sabato 29 novembre 2014


  Beppe Grillo: dalle stelle alle stellette
Toh, chi si rivede! La partitocrazia...
di Carlo Pompei


Fonte: http://www.qelsi.it/2013/beppe-grillo-il-figlio-pericoloso-della-partitocrazia-italiana/


Che fosse fisiologico, noi troppo vecchi per capire la "Nuova politica", lo sapevamo da tempo (*), ma che dovesse accadere in puro stile seconda repubblica, no, questo non lo sospettavamo.
La nomina dei "colonnelli", a cinque stellette sulla spalla, ci porta indietro di almeno dieci anni, cioè in quel periodo durante il quale i componenti la corte dei miracoli di Gianfranco Fini ronzavano come mosche sul potere donato loro da un forse troppo permissivo Berlusconi.
Ma torniamo al "Movimento". I "nominati" sono coloro i quali si sono distinti in "azioni memorabili" dentro e fuori la "scatoletta di tonno". Sempre i soliti.
Grande esclusa, Paola Taverna,  una che invece  di tonno se ne intende, dati i modi, cioè la "pasionaria"  di Tor Sapienza, della "Palestina de no'antri", dove italiani non troppo permissivi hanno attaccato inermi extracomunitari. Almeno a quanto afferma il "mainstream", una brutta parola per definire il politicamente corretto diffuso dai media.

La strategia di uscita di scena (exit strategy) di Grillo era scritta da tempo. È la medesima, riverniciata a dovere, di ogni partito. È il bisogno di capri espiatori sui quali imputare la responsabilità di eventuali errori futuri o passati che dovessero evidenziarsi ad una rilettura postuma delle scelte. Insomma, il tappeto rosso...
Intanto la base diventa nervosa, ha capito che il punto di non ritorno è stato oltrepassato. Ora Grillo passa in cassa anche con i suoi adepti e lo fa nel peggiore dei modi: come una guida montana che, portata la cordata in vetta, esige un pagamento extra per ricondurla a valle. Si è alzato il vento, ma non è quello del cambiamento.

Carlo Pompei


Carlo Pompei, classe 1966, “Romano de Roma”. Appena nato, non sapendo ancora né leggere, né scrivere, cominciò improvvisamente a disegnare. Oggi, si divide tra grafica, impaginazione, scrittura, illustrazione, informatica, insegnamento ed… ebanisteria “entry level”.


venerdì 28 novembre 2014

Il futuro della Lega ( e del centrodestra)
Le due possibilità politiche di Salvini  



A leggere "La Padania", megafono del segretario Salvini (come è giusto che sia),  la Lega   rappresenta  la nuova destra maggioritaria. In effetti, una politica in stile lepenista  (fuoriuscita dall’Euro, frontiere chiuse,  più spesa pubblica meno tasse, politica estera dei giri di valzer)  potrebbe “acchiappare” il voto dell’elettorato moderato.
Tuttavia, in caso di elezioni la Lega dovrebbe comunque trovarsi gli alleati giusti. E quali? I soliti noti: Forza Italia, pardon, ormai Forza Silvio,  i naufraghi di Alfano, i gruppuscoli dell’ estrema  destra post-finiana.   Dopo di che,  ammesso di riuscire a vincere,  Salvini, premier o meno,  dovrebbe tenere in piedi ( o appoggiare) una maggioranza di centrodestra, a dir poco variopinta e litigiosa. Un governo, sul quale subito si abbatterebbero le scomuniche dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. Anche i mercati (come si usa dire) non reagirebbero meglio. La stessa  benedizione di Putin ( fiore all’occhiello di Salvini) renderebbe, come con Berlusconi,  ancora meno stabile un governo, già, di suo, politicamente traballante. 
A questo punto,  complice  la repentina ricaduta economica della crisi politica (spread e quant’altro),  il consenso dell’elettorato moderato, proprio perché tale,  si scioglierebbe come neve al sole e nuove elezioni, dopo un governo a termine di “concentrazione europeista”  sancirebbero  vittoria delle opposizioni di centrosinistra.
I rapporti di forza, piaccia o meno, sono questi.  Perciò Salvini, visto che sembra credere fermamente  nell’ idea di una destra maggioritaria,  ha due possibilità:
La prima, in termini di etica dei principi ( in pratica un suicidio politico), è  quella di parlar chiaro all’elettore moderato, asserendo  che il riposizionamento dell’Italia rispetto all’Euro, eccetera, eccetera,  comporta lacrime e sangue. E che nell’immediato la situazione economica non muterà, Anzi… Dichiarazione  che però rischia  di provocare la fuga dei moderati e la consegna, per così dire, definitiva  del Paese a un  centrosinistra,  per il quale sarebbe  un gioco da ragazzi, presentarsi  come “ responsabile e affidabile”.
La seconda, in termini di etica della responsabilità (  politicamente più interessante),  è quella di lavorare su un programma minimo: in qualche misura fare ciò che  sta facendo  Renzi, ma da destra,  tagliando spesa pubblica e, in primis, le tasse: un  bel colpo di forbici a imprese e cittadini.  Anche qui  però esistono controindicazioni: rivolta dei sindacati, dell’impiego pubblico, della sanità,  degli insegnanti e delle imprese (non poche) che gravitano  nell’orbita dell’economia mista. Quindi  nuovi dissidi all’interno di una maggioranza di centrodestra comunque composita.  Di qui, nuove incognite sulla effettiva durata di un governo  di centrodestra sponsorizzato o guidato dalla Lega.  
Tertium non datur.   Sempre che Salvini non si riveli  statista del calibro,  non diciamo di un Napoleone,  ma almeno  di un  De Gaulle, capace di rimescolare le carte e “fare” in qualche modo la storia.  Il che, francamente, ci  sembra difficile, se non impossibile, come sostengono coloro che lo conoscono da vicino.
Carlo Gambescia
                          

giovedì 27 novembre 2014

Il libro della settimana: Armando Ermini, La questione maschile oggi, Edizioni Settecolori, Lamezia Terme 2014, “I Libri del Covile”, collana diretta da Stefano Borselli,  pp. 208, Euro 14.00. 


http://www.settecolori.it/wordpress/prodotto/armando-ermini-questione-maschile-oggi/


A dire il vero,  il termine “questione”  ci inquieta. Soprattutto quando  accompagnato  da un qualificativo.  Si pensi solo alla questione ebraica… E ai suoi tremendi sviluppi.  Naturalmente,  esistono anche  questioni  innocue (fino a un certo punto): fiscale, giudiziaria, eccetera.  Comunque sia,  il termine possiede una indubitabile valenza controversistica: da una parte c’è chi la pone (la questione), dall’altra chi vi si oppone o nega. E giù botte. 
Perciò non è facile, una volta “posto” il problema, costruirvi un libro sopra e al tempo stesso mantenere la calma e soprattutto perseguire l’oggettività dello studioso serio. Sotto questo aspetto  il  denso libretto   ( a proposito  complimenti per l’elegante veste grafica) di Armando Ermini, La questione maschile oggi (Edizioni Settecolori) è veramente esemplare.   Infatti, in poco più  di duecento pagine si  fa il punto, senza fare sconti, neppure agli uomini (si vedano  le pagine  dedicate ai  progressisti), sulla  caduta e decadenza del maschio moderno. Inciso: maschi, femmine, coppie, siamo davanti a una  terminologia di  tipo zoologico  (per dirla con Augusto Del Noce). Un segno dei tempi. Modernità in discussione?  Forse, ma con giudizio. 
Veniamo al libro di Ermini. Innanzitutto,  si tratta di un lavoro ben costruito, organico  suddiviso  in tre parti ( più Prologo, Conclusioni e nutrita e utile Bibliografia). Procediamo con ordine. 
Si apre con una   “panoramica”.  Sono  passati in rassegna i movimenti maschili  pro e contro il femminismo: progressisti (come filone culturale  che giulivamente considera salutari  la crisi maschile e l’autocastrazione psicologica a puntate), antifemministi (il sito “Anti-feminist on line Journal”, una sorta di fortilizio lacustre costruito sui pali dell’ etologia umana profonda), liberali (“Pari diritti per gli uomini”, gruppo che rivendica  lo stato neutrale); radicali, nel senso di fondamentalisti,  ripartiti in relazione all’approccio: decostruttivista, con tutti i pregi e i difetti di una sociologia acefala del mondo ("Uomini 3000"); neomarxista rigoroso, talvolta pignolo,  ma con una sua particolare  ariosità storica (“Uomini Beta”); antropologico, eroico e un pizzico tardo romantico (“Maschi Selvatici”).
Nella seconda parte, quantitativamente più lunga rispetto alle altre (più di cento pagine), sono affrontati e confutati gli addebiti o  argomenti  specifici, di regola  impugnati come clave dal pensiero femminista. Citiamo senza seguire un ordine di esposizione preciso (e magari dimenticando qualcosa): la critica  alla sessualità maschile su base biologica, sorta di dolorosa castrazione postuma;  il programmatico rifiuto della famiglia patriarcale  presentata come l’ ultima Thule del macho zotico;  l’attacco alla  maschilità, sempre e comunque portatrice sana di violenza.  Spesso la  ricostruzione interferisce con  la critica ( e viceversa), rendendo la lettura meno agevole. Tuttavia, oggettivamente, non era (ed è) proprio facile sbrogliare la matassa. Quindi, assoluzione con formula piena.
La terza parte,  probabilmente la più ghiotta, si occupa della “rappresentazione del maschile”: di come  viene  “narrato” a sinistra ( tutta o quasi  dalla parte del determinismo culturale della Gender Theory),  a destra (confusa, fregnacciara, per dirla in romanesco,  e in ritirata strategica, non tattica) e dalla Chiesa (preoccupata, compunta ma di fatto cerchiobottista).
Quali le conclusioni di Ermini? Il moderno,  oltre certi limiti, come quello della giusta rivendicazione della parità formale, può diventare autodistruttivo. Può… Perché Ermini non è uno spengleriano di ritorno. Sembra, infatti, apprezzare, le conquiste di libertà dei moderni.  Indietro non si può tornare.  Come Tocqueville, Ermini  teme il giacobinismo centralista (delle femministe aiutate da uno stato schmittianamente motorizzato),  ma sa bene,  che  è con  il Minotauro Femminista (metà donna, metà stato) che noi moderni dobbiamo fare i conti, per riprendere, modificandola,  un'espressione di  Bertrand de Jouvenel sullo strapotere dello stato, vero dio mortale.  Insomma,  non esistono vie di fuga, se non quella di ridurne grandemente i poteri. Ma come? Sul punto Ermini non sembra  soffermarsi più di tanto.  Salvo mostrare un’intelligente moderazione cui però affianca un’importante consapevolezza.  Quale? Della necessità di  recuperare, sulla scia delle intuizioni di Risé (ma non solo),  l’ assertività maschile,  Cosa si intende con il termine? La  virile forza costruttrice, da “asserire” senza alcun timore in ogni situazione.  Per dirla con i nostri nonni: l’ ”uomo deve  essere uomo e deve portare i pantaloni”.  E le donne? Anche -  ci sembra di capire -  ma senza  esagerare.  
Va detto infine che Ermini, in qualche misura, sembra brillantemente  riproporre le tesi di  quella sociologia che studia gli aggregati umani nelle  forme  più elementari e periferiche: l’abitante della favela,  il senzatetto, il girovago  (per inciso, un pensiero “orecchiato”, ma in chiave movimentista, da Latouche a proposito delle sue elucubrazioni decresciste).  Nel senso, per tornare a Ermini,  che  in una società, dove il maschio sembra in ritirata, l’assertività,  in quanto forza sociale sotterranea, prima o poi, finisce per tornare alla luce,  manifestandosi  negli interstizi: tra i marginali e  dove meno ci si aspetta di trovarla. Ne parla nella chiusa, sociologicamente perfetta.  Si tratta di  un  passo molto bello che merita essere citato per esteso:

“Oltre alle parole alle teorizzazioni e le analisi più o meno raffinate sono convinto che basti, per rintracciare  i segni in positivo del maschile, guardarsi intorno con occhi attenti, anche oggi. Il barbone che salva le ragazze dallo stupro e si prende qualche coltellata, il bagnante che affoga per salvare due bambini, il passante che salva una donna dall’incendio della sua auto o dal morso micidiale dei due rottweiler, lo zingaro che  muore per salvare la giovane moglie. Piccoli episodi di cronaca, uomini, normali, magari emarginati ma maestri […] . Il dono maschile  non significa affatto  vocazione al sacrificio per il sacrificio […] . Non significa neanche , anzi sarebbe l’opposto, acconsentire, per piaggeria o malintesa cavalleria, a qualsiasi cosa dicano o facciano le donne. Abbiamo detto che l’assertività è maschile, e dunque si tratta di esercitarla, non contro ma per  . Per se stessi consci della propria insostituibilità, per i figli che hanno bisogno disperato di noi, per le donne che necessitano di una sponda forte e salda che sappia tracciare anche per loro il quadro entro  cui poter esercitare la propria femminilità e offrirla, anch’esse, a vantaggio di sé e degli altri, infine per la comunità tutta, che senza un maschile degno di questo nome è destinata a insterilirsi” (pp. 197-198, corsivi nel testo).

Rileggendoci, notiamo, che la lettura del  libro ha avuto su di noi anche una ricaduta emotiva. Un effetto "euforizzante". Probabilmente è la forza della ragione,  quando ben esercitata. E  la recensione ne ha risentito, perché sbilanciata, ci sembra, dalla parte degli uomini.  Che dire? Evidentemente, Ermini non sbaglia: le vie dell’assertività sono infinite.  Meglio così. 

Carlo Gambescia 

mercoledì 26 novembre 2014

L’Italia è un Paese libero?
Dipende. Dal futuro
  



Viviamo in un  Paese libero? Intanto diciamo che  in base  al  punto di vista ( o visione del mondo) si può rispondere sì o  no. Ad esempio, per un fascista, un comunista, un ecopessimista, un antiamericano, un grillino,  l'Italia  è  “serva” della democrazia liberale, degli  Stati Uniti,  del capitalismo, del consumismo sfrenato,  della corruzione politica.  Ma non lo è neppure per un liberale: troppe tasse, troppa informazione drogata,  troppi monopoli, troppo clericalismo, troppo stato,  E per un cattolico? Se di destra, accusa l’Italia di essere scandalosamente laica e libertina e quindi schiava delle peggiori passioni; se di sinistra,  rispolvera le stesse critiche dei comunisti in salsa evangelica. E il tecnocrate? Condanna le inefficienze e gli sprechi  della burocrazia, che limiterebbero, incidendo sullo sviluppo economico,  il tasso di libertà
Tutto normale? No. Perché, di riflesso,  il dibattito politico risulta viziato da modelli retorici o "narrazioni" (come è di moda dire), secondo i quali, l’Italia, per una ragione o per l'altra,   non sarebbe un Paese libero.  Di qui,  tutti a lamentarsi, a scambiarsi accuse, eccetera, eccetera.
E  fra la gente?   Va meglio? No. perché  è inevitabilmente  venuta meno la memoria storica “del peggio”: di quando l’Italia, ancora nella prima metà degli anni Cinquanta  del Novecento, era un Paese arretrato sotto tutti gli aspetti. Tuttavia,  l’atteggiamento, per così dire,  dell’ italiano medio  è comprensibile. Le persone, come mostrano le indagini storiche e sociologiche,  tendono  a  misurare il progresso non a partire da una situazione passata, che viene spesso dimenticata, ma sul metro di un ideale (positivo o negativo) che come l’orizzonte, si allontana continuamente. Sicché, la generazione presente  non è mai interessata  alle necessità e ai successi di quella precedente, ma alle proprie sofferenze  e frustrazioni, messi in rilievo  o in discussione,  dalla possibilità,   appena intravista o vissuta di un  benessere o di una povertà universali. La gente comune vive immersa nel presente e non è giusto né  corretto  incolparla per un comportamento che pertiene alla fisiologia sociale.    
Ci accorgiamo però, di non aver ancora risposto alla domanda. L’Italia è un Paese libero? Dipende. Da che cosa? Dal passato? No, dal futuro "storico": da ciò che "realmente" accadrà dopo di noi, di cui, purtroppo, al presente  non sappiamo nulla.  Facciamo solo qualche esempio politico: all’Italia di Giolitti, seguì quella di Mussolini e coloro che avevano criticato lo statista liberale, fecero marcia indietro, ma dopo.  In tempi più vicini a noi, all’Italia democristiana è seguita quella berlusconiana.  E altri, in precedenza aspramente critici nei riguardi della Dc, hanno dovuto fare  mea culpa.  Ora è arrivato Renzi, che viene accusato di essere democristiano…
Si dirà, ma allora,  che fare?  Se ci si  passa la caduta di stile:  "darsi una regolata".  Soprattutto gli "intellettuali".  Perché, una cosa è certa. Quale?  Sapere di non sapere cosa accadrà. 

Carlo Gambescia  

martedì 25 novembre 2014

Regionali, la “vittoria” leghista
La crisi del centrodestra continua. O no?  




Non c’è che dire, se anche le regionali di aprile confermeranno l’avanzata della Lega e  il declino di Forza Italia, la leadership del centrodestra non potrà non cambiare di mano. Insomma, sembra che stia per arrivare l’ora di Salvini, il ruspante leader leghista, che sta rivelandosi  un discreto  politico (forse  più bravo  di Bossi). Infatti, per ora,  sembra funzionare  l’idea di   proporsi di  occupare  lo spazio lasciato a destra dalla crisi di Forza Italia e dal dissolvimento delle forze minori.  Naturalmente,  una politica di ricomposizione  del centrodestra, e vincente sul piano elettorale,  richiede pazienza, astuzia e una  forte  diluizione delle passate istanze autonomiste (se non indipendentiste).  Ma non solo.  
Infatti, resta il buco nero della politica economica.  Per il momento il leader leghista, pur di guadagnare consensi, insiste sull’incongruo mix meno tasse/più spesa pubblica. Il che non promette nulla di buono. Oggi sulla "Padania" si parla addirittura di introdurre il principio della piena occupazione nella Costituzione italiana... Aberrazioni antieconomiche e  populiste. 
Rimane infine  una questione fondamentale:  l’antieuropeismo leghista  sembra essere collegato più che a questioni economiche al tema della lotta all’immigrazione (clandestina e non, anche se non lo si ammette apertamente):  vero cavallo di battaglia della Lega.  Una scelta  però,   che soprattutto per  i toni zotici spesso raggiunti,  ricorda più l’atteggiamento sguaiato di  una  lunatic fringe  sciovinista   che quello  di una seria  forza politica rappresentata in Parlamento. Il che può essere un problema, quando ci si propone di governare una nazione.
Riassumendo, un leader abbastanza abile, un programma economico contraddittorio, un atteggiamento incivile verso l'immigrazione.  La crisi del centrodestra continua. O no? 

Carlo Gambescia               

lunedì 24 novembre 2014

Breve chiosa  (sociologica)  al post  di ieri sulla ND
La Nuova Destra e il problema delle generazioni



A integrazione delle   questioni affrontate ieri,  riteniamo che sarebbe utile un approfondimento  - in termini di studio della parabola delle minoranze creative (Moscovici) -   del ricambio generazionale fra collaboratori e lettori delle riviste ND.  Ossia, dando per scontata la centralità carismatica della figura di Tarchi (Weber), sarebbe interessante capire, per decennio, come sono si sono succedute le generazioni  in relazione alle successive “possibilità contemporanee” (Mannheim). 
Formuliamo alcune ipotesi (quindi da verificare).  Probabilmente l’età media di collaboratori e lettori è rimasta bassa: tra i venti e i trenta anni . Ciò è accaduto perché, con molta probabilità,  a ogni decennio, si è avuto un ricambio. Ma ecco il punto: ciò è  potuto avvenire  grazie alla sovrapposizione tra generazione anagrafica e generazione politica (Riley). Ci spieghiamo meglio: mentre la generazione anagrafica ha  durata temporale specifica (si va da cinque a venticinque anni, grosso modo) quella politica  è molto più lunga  (si va da venticinque anni  in su). Perciò  nella storia della ND,   la generazione anagrafica  si è andata a incrociare, a livello valoriale, con la non  contemporaneità della contemporaneità...  Detto altrimenti: con  la  struttura della trasmissione dei valori politici, quasi sempre lentissima, addirittura secolare.  Il che potrebbe spiegare la persistenza, sul piano dei contenuti - certo reinterpretati, eccetera -  della triade concettuale novecentesca (antiamericanismo, antiliberalismo, anticapitalismo).
Perciò,  concludendo, l’appeal della ND  è rappresentato per un verso dalla sua "capacità" di restare   fedele alla triade concettuale ricordata,  e dall’altro dalla presenza in ogni nuova generazione, di giovani "contemporanei! non legati alla "contemporaneità". O se si preferisce legati a una contemporaneità,  reinterpretata alla luce di valori trasmessi da altre generazioni politiche.
Sui  limiti  di questa posizione - in termini formali -  abbiamo cercato di rispondere ieri.  Si tratta infatti  pur sempre di una microcultura politica soggetta a dinamiche setta/movimento/istituzione (Troeltsch, Simmel, Alberoni)  A dire il vero,  l’analisi  richiederebbe  anche un approfondimento dei contenuti e quindi dei valori basici trasmessi. Ma questo crediamo sia compito, soprattutto,  degli storici delle idee e non di un umile sociologo.
Carlo Gambescia
                         

domenica 23 novembre 2014


Una storia “naturale” della Nuova Destra
Sopravvissuta a se stessa


Oggi proponiamo alcune riflessioni  sul fallimento (inutile usare eufemismi) della Nuova Destra (d’ora in avanti ND).  Il post ha uno stile “didattico”  e come il lettore scoprirà  non sono  ricordati i nomi dei protagonisti, né si entra nel merito delle idee propugnate.   Per dirla con Hume, si tratta di  una specie di storia ( o sociologia)  “naturale” della ND.    
Con ND, “fisicamente”,  intendiamo il gruppo di intellettuali  che ha ruotato, a partire dalla seconda metà degli Settanta del Novecento,  intorno a tre riviste o “veicoli” : “La Voce della Fogna”, “Diorama Letterario”, “Trasgressioni”.  Mentre dal punto di vista dei  “significati”, ossia della cultura politica,  intendiamo un nucleo di idee coagulatosi intorno a tre  punti: antiamericanismo, antiliberalismo, anticapitalismo.
Ci spieghiamo meglio:
Antiamericanismo, come critica al modello statunitense e all’egemonia politica nordamericana;
Antiliberalismo, come critica all’ individualismo liberale e al modello di democrazia rappresentativa;
Anticapitalismo come  critica all’individualismo economico e al modello di economia di mercato.
Che scopo aveva  il progetto primitivo?  Riformulare e  veicolare  culturalmente i contenuti appena  ricordati, prima all’interno del Movimento Sociale Italiano,  partito di provenienza dei “fondatori”, e dopo ( a distacco avvenuto) all’interno della cultura politica italiana antisistemica,  sinistra radicale  inclusa, e   in chiave addirittura egemonica.
Quale il punto di discrimine con la cultura politica di provenienza, quella neofascista? Nessuno in assoluto, perché i contenuti  individuati (antiamericanismo, antiliberalismo,  anticapitalismo) hanno sempre fatto e continuano a far parte - oggettivamente -  dell’immaginario neofascista.
Da ciò proviene  certa  ambiguità di fondo  che   ha finito per  giocare  un duplice  ruolo. E in che ambito?  In quello dei  processi di inclusione-esclusione che caratterizzano la vita delle minoranze politico-culturali  in cerca di legittimazione: da un lato, la ND, come soggetto del discorso  parlava un linguaggio infuocato, vicino a quello della sinistra radicale, dall’altro,  come oggetto del discorso  continuava a pesare su di essa, la settaria pregiudiziale antifascista. 
Di qui,  l’alternarsi  di  illusioni e disillusioni politiche cui si è affiancata in molti membri, con riflessi sul piano dell’interazione e della mobilitazione ( o smobilitazione), la graduale consapevolezza dello svanire  di qualsiasi prospettiva relativa alla conquista di status e conseguenti codici, riti di deferenza, incentivi, proprio  all’interno  di quella  galassia antisistemica che la ND si proponeva di egemonizzare, o comunque di avere come paritaria interlocutrice.  E qui va ricordato che l’appello alla lotta contro il  nemico esterno,  può rappresentare una strategia di successo, se si punta all’esclusione e al rafforzamento della coesione interna,  come nel modello setta, pur con tutti i suoi evidenti limiti.  Mentre rischia di  non funzionare, se si punta all’inclusione,  in quanto modello movimento, di  realtà  settarie.  Peggio ancora, quando si provi a puntare contemporaneamente, come nel caso della ND, all’inclusione-esclusione, nei termini di un disomogeneo modello setta-movimento, incapace, per costituzione, di conservare la coesione interna, perché in fondo troppo movimento a maglie larghe,  e di conquistare le  adesioni esterne, perché alla fin fine troppo setta per desiderare di  aprirsi del tutto.  
Purtroppo,  come insegna Arnold Toynbee,  quando una minoranza politico-culturale   perde  la sua  “sfida” storica,  o  si “disintegra” o si  “mummifica”. Nel caso della ND, si può parlare di mummificazione     
Qualcuno si chiederà,  forse, dopotutto, mancò la fortuna non l’onore… (per usare una terminologia cara alla destra neofascista).
Diciamo che  anche se fosse venuta meno la pregiudiziale antifascista,  le idee veicolate in Italia dalla ND  - oltre a riflettere, in modo poco originale  i contenuti (esclusa la pregiudiziale anticristiana) della sorella maggiore francese -  recepivano temi e  argomenti  trattati  meno superficialmente da altre culture politiche, a cominciare da quella marxista e neo-marxista.  Del resto,  la ND  in quarant’anni non è  riuscita a produrre   lavori  organicamente degni di essere  accostati ai  testi  pubblicati da alcuni  teorici,  neppure tra i maggiori,  della sinistra radicale .Il che spiega  il ricorso, da ultimo,  alle  “nuove sintesi”, quale  via di fuga.  La sintesi è il contrario dell’approfondimento, cui  però si ricorre inevitabilmente quando non si hanno idee proprie da sviluppare.  
La ND, ormai,  sopravvive a se stessa.   

Carlo Gambescia  

sabato 22 novembre 2014

Tra le  due foto sono trascorsi quasi settant’anni
Auguri e figli... maschi!


Un bacio appassionato tra  persone dello stesso sesso (anzi “genere”) indica, senza ombra di dubbio,  che la sensibilità collettiva è radicalmente cambiata. Meglio così, le discriminazioni di qualsiasi tipo  non ci sono mai piaciute. Si dice che, come l’altra scattata nel 1945, anche la foto del 2014, si appresti a fare il giro del mondo. Perfetto.
Iniziamo però da quello che non è mutato. Innanzitutto, la foto ritrae sempre  un militare. Insomma,  la guerra non sembra essere mai finita...  Un militare, attenzione,  americano:  il che significa che gli Stati Uniti  sono ancora in prima linea.  Sullo sfondo però,  c’è una gigantesca bandiera,  non un rassicurante paesaggio urbano. Qui  qualcosa è cambiato:  gli Usa, soprattutto dopo le Torri Gemelle,  si sono fatti più nazionalisti. E si vede. Qualcuno dice imperialisti. Sospendiamo il giudizio ma registriamo il fatto.
Nel 1945 quel bacio anticonformista in mezzo alla strada tra due sconosciuti o quasi,  anticipava il sessantottino invito a fare l’amore invece della guerra. Una botta di vita  (libertaria),  niente male.  E quello della coppia gay 2014?  Diciamo che la foto è  freddina.  Molto borghese:  la coppia è  regolarmente sposata. Per dirla tutta, molto Patria e Famiglia. Quanto al Dio… Ci sta pensando seriamente Papa Francesco.  Comunque sia, auguri, di cuore, agli  sposi.  
Anche se sui figli maschi, come si auspicava  un tempo,  qualche rispettoso dubbio lo avanziamo.

Carlo Gambescia         

venerdì 21 novembre 2014

Dibattiti. La recensione di Alessandro Litta Modignani  al  libro di  Tristam Engelhardt, Dopo Dio
Pluralismo armato



Richiamiamo all’attenzione dei lettori  l' articolo  di Alessandro Litta Modignani  apparso sull'Agenda Liberale del Centro Einaudi (*Per quale ragione? Perché  vi si affronta, recensendo un ghiotto  libro di Tristram Engelhardt  (Dopo Dio. Morale e bioetica in un mondo laico, Claudiana 2014), una questione fondamentale: quella, per farla breve, della laicità interventista dello stato contemporaneo, soprattutto in Occidente,  criticata e condannata da Enghelardt.   Ora,  pur non avendo  letto  "questo" libro, conosciamo la tesi di fondo del suo autore.  Tra l’altro, chiaramente riassunta da Litta Modignani:

« [Scrive Engelhardt:] Il disegno di surrogare Dio  e la morale con lo Stato e la politica, è privo di fondamento e porta inevitabilmente al “declassamento e ridimensionamento della morale”. La morale laica, sostiene Engelhardt, non può essere “canonica” perché irriducibilmente plurale, ridotta cioè a un insieme di “stili di vita” inevitabilmente soggettivi e intercambiabili. Una morale laica sarebbe plausibile solo nella condizione del cosiddetto “Stato minimo”, cioè in una situazione nella quale lo Stato fosse legittimato ad agire solo con il permesso dei governati. In questo caso i cittadini, pur essendo “stranieri morali” l’uno rispetto all’altro, non si vedrebbero mai costretti ad agire contro i propri convincimenti e la propria coscienza. Ma questo Stato minimo, aggiunge maliziosamente l’autore, non esiste in nessuna parte del mondo. Nella realtà, esiste solo lo Stato “non minimo”, che Engelhardt chiama “socialdemocratico”. »  

In realtà, al di la dello stato minimo o massimo,  lo studio delle costanti  politiche ( o metapolitiche come ci piace dire),  insegna che la religione viene usata dalle élite politiche  come  strumento di legittimazione, sia in uscita (quando la si contrasta) sia in entrata  (quando la si impone).  Perciò, se  è  vero come sostiene Engelhardt  che  “bioetica  laica” sia sempre destinata a trasformarsi in “biopolitica”,  è  altrettanto vero che si tratta di una sorte che accomuna qualsiasi forma di credenza  quando la si trasferisce dagli azzurri  cieli della teoria alle assolate e aride  pianure della  pratica politica,  regno incontrastato delle passioni collettive e delle conseguenti  risposte organizzative. 
Indubbiamente, come sostiene Litta Modignani, il “pluralismo morale”, garantito dai moderni “sistemi  liberali e costituzionali”,  a differenza di quanto ritiene Engelhardt,  non va assolutamente considerato “come una disgrazia”. Diciamo che si tratta  di un bel  passo in avanti. Però, ecco il punto, come comportarsi  con i nemici reali del pluralismo? Con coloro che  vogliono imporre un solo punto di vista? Anche con  metodi violenti? Non pensiamo, ovviamente al “fondamentalista”  Engelhardt, profeta disarmato, per dirla con Machiavelli,  bensì ai  reali processi collettivi e organizzativi, segnati da  conflitti  quasi sempre   frutto di quell'  ineliminabile dialettica fra  stato nascente e istituzioni. O se si preferisce:  tra violenza movimentista  dal basso e forza istituzionale dall'alto.  Processi che riguardano la sfera interna ed esterna di ogni società. Perché, purtroppo, il "libero convincimento", bellissimo in teoria,  non è la regola...  Pertanto anche il pluralismo deve difendersi.  Insomma,  non può  non essere  un pluralismo armato…  O no? 


Carlo Gambescia


giovedì 20 novembre 2014

Il libro della settimana: Pascal Salin, Liberiamoci!, Liberilibri, Macerata 2014,  pp. 60, euro 12,00. 



In francese il titolo dell’avvincente  saggio di Pascal Salin,  Liberiamoci!, meritoriamente tradotto da Liberilibri, suona  come una carica di cavalleria: Libérons-nous!  Purtroppo,  il punto è che, come ricorda l’antica saggezza popolare, non c’è sordo peggiore di chi non vuol sentire… Detto  altrimenti: in Italia come in Francia (dove è anche peggio), patria dell’economista liberale, si continua a confidare, cittadini inclusi,  nell’interventismo  dello  stato e  nella spesa pubblica. Ignorando, o meglio fingendo di ignorare,  che  la mano visibile dello stato, sempre troppo lunga, come quella dei ladri,  conduce, prima o poi, alla schiavitù tributaria. Tema, quest’ultimo, affrontato da Salin, e in modo memorabile, ne  La tirannia fiscale, uscito sempre per i tipi di Liberilibri (*).
Quel che colpisce di Liberiamoci!, saggio a metà strada tra la doverosa esortazione  e il brillante pamphlet, è l’approccio, come dire, pre-economico. Ci spieghiamo meglio, citando dal saggio stesso.

Voi siete essere umani, vale a dire esseri in grado di scegliere ciò che sembra meglio per voi e per i vostri figli, in grado di decidere le azioni da intraprendere, in grado certamente, di sbagliare, ma anche di imparare ai vostri errori. In una parola di essere responsabili, vale a dire in grado di approfittare delle conseguenze favorevoli delle vostre decisioni o di sopportare quelle che non sono troppo conformi ai vostri desideri. Questa è le condizione umana. (p.15)
   
Occorre recuperare il nostro  senso di responsabilità. Ecco il punto.  Si parla di una virtù morale,  senza la quale nessuna iniziativa, economica o meno,  potrà  mai decollare.   Ciò significa, osserva giustamente Salin,  che non ci si deve aspettare 

nulla dallo Stato, il quale, anche se non ne siete perfettamente consapevoli, vi mantiene in schiavitù.  (Ibid.)  

E come?

Gli uomini dello Stato -  politici e burocrati -  vi dicono: “Avete il diritto alla salute, all’istruzione, all’abitazione o persino agli svaghi e alla cultura”. Ma, con il pretesto di soddisfare questi bisogni umani, essi confiscano decisioni che, per natura, dovrebbero appartenervi. Poiché sostengono di pagare per questi  beni essenziali che voi legittimamente desiderate, essi decidono al vostro posto la scuola dove andranno i vostri figli o l’ospedale  che si prenderà cura della vostra salute.  (p.16)

Un circolo vizioso -  si crea  uno pseudodiritto soggettivo per controllare meglio i cittadini -  che tra imposte e contributi sociali assorbe  «la metà della ricchezza  creata ogni anno dal lavoro di tutti» (p. 17).  Paradossalmente, il cittadino paga di tasca propria  per essere asservito e trattato male, visto anche il cattivo  funzionamento dei servizi pubblici… Sicché,  più paga, più lo stato si estende, ed estendendosi,  accresce i suoi bisogni finanziari  insieme  alla necessità di spremere sempre più  i cittadini. I quali, apparentemente, ignari del funzionamento del meccanismo che li sta stritolando, continuano a tendere la mano, addirittura invocando più diritti ancora.  Un caso da manuale di  masochismo sociale.  Ma lasciamo la parola a Salin:

Non è una libertà umana fondamentale quella di poter decidere da sé l’organizzazione della propria vita? E non sarebbe più dignitoso che possiate decidere voi stessi (…) sia l’età in cui volete andare in pensione che il vostro numero di ore di lavoro settimanali? Non siamo le api intercambiabili di un grande alveare umano. Riconoscere e rispettare la diversità delle persone, la diversità delle loro aspirazioni e della loro possibilità vorrebbe dire rispettare la dignità umana (p. 19).

Perciò,  per  entrare nel concreto,  Salin propone di recuperare la libertà  di contrattare, libertà che implica, la massima autonomia tra privati e di riflesso,  la totale  neutralità dello stato,  non più “dispensatore” di privilegi,  perché

se ciascuno, pensando di perseguire il proprio interesse personale, ottiene un privilegio a spese degli altri  grazie all’esercizio della coercizione statale, tutti finiscono per essere vittime dei regali e delle protezioni fornite agli uni e agli altri.  (p. 34)

Dal momento che gli uomini politici, pur asserendo di agire per il bene comune, in realtà,

essi agiscono per interesse poiché la loro prima preoccupazione consiste nell’ottenere il voto di coloro che pretendono di soddisfare. Essi non difendono l’interesse generale ma interessi molto particolare e, peraltro, la loro azione rischia davvero di nuocere a tutti (Ibid.).

In effetti, come Tocqueville insegna,  quando la  democrazia  non  favorisce la  responsabilità individuale, apre la strada all' interventismo statale,  rischiando di  trasformarsi nella peggiore tirannia, animata, di volta in volta,  da pseudomaggioranze di cittadini favoriti  e asserviti,  mai casualmente. Soprattutto in campo economico. E in quale modo?  Puntando su divieti, regolamentazioni e finanziamenti a pioggia, rigorosamente ad hoc..  Di qui però,  disoccupazione, tasse elevatissime, zero innovazione.   
Insomma, serve un cambio di mentalità:  un fatto morale,  prima che politico ed economico.  Che deve partire dal basso: dall'individuo.  Mai dall'alto ovviamente, come invece avviene  in sede europea,  dove infatti  domina il paternalismo vecchia maniera  di  socialisti e cattolici: altro che neoliberismo selvaggio… A Bruxelles di selvaggio c'è solo lo statalismo al quadrato.  
Insomma, i  cittadini devono capire da  soli: urge una rinascita morale. Di qui, il valore maieutico della denuncia  di Pascal Salin:

Liberateci! Liberateci delle vostre reolamentazioni soffocanti! Liberateci delle vostre imposte schiacciati! Lasciateci fare e vedrete cià che siamo in grado di fare. E voi cari lettori, spezzate le catene della schiavitù ideologica  in cui politici, media, scuole e università cercano di rinchiudervi e proclamate incessantemente questo grido: LIBERIAMOCI! (p. 56)

Che altro aggiungere? Buona lettura.      

Carlo Gambescia   




mercoledì 19 novembre 2014

Luoghi comuni politici
Che c’entra il 
fascismo con la destra?


I luoghi comuni non ci piacciono, soprattutto quelli politologici.  Tra questi  c' è l’insistenza  nel ritenere di destra l’arcipelago "neopostfascista"  (per intendersi  quel che resta degli ex missini) e di riflesso, cosa più grave,  il fascismo stesso,  al quale del resto  il Movimento sociale italiano si richiamava esplicitamente.
Crediamo - come rilevò Norberto Bobbio - che il punto discriminante  tra destra e sinistra sia il concetto di eguaglianza.  La sinistra è per l’eguaglianza, la destra no.  Messa così, però, destra e fascismo, ambedue antiegualitari,  sarebbero fenomeni politici da catalogare a destra. Discorso chiuso.
Invece, non è così.  Diciamo che la destra rifiuta l’ eguaglianza sostanziale mentre il fascismo rifiuta anche l’eguaglianza formale.  Il che implica una notevole divergenza.  Perché il fascismo all’egualitarismo formale-sostanziale sostituisce il livellamento “scalare” dall’alto, nel quadro di una gerarchizzazione politica e sociale. Sicché, il supremo decisore del merito individuale resta  lo Stato (quello con la esse maiuscola). Per contro, la destra conservatrice,  liberale, democratica al rispetto dell’eguaglianza dinanzi alla legge,  affianca la fiducia nei  naturali  meccanismi selettivi sociali ed economici. Il supremo decisore del merito individuale, non è la mano visibile dello stato,  ma quella invisibile del Mercato (quello con la emme maiuscola).
Ora,  si può anche non  essere d’accordo con la visione  liberale, però se, come abbiamo precisato, il credo nell’eguaglianza formale è il  valore discriminante tra destra e sinistra, il fascismo  non è sicuramente di destra. Allora è di sinistra?  Neppure, perché, i regimi comunisti e le più morbide socialdemocrazie, che pur con intensità diversa hanno criticato la democrazia formale,  si sono sempre  battuti, ovviamente con esiti storicamente differenti (e per fortuna...), in nome della democrazia sostanziale.  Il fascismo, invece ha sempre respinto, in linea teorica e di fatto,  sia la democrazia formale che quella sostanziale. Quindi, hanno ragione alcuni storici, quando accettano l’autodefinizione dei teorici fascisti,  di porsi al di là della destra e della sinistra in nome della nazione.
Il nazionalismo, infatti,  spiega l’avversione  per la democrazia rappresentativa (“ Il Parlamento? Sono in troppi a parlare!”) per l’economia di mercato (“Decide lo Stato, non un pugno di mercanti!”) per il Liberalismo (“ Liberali? Pappemolli!”).  Il che spiega anche l'attuale reviviscenza  tra i "neopostfascisti" di idee,  in chiave anti-Ue e anti-immigrati,  dall'inconfondibile  sapore fascista (" Gli usurai di Bruxelles!",  "Prima il lavoro italiano!").  Ma questa è un' altra storia... Però, ripetiamo, che c’entra il fascismo con la destra? E a maggior ragione con la democrazia liberale e democratica?

Carlo Gambescia 
                    

martedì 18 novembre 2014

 Un libro sulla  richiesta di rinvio a giudizio del P.M. Michele Ruggiero nel processo contro Standard & Poors  
Leggi rating, ma traduci  golpe
di Teodoro Klitsche de la Grange



Questo breve libro Un golpe chiamato Rating a cura di A. Sallusti, pref .di  Renato Brunetta, intr. di Elio Lannutti  (Il Giornale – Free Fundation) è la richiesta di rinvio a giudizio del P.M. dr. Michele Ruggiero (nella foto) nel processo a Trani  contro l’agenzia di rating Standard & Poors (presunta) rea di aver manipolato i dati del “rating” italiano nel 2011 per realizzare – e/o far realizzare – enormi profitti finanziari, a carico, s’intende, dell’Italia (e non solo).
Non è  nostro  compito  esporre i fatti, per lo più noti, che il lettore può agevolmente conoscere leggendolo; il pamphlet – perché tale è il genere letterario cui è meglio riconducibile (questo) atto processuale, è di rapida ed agevole lettura: piuttosto appare utile enumerare, al di là di un pura e semplice recensione, gli idola imperversanti  nell’opinione pubblica, che impediscono di ricondurre i fatti a presupposti e categorie acquisite da secoli e millenni nel pensiero e nell’azione politico-sociale, e sono altrettanto utili a chi ha realizzato  il grande imbroglio del rating – costato centinaia di miliardi al nostro paese- nel predare il popolo italiano di quanto lo siano ai Dulcamara di regime per emascularlo.
Il Primo. I “mercati” giudicavano l’Italia “inaffidabile”. Dato però che, come qualsiasi studente di economia (e giurisprudenza) sa, la formazione dei prezzi è soggetta a componenti psicologiche, basate su notizie e l’ “autorità” di esperti, chi manipola quelle notizie e gode di quell’“autorità” può orientare l’opinione pubblica, influenzare i prezzi dei titoli – almeno nel breve periodo –, realizzare enormi plusvalenze (e scappare con la cassa). Questo è il nocciolo del libro; ed è un fatto così noto e ripetuto che meraviglia quanto poco la vicenda fosse valutata sotto questo profilo dalla stampa italiana nel 2011. Il che alimenta più che il sospetto la certezza che, in gran parte, fosse della “partita”.
Va da se che i “mercati” hanno il pregio di essere entità impersonale ed “astratta”, al riparo da responsabilità – e rappresaglie politiche e giudiziarie, Ma se dall’impersonale astratto si passa al personale concreto, cioè ai manipolatori, il pregio suddetto viene meno. Ragione ottima per incolpare i “mercati” delle manovre di società e uomini identificabili.
Il Secondo. La politica (e lo Stato) non deve intervenire nell’economia. E qui si può essere, in linea di massima, d’accordo. Ancor più in un paese come l’Italia dove una cattiva politica, ancor oggi, è una palla al piede dell’economia nazionale. Ma nel caso d’eccezione (come in una crisi economica grave) è proprio il contrario; è opportuno farlo. Nell’alternativa tra pagare interessi da usurai e deprimere l’economia (cioè l’essenza dell’azione di governo degli ultimi anni), è doveroso proteggere gli interessi della nazione a scapito di quelli dei creditori. Il che non significa neppure, nel caso di specie, non pagarli, ma piuttosto non servirli, agevolandone i sopraprofitti e, al limite di contrastarli. Invece è capitato il contrario: che i governi italiani (e non solo) hanno fatto le colf della finanza (interna ed) internazionale.
Il Terzo. Questa non è politica, è economia. Circostanza in parte (ma solo in parte) vera.
Il primo luogo perché la crisi ha prodotto la caduta di quattro governi dell’eurozona (Grecia, Italia, Spagna, Francia). E ciò che ha effetti politici così evidenti è di natura politica. In secondo luogo la politica può essere fatta da Stati, o, nel “crepuscolo della modernità” sempre più da soggetti non statali (movimenti, partiti, lobbies, sette, bande e così via): il fatto di non essere statale non è affatto criterio distintivo del “politico”. Piuttosto è decisivo il rapporto col potere, il contrasto di volontà, e con i mezzi dell’azione politica. E qui l’oggetto è il potere, rappresentato da centinaia di miliardi, il bottino della guerra dello spread (un tempo si chiamavano tributi, indennità, riparazioni e così via). C’è poi un conflitto di volontà, ch’è l’essenza della guerra, il cui scopo, da SUN-TZU a Giovanni Gentile, è proprio di costringere l’altro a fare la propria volontà (ed interessi): nella specie a pagare interessi più alti sul debito pubblico.
Ed i mezzi: non c’è violenza. Ma chi ha mai sostenuto che mezzo esclusivo della politica sia la forza?  Non Machiavelli nel famoso passo sulla volpe (l’astuzia) e il leone (la forza); non i classici del pensiero politico da Bodin a Naudè a Schmitt a Pareto. Qua manca la violenza umana ma di frode ce n’è a josa. E con ciò lo strumento, per lo più complementare, ma talvolta alternativo alla violenza.
Infine chi pensa che la guerra e le forme complementari e simili (rivoluzioni, colpi di Stato) richiedono necessariamente l’uso della forza, ha sbagliato secolo. Come qualche anno fa dimostrarono i due colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui nel libro “Guerra senza limiti” proprio il carattere pacifista della nostra epoca comporta che il conflitto si sviluppi in forme “alternative” (non – violente) o a bassa intensità di violenza. E citavano, tra l’altro, proprio gli attacchi finanziari.
L’importante, in tal caso, è non dar ragione all’attaccante in omaggio ai “mercati” o al “diritto” – questo preso per immutabile.
Non sappiamo se l’eccellente lavoro del P.M. dr. Ruggiero darà un esito giudiziario positivo; ma averlo scritto è già un atto di anticonformismo e di coraggio. Resta il fatto che vicende come quelle della crisi del 2011 sono essenzialmente politiche, hanno conseguenze politiche, evidenziano responsabilità politiche e richiedono valutazioni politiche: e la giurisdizione per queste è una camicia troppo stretta. Vale il giudizio di Machiavelli che in questi casi non è utile il giudizio “dei pochi”. È necessario quello dei “tutti” cioè dei cittadini, per evitare che l’accaduto si ripeta, prendere le contromisure adeguate, ed evitare soprattutto l’ottundimento del discernimento popolare, ossia ciò su cui si basano trame del genere.

Teodoro Klitsche de la Grange


Teodoro Klitsche de la Grange è  avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" ( http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009),  Funzionarismo (2013).

lunedì 17 novembre 2014

Riflessioni
I misteri della malattia e della morte



 Un osservatore francese,  dopo che Giovanni Paolo II, in una delle sue ultime  apparizione non era riuscito a pronunciare parola , disse che  si trattava di una specie di dantesco contrappasso. Il Papa, più mediatico della storia, era rimasto senza parole…
Lo stesso si potrebbe dire, fatte le debite proporzioni,  di Silvio Berlusconi,  di nuovo  ricoverato  per uveite. Questa volta in gioco non è la parola, ma la vista…  E la televisione commerciale, da lui creata dal nulla, si sente e si… vede. E lui, in teoria, rischia di non vederla più...
Si dirà, che il Papa di Mediaset è in condizioni fisiche migliori  del Papa polacco.  E che l’uveite non è una malattia grave.  Giusto, però,  come dire,  certe coincidenze colpiscono.  
Ma le "stranezze" sono tante, troppe. Nella vita normale, chi prega  e applica il Vangelo, talvolta si ammala e muore tra atroci tormenti,   chi invece dedica la sua vita al  male, spesso prospera e vive a lungo.  Chi vive di parola, la perde all’improvviso. Chi tace, la conserva  a lungo. E così via. Perché tutto questo male? Che per giunta investe una  vita breve  come un sospiro...
Naturalmente, le grandi religioni offrono spiegazioni, più o meno convincenti. Altri, i laici,  imputano queste “stranezze” al caso e alla necessità di una vita che è  fuori di noi.  
Però, si continua a vivere e morire, senza capire fino in fondo perché. 
Carlo Gambescia


          

domenica 16 novembre 2014

La manifestazione contro Marino e l’ intervento sul  "Tempo" di Angelo Mellone
Vuoti di memoria


Sempre a proposito della manifestazione romana  contro Marino, oggi “Il Tempo” (*) pubblica un intervento di Angelo Mellone, ragazzetto  intelligente,  che ha fatto strada,  passando  dall'agitato movimentismo alemanniano  al'impettito  sedentarismo  di viale Mazzini.  Il punto  è  che il Nostro  soffre  di amnesia.  D’accordo,  sembra sia una malattia molto diffusa tra i dirigenti  della televisione pubblica .  Però santo cielo Mellone deve curarsi...  Ma  leggiamo: 

Sulle periferie romane si stanno scaricando fiumi di retoriche contrapposte - la più insopportabile delle quali è la "guerra tra poveri", lettura riduzionista di un dramma in atto – mentre si tratta di un fenomeno purtroppo prevedibile e che insipienza politica, incuria amministrativa e un certo paraculismo hanno evitato di affrontare quando il problema si stava creando: non adesso e non tre o quattro anni fa, ma quando i processi migratori extraitaliani hanno cominciato a condensarsi nei quartieri periferici della Capitale. Quello a cui stiamo assistendo non è un rigurgito di razzismo, e non è – appunto – guerra tra poveri. È altro: è la fotografia struggente e impietosa del fallimento del modello italiano di integrazione degli stranieri. Modello che, semplicemente, non è mai esistito. 


Caro Mellone,  il modello  è esistito e pure razzistello:  quello della Bossi-Fini.  Perché non scriverlo esplicitamente?  Vuoti  di memoria…  Ma non finisce qui:

Così, che cosa è stato fatto? Si è fatto in modo che i flussi migratori si scaricassero sulle zone più lontane e infrastrutturalmente meno attrezzate della nostra capitale, senza programmazione, senza un’idea di integrazione, senza un ragionamento complessivo su come impedire una proliferazione di piccoli e grandi ghetti in quartieri che già contenevano delle zone di disagio.   

Caro Mellone,   appena si parlava di aprire un centro di accoglienza ai  Parioli, subito  i neopostfascisti romani, appoggiati dai consiglieri comunali berlusconiani per caso, scendevano  in piazza con il “popolo dei Parioli”,  come  oggi  aizzano  il "popolo  di Tor Sapienza".  Perché  non scriverlo?  Altri vuoti di memoria…
Guerre tra ricchi e poveri?  Guerre tra poveri  e ricchi contro altri poveri?  No, razzismo diffuso. Punto e basta.  Su una cosa però siamo d’accordo con Mellone,  il  “paraculismo”. Anche di scrive certi interventi…

Carlo Gambescia