La Corte dei Conti ha bloccato la delibera sul Ponte di Messina perché ha riscontrato coperture finanziarie incerte, stime di traffico e costi poco attendibili, e dubbi sulla legittimità e completezza dell’iter ambientale e amministrativo. Apriti cielo.
Tuttavia, il governo può comunque sbloccare i lavori: la legge che autorizza la realizzazione del progetto consente di superare il diniego della Corte con una delibera motivata del Consiglio dei Ministri, invocando il “preminente interesse pubblico nazionale”.
Insomma una specie di “ponte sullo Stato di diritto”. E questa possibilità è un profilo molto pericoloso. Perché in questo modo si elude il controllo della magistratura – oggi si tratta di un ponte, domani di un giornale o di un partito non gradito – apre la porta al potere assoluto del governo.
Ora, in una democrazia liberale “normale”, una decisione del genere viene accolta come fisiologica: una magistratura — nella fattispecie contabile — che fa le pulci al governo, esercita un controllo necessario, un contrappeso al potere politico. Diciamo pure: alle sue manie di grandezza, di qualunque natura esse siano.
Lo statuto liberale – si badi non il potere politico: il fatto è pre-politico, culturale, di mentalità – delle nostre società ha delegato alla giustizia, nelle sue varie branche, l’esercizio di un potere terzo, fondamentale per la tutela delle libertà in generale.
Si noti una cosa, che a nostro avviso ha un valore decisivo in termini di conseguenze: il governo, come detto, può ovviare alla decisione della Corte dei Conti invocando il “preminente interesse pubblico nazionale”.
Dietro questo escamotage si nasconde il solito ritornello: “i giudici sono politicizzati”, eccetera. Certo, lo sono, perché sono esseri umani come tutti gli altri: a volte pendono a destra, altre a sinistra. Ma il punto fondamentale è un altro: il loro ruolo non è fare politica, bensì garantire il corretto funzionamento del “sistema”, impedendo al governo di oltrepassare i propri limiti.
Di “sistema”, appunto. Perché? Per la semplice ragione che caratteristica della democrazia liberale è la cosiddetta teoria dei pesi e contrappesi, che storicamente è un’invenzione del liberalismo.
Chi è contro, è contro il liberalismo. In qualche misura reagisce d’istinto. Giorgia Meloni, dotata di un forte istinto autoritario — quindi non liberale — cosa ha detto? Che si tratta dell’“ennesimo atto di invasione dei giudici” e che comunque il governo “andrà avanti”.
Qui mi si consenta un piccolo aneddoto calcistico. L’allenatore della Lazio, Maurizio Sarri, ha dichiarato di recente — cosa che colpisce, perché indica la qualità di pensiero dell’allenatore — che, con i giocatori che ha a disposizione quest’anno, i suoi schemi di gioco funzionano fino a un certo punto: molti giocatori agiscono d’istinto e quindi non ascoltano l’allenatore. O comunque, se ascoltano, a un certo punto scattano gli “istinti” e salta tutto.
Ecco, Giorgia Meloni gioca d’istinto. Quali sono le sue radici? Di sicuro non liberali. Proviene da un partito neofascista. E, per giunta, anche se per giochi di parole si fa vanto delle sue “radici”. Fratelli d’Italia, purtroppo, ricorda un’intera puntata di Tali e Quali. Con una particolarità: imitazioni, sì, ma fino a un certo punto.
Molti si dolgono di questa nostra battaglia. “Gambescia vede fascisti ovunque”, si dice. Eppure chi ha fatto strame, nel Novecento, della magistratura? Creando addirittura un tribunale speciale politico? Chi ha violato ogni regola di legalità e di polizia, picchiando, torturando, confinando i dissenzienti? Appena — caso raro — la magistratura assolveva, scattava il confino di polizia.
Tangentopoli, quanto al comportamento “politicizzato” dei giudici, è,
per dirla — visto che siamo in giornata — con un commentatore
calcistico, un “pranzo al sacco”.
Questa è la cultura antiliberale che anima il principale partito di governo. E non parliamo degli alleati…
Stiamo scivolando verso il fascismo? Sul piano della cultura istituzionale, la risposta sembra sì: oggi, con le riforme in discussione, si assiste a una tendenza a concentrare tutto il potere nelle mani del governo, secondo una logica plebiscitaria. Che concede alle minoranze appena un diritto di tribuna.
C’è un problema di mentalità. Da una parte una cultura di derivazione fascista, che vuole mettere in ginocchio la magistratura; dall’altra una cultura liberale, quella dei pesi e contrappesi, che la vuole in piedi: sveglia, "woke" , per essere (non più tanto) alla moda.
Chi vincerà?
Dipenderà da noi, da quanto sapremo difendere la cultura liberale della separazione dei poteri.
Carlo Gambescia




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