

Pertanto va fatto subito un passo indietro. Come capita quando si è sul ciglio di un burrone. E magari in questo caso dopo aver osservato per un attimo Campi politologicamente sfracellato. Politologicamente, per carità.

Perciò il consiglio che possiamo dare a osservatori e lettori è quello di considerare gli atti del governo alla luce dell’eredità intellettuale (si fa per dire) del fascismo. Di analizzare con attenzione la neolingua dei "pesciolini" di cui sopra. 

Per fare qualche esempio: il nazionalismo, per alcuni nazional-fascismo, ora si chiama sovranismo; l’autarchia ora si chiama sovranismo economico; l’imperialismo si chiama “Piano Mattei”, e così via.

Inoltre la persecuzione dei migranti, come un tempo degli ebrei, ora si chiama lotta ai nuovi mercanti di schiavi. Se i migranti sono confinati in campi di concentramento in Libia, Tunisia, Italia, lo si fa per il loro bene…Per difenderli dai mitologici “scafisti”. Non dimentichiamo che ai mille ebrei rastrellati dai nazisti nel ghetto romano, con la servile collaborazione dei fascisti, venne detto, che, una volta a destinazione, il lavoro li avrebbe resi liberi. Insomma, li si rinchiudeva in un vagone piombato per dare loro una mano… Tornarono vivi in sedici.

Concludendo non è un governo normale. Anzi è un governo pericoloso. Sono fascisti e come tali vanno giudicati. E possibilmente contrastati. Ma questa è un’altra storia.

Carlo Gambescia

domenica 24 settembre 2023

Il nemico di Giorgia Meloni (lo stesso di Mussolini)

 

 

In metapolitica è possibile ravvisare una regolarità: quella amico-nemico, che ritroviamo nelle più diverse società storiche. Qual è il nemico di Giorgia Meloni?

Per capirsi: per la sinistra, di derivazione marxista o meno, è il fascismo; per la destra, quella istituzionale, non fascista, il collettivismo, in particolare quello comunista; per i liberali, il totalitarismo, di destra come di sinistra.

E per chi proviene dal fascismo come Giorgia Meloni? Diciamo che il nemico è rappresentato dalla sinistra e dal liberalismo. Con la destra istituzionale, o comunque con la parte più retriva, si possono fare invece fare accordi.

Sul punto si pensi alla maggioranza di governo: Lega e Forza Italia rappresentano la destra retriva con la quale si è alleata la destra di origine fascista di Giorgia Meloni.

Una scelta che però non rispecchia del tutto l’equilibrio europeo immaginato dal Giorgia Meloni: quello di un’ alleanza con i Popolari (forza di centro, ecumenica, che ama porgere l'altra guancia).  Che Fratelli d’Italia vuole proporre in Europa dipingendosi come normale forza di destra istituzionale  perfettamente capace di allearsi con un ’altra normalissima forza di centro di estrazione cristiana e riformista.  Una specie di presepe con il bambinello "popolare".

In sintesi: in Italia con la destra retriva, in Europa con il centro cristiano-riformista. Da questa duplice tattica, si può intuire quali siano i nemici strategici di Giorgia Meloni: il liberalismo e il marxismo ( in varie salse comuniste, socialiste, liberal ). Mentre la destra retriva resta alleata in Italia, ma nemica in Europa, almeno sul piano delle immediate alleanze elettorali.

Con questo crediamo di aver risposto alla domanda iniziale. Il nemico di Giorgia Meloni è rappresentato da due precise ideologie: liberalismo e socialismo (anche “dolcificato”, come nel caso del liberalsocialismo).

Due ideologie che un acuto pensatore dell’Ottocento, Donoso Cortés, primo marchese di Valdegamas, rappresentò come le due facce della medaglia-modernità politica. Per Donoso, ma anche per altri pensatori non reazionari come Tocqueville, la modernità non era che il graduale scivolamento, passando per il liberalismo, verso il socialismo. Si trattava solo di scegliere e decidere se adeguarsi o meno. Donoso, chiuso alla modernità, riproponeva lo stato dinastico-corporativo a autarchico dell’Ancien Régime, Tocqueville invece quello pluralista aperto ai commerci dei moderni.

Giorgia Meloni, rispolverando i valori di dio, patria e famiglia si ricollega a Donoso non a Tocqueville. Come del resto il fascismo, blaterando di stato etico, autarchia economica, aristocrazie in camicia nera, si collegava, volente o nolente, a Donoso.

Vi è un nesso tra il liberalismo tocquevilliano, pluralista, archico, e il liberal-socialismo collettivistico, macro-archico dei nemici di Giorgia Meloni? No. Il liberalismo non è un blocco unico. Donoso però aveva ragione su un punto: quello del lento scivolamento del liberalismo nel socialismo. Pensiamo a un liberalismo, colpevole, perché separatosi intellettualmente dalla lezione di Tocqueville e di altri pensatori pluralisti. Ma questa è un’altra storia (*).

Probabilmente Giorgia Meloni non avrà capito nulla del nostro discorso. Non importa. Del resto non può non essere così. Perché è diventata fascista respirando. Con naturalezza. Se ci si passa l’espressione è cresciuta a pane e odio verso il liberalismo e il socialismo. Il che spiega il suo sommo disprezzo verso il liberalsocialismo, ma anche per il liberalismo in quanto tale. Parliamo, per quest’ultimo,  di un’ideologia composita che oggi anima non pochi governi occidentali. Ovviamente, per mantenere il potere occorre venire a patti con un nemico, trasformato in avversario, anche a costo del tracollo nervoso. Il che spiega, perfino sul piano delle espressioni facciali, gli sforzi di Giorgia Meloni per nascondere il suo odio verso il sistema politico liberal-democratico.

Del resto, per restare sul piano intellettuale (parola grossa),  basta dare una scorsa ai contenuti reazionari dei suoi libri che affiorano all’improvviso: una pugnalata per Soros, il silenzio sui diritti civili, l’accenno ai complotti contro l’Italia, la tolleranza zero per difendere la democrazia, si dice, minacciata dai migranti. Una discontinuità, tipica di un dire e non dire, che si riflette sulle scelte pratiche, come nel caso dei migranti, all’insegna di un “ma vi pare possibile” che vogliamo in fondo al mare o in prigione donne, uomini e bambini? E invece è proprio quel che succede.

La perfidia è il valore aggiunto (per così dire) di questo nuovo fascismo, caratterizzato da un comportamento sleale, subdolo e malvagio volto intenzionalmente a far male agli altri. Come da vocabolario. Insomma, gente cattiva, che, per ora, finge di essere buona (**). Un gioco che riesce – e questo è un altro problema – grazie a una pubblica opinione, quella che conta, imbalsamata.

Concludendo, va sottolineato che in Italia, l’’ultimo presidente del consiglio, nemico del liberal-democrazia, si chiamava Benito Mussolini. Per contro, in ottant’anni di Repubblica, nessuno dei presidenti del consiglio in carica ha mai dato prova di esserlo. Ora però la ricreazione sembra finita. Con Giorgia Meloni l’Italia si riallaccia ideologicamente a Mussolini. Il duce del fascismo e la leader di Fratelli d’Italia hanno un nemico in comune.

Carlo Gambescia

(*) Sul punto rinviamo al nostro Liberalismo triste. Un percorso da Burke e Berlin (https://www.ibs.it/liberalismo-triste-percorso-da-burke-libro-carlo-gambescia/e/9788876064005 ) .

 (**) Nel nostro Il Grattacielo e il formichiere. Sociologia del realismo politico ( https://www.ibs.it/grattacielo-formichiere-sociologia-del-realismo-libro-carlo-gambescia/e/9788876067853 ), parliamo a questo proposito di “realismo politico criminogeno”.


sabato 23 settembre 2023

Giorgio Napolitano e l’ironia della storia

 


Lasciamo volentieri agli storici la valutazione definitiva dell’uomo politico Giorgio Napolitano, scomparso ieri. Però, in tutta onestà, qualche cosina si può già dire.

Sostanzialmente un moderato, “migliorista” secondo il lessico operaista, impregnato di cultura costituzionale e resistenziale. Di sicuro un democratico. Però con salde radici comuniste. Mai stato un liberale, come alcuni questa mattina lo presentano. Forse lo era rispetto all’ex fascista Ingrao, però dal punto di vista della dialettica interna.

Perciò sul punto avremmo da obiettare. Nel 1956, pur tra “gravi tormenti” spirituali, sull’Ungheria, Napolitano, trentenne, giovane parlamentare del Pci, appoggiò la linea Togliatti. Comunque, politicamente parlando, va onestamente riconosciuto che Napolitano era una spanna sopra i politici della Seconda Repubblica.

Ma non è di questo che desideriamo parlare. La figura di Napolitano, e ci riferiamo in particolare al doppio mandato come  Presidente della Repubblica, va studiata dal punto di vista strutturale.

Cioè  la vera domanda è cosa ha rappresentato Napolitano all’intero di un doppio processo politico, strutturale, che si potrebbe riassumere sotto due aspetti: 1) lo sviluppo di un presidenzialismo informale all’interno di una repubblica formalmente parlamentare; 2) il suicidio politico del Partito democratico che ha consegnato il Paese prima ai populisti di Cinque Stelle, poi alla destra neofascista, o comunque estrema.

I due aspetti purtroppo sono collegati, perché tra il 2006 e il 2015, il Partito democratico, grazie all’ombrello quirinalizio di Napolitano ha dormito sonni fin troppo tranquilli. Dal momento che ha visto succedersi un governo di destra (Berlusconi), un governo tecnici non sgradito  alla sinistra  (Monti), due governi di sinistra (Letta e Renzi).

Le radici del suicidio vanno ravvisate in un parallelo e galoppante processo di “estremizzazione” della politica, che dal Buen Retiro del Quirinale e del Partito democratico è stato sottovalutato. Attenzione: non ignorato ma sottovalutato.

Un processo che invece ha favorito a sinistra lo sviluppo del Movimento Cinque Stelle. E in seguito quello di Fratelli d’Italia: una crescita che allora sembrava meno prevedibile e pericolosa.

Cosa è accaduto? Che l’ “adunata” dei moderati di centro e di sinistra intorno a Napolitano, per alcuni osservatori necessaria dal punto di vista europeista e dei bilanci in ordine (si fa per dire), ha favorito la deriva verso una sinistra pauperista, assistenzialista, antiliberale che, di rimbalzo, o comunque attraverso un processo di azione-reazione per estreme, ha condotto al governo, dopo ottant’anni, i neofascisti capitanati da Giorgia Meloni.

Il che è stato ulteriormente favorito, come ogni processo strutturale – tale, perché più forte della stessa volontà degli uomini – dalla doppia presidenza di Mattarella, che si sta muovendo più o meno lungo la strada segnata da Napolitano.

Però ecco il punto, che come tutti gli effetti perversi delle azioni sociali e politiche ha aspetti ironici: la comprensibile volontà, di lottare contro l’antipolitica ha favorito la vittoria dell’antipolitica dei partiti di natura antisistemica: Fratelli d’Italia, come detto,  è al governo, Cinque Stelle regge bene all’opposizione e condiziona pesantemente il Partito democratico da decenni in grave crisi di identità, fattore prodromico di ogni  suicidio anomico.
 

Partito, ora nella mani di Elly Schlein, neppure troppo salde. Figura, per alcuni di secondo piano, che tuttavia non disdegna l’antipolitica a partire dai violenti toni usati in pubblico.

L’ironia storica è nel fatto che Napolitano (e ora Mattarella), puntando sulla la difesa della società aperta (il bene), giustamente vittoriosa nel 1945, si sono però arroccati su una sorta di linea politica quirinalizia: un combinato disposto di assistenzialismo, euroburocratismo, fiscalismo, a attendismo politico. L’esatto contrario dei fattori di libertà che distinguono la società aperta. Di qui però le contraddizioni tra il dire e il fare e la vittoriosa sollevazione antipolitica, anche elettorale, delle estreme, a destra come a sinistra (il male). Partiti che hanno avuto gioco facile contro i temporaggiamenti quirinalizi, promettendo tutto e il contrario di tutto.

Ciò non significa che Napolitano non dovesse opporsi all’antipolitica serrando le fila intorno al Quirinale. Diciamo che togliattianamente vi ha creduto troppo, scambiando il centralismo democratico del vecchio Partito comunista con il centralismo del Quirinale nei riguardi dell’Italia. Ma l’Italia non poteva essere il Partito comunista. Con gli elettori liberi di votare, a diffierenza degli iscritti al Pci, non poteva non vincere l’antipolitica. E così è stato.

Un liberale queste cose le conosce benissimo, e sa fin dove spingersi, un comunista, post o ex che sia, no.

Carlo Gambescia