A Venezia La Fenice brucia di nuovo. Non per un incendio, ma per una vecchia malattia italiana: quella dello Stato padrone che paga, pretende e decide.
A dire il vero la cosa ci era sfuggita. Quale? La lettera aperta del Sottosegretario alla cultura, Gianmarco Mazzi ai musicisti della Fenice in agitazione contro la nomina a direttrice di Beatrice Venezi.
Facciamo ammenda. Anche perché la vicenda merita di essere approfondita da un punto di vista più generale.
Come anticipato, l’aspetto essenziale di questa storia non è poi così difficile da individuare. Non è una questione di destra o sinistra, di sessismo o di meritocrazia, ma di struttura del potere culturale in Italia. Certo, non si può ignorare che Mazzi sia iscritto a Fratelli d’Italia e che la Venezi sia, diciamo, simpatizzante. Tuttavia, se entrambi fossero di sinistra, la situazione non cambierebbe: il problema è strutturale.
Il vero nodo è che l’Italia non è un paese per liberali. Non lo è mai stata, e non lo è nemmeno oggi, quando un sottosegretario può rimproverare pubblicamente un’orchestra ricordandole che “la Fenice riceve 22 milioni di euro di fondi pubblici” Di più: con grande magnanimità Mazzi fa anche sapere che sono “soldi che gli italiani pagano perché si lavori e si produca musica” (*).
Dietro queste espressioni di finissimo rispetto per l’arte, tipo “Signo’ è mezz’etto in più di parmigiano, lascio?”, si cela una visione del mondo molto precisa: lo Stato paga, quindi lo Stato decide. È la logica del padrone neppure tanto illuminato, non quella di un mercato libero o di una cittadinanza adulta. È la stessa idea di cultura come concessione, non come espressione.
Nell’universo liberale sarebbero gli spettatori e i dirigenti di un teatro, rispondendo alle domande del pubblico e al gusto di chi paga il biglietto, a scegliere un direttore d’orchestra. In Italia, invece, la nomina di un artista diventa questione ministeriale, e il teatro un feudo amministrativo. A tale proposito, cosa non secondaria, il pubblico della Fenice sembra essere in perfetta sintonia con i musicisti.
Però non stupisce che i lavoratori reagiscano come sudditi scontenti di fronte a un nuovo governatore nominato da Roma. È il riflesso di un sistema paternalista, centralista e opaco, in cui la cultura non è bene comune ma patrimonio dello Stato, o comunque di istituzioni contaminate dallo Stato. Del resto le regioni e i comuni sono comunque prolungamento o doppioni di rigidi “poteri pubblici”, e non di spontanei poteri privati che si autofinanziano.
Il problema non sono le simpatie politiche (pur stonate, per chi fa dell’arte una forma di libertà), né le capacità direttoriali di Beatrice Venezi. Il punto è il principio: uno Stato che si sostituisce ai cittadini, decidendo ciò che “è bene per loro”.
Tra l’altro Mazzi fa sapere (cosa che per chi scrive è una vergogna) che “Le fondazioni liriche sono quattordici enti complessi,[che] godono di contributi pubblici pari a oltre 27 milioni di euro al mese, per un totale di 333 milioni all’anno, e nel 2023 sono state patrimonializzate con altri 271 milioni”.
Capito? Ovvio che chi paga poi voglia comandare.
Nel caso della Fenice, sono i poteri pubblici, variamente articolati, dentro una Fondazione (Governo, regione, comune) a decidere ciò che per i veneziani “è bene”. Cioè quello di avere un certo direttore, eccetera. Capace di dirigere? La cosa, alla fin fine, è secondaria. Perché, come detto, “Io pago”. Una bella prepotenza in nome dei soldi pubblici.
Finché resteremo ancorati alla logica dello Stato che paga la cultura, continueremo a parlare di nomine e scioperi anziché di idee e pubblico. La cultura, per essere viva, deve essere libera. E innanzitutto libera dal denaro pubblico.
Si dirà: ma allora i teatri fallirebbero, i posti di lavoro andrebbero perduti. Forse sì, ma in un’economia liberale chi decide della sopravvivenza di un teatro non è il ministro, il sottosegretario, i capi e i capetti locali, bensì il pubblico sovrano. È il mercato, bellezza. Taglia il nodo alla radice.
Non è un caso se l’idea di “cultura come funzione statale” risale al fascismo. Allora, il cinema era “l’arma più forte del regime”. Oggi, per il Ministero della Cultura, la lirica è una forma di inquinante e sotterraneo potere ideologico, un mezzo per esercitare controllo e costruire consenso. Per capirsi: “Ora al governo ci siamo noi, destra, dentro i nostri, fuori quelli di sinistra”. Il che a prescindere da qualsiasi altra valutazione. Detto altrimenti, viva il merito…
Però, si badi bene, il punto non è che ci sia un nuovo regime, ma che l’imprinting istituzionale non è mai cambiato. La mano pubblica non solo finanzia: decide, nomina, indirizza. E chi contesta non è un cittadino che partecipa, ma un dipendente che disobbedisce. E il pubblico? “Chi se ne frega, tanto le spese le pagano Stato, regione, comune”… Si dice Fondazione ma si chiama Sovvenzione.
La Fenice, ironia della sorte, è un teatro che rinasce dalle proprie ceneri. Ma per rinascere davvero, l’Italia culturale dovrebbe bruciare l’idea stessa di cultura di Stato.
Solo allora si potrà parlare di libertà artistica. Solo allora un teatro sarà di chi lo ama, non di chi lo amministra.
Carlo Gambescia
(*) Qui: https://cultura.gov.it/comunicato/28125?utm_source=chatgpt.com .
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