venerdì 24 luglio 2009

Cari amici lettori,
 arrivederci all'ultima decade di agosto, o giù di lì...


Il "Nuovo Welfare" secondo il decreto anticrisi 
C'è del metodo in questa follia...




Partiamo da un "professore" del Corriere della Sera.
Ieri Maurizio Ferrera, politologo ed esperto di questioni di welfare, a proposito di queste due misure recepite dal decreto anticrisi,

L'età di pensiona­mento delle dipendenti pubbliche verrà progressi­vamente elevata da 60 a 65 anni (come quella degli uomini), così come stabili­to dalla Corte di giustizia europea. A partire dal 2015 i requisiti anagrafici per l'accesso alla pensione ver­ranno periodicamente ade­guati all'incremento della speranza di vita: se gli ita­liani (uomini e donne) vi­vranno più a lungo, an­dranno in pensione un po' più tardi”,
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ha manifestato tutto il suo entusiasmo:
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Le due misure non avranno un grande impat­to finanziario ma introdu­cono due promettenti in­novazioni istituzionali. Le risorse risparmiate dovran­no essere usate «per inter­venti dedicati a politiche sociali e familiari, con par­ticolare attenzione alla non autosufficienza». E' forse la prima volta che si istituisce un collegamento diretto e formale tra una «sottrazione» in campo pensionistico e una «addi­zione » nel campo dell'assi­stenza e dei servizi alle per­sone. L'impegno sarà ri­spettato?”.
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Ora, ci chiediamo se istituire “collegamento diretto e formale” tra l’annacquamento del diritto alla pensione (la sottrazione) e, semplificando, il famigerato “ diritto di accompagno”, i trenta denari di Giuda distribuiti alle famiglie (l' addizione), affinché gli anziani non autosufficienti non gravino più "fisicamente" sulle strutture pubbliche (perché il succo della misura è questo), sia compatibile con una politica di welfare rispettosa dei diritti sociali di tutti cittadini, uomini e donne. Perché qui in gioco non è il "genere" del lavoratore, ma il suo "diritto" a vivere con dignità. Soprattutto gli ultimi anni.
Bene, secondo Ferrera e il Governo il collegamento è compatibile; secondo noi, no. Per quale ragione?
Perché lo scambio, virtuoso solo in termini di bilancio, tra previdenza e assistenza (due sacrosanti diritti sociali) penalizza coloro che hanno pensioni basse (la maggioranza dei cittadini, in futuro). I quali, in questo modo, potranno fruire solo di un’assistenza, che graverà su una previdenza, pagata dai lavoratori con l’allungamento dell’età pensionabile.
In buona sostanza si lavorerà fino e oltre i sessantacinque anni, perché, tra l’altro, è previsto un meccanismo - definito da Ferrera “promettente” - grazie al quale la soglia ana­grafica alla pensione verrà automaticamente, modificata sulla base dei dati sull’allungamento del ciclo di vita, rilevati periodicamente dall’Istat. Per poi “godere”, viste le prevedibili precarie condizione di salute - dal momento che nell'epoca "dello stress" una vita più lunga non sempre è sinonimo di buone condizione fisiche - di una badante pagata con i risparmi sulla spesa pensionistica, grazie all’automatico elevamento dell’età pensionabile e all’uso di coefficienti per il calcolo delle pensioni scalarmente sempre più bassi, introdotti da Dini e confermati da Prodi e Tremonti.
Se non è follia questa... Ovviamente, con un suo metodo . Altrimenti Ferrera non sarebbe lì ad applaudire.

Carlo Gambescia

giovedì 23 luglio 2009

Il libro della settimana: Paolo Prodi. Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino 2009, pp. 396, euro 29.00.

https://www.mulino.it/isbn/9788815130747?forcedLocale=it&fbrefresh=CAN_BE_ANYTHING


Piccola premessa. Il ghiotto volume di Paolo Prodi (Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino, Bologna 2009, pp. 396, euro 29.00 ) si ferma all’inizio del XIX secolo. E quindi non giunge fino ai giorni nostri, benché nelle conclusioni l’autore si lasci andare a interessanti valutazioni sul presente e sul futuro, sulle quali torneremo.
Questo per far capire subito ai non specialisti, che quello che abbiamo tra le mani non è un pamphlet giornalistico, ma un solido libro storico. Scritto da uno studioso insigne, oggi professore emerito di Storia moderna dell’Università di Bologna, nonché fratello di Romano, già Presidente del Consiglio e docente di economia.
Un testo che completa un brillante percorso di ricerca sul concetto di forum. Prima visto come luogo in cui si incarna il patto politico (Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, il Mulino 1994); poi quale luogo in cui si amministra la giustizia (Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino 2000); e ora come mercato. Ma anche quale “occasione” che può fare l’uomo ladro, per dirla con un antico adagio.
Perché lo abbiamo definito “ghiotto” ? Prodi, da storico di razza, privilegia sempre la complessità, seguendo i sicuri sentieri di una storiografia fatta non solo di risposte ma soprattutto di domande. Pertanto il lettore vi troverà soprattutto fatti, sottilmente analizzati, e mai petizioni di principio.
Ma qual è la sua tesi? Facciamo parlare l'autore.
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“Qui non intendo… esaminare l’istituto del ‘furto’, il comportamento furtivo, nella dimensione astorica onnipresente in ogni società, dalle più arcaiche sino a oggi, ma nel suo divenire storico concreto in rapporto con la genesi e lo sviluppo del mercato occidentale, come tendenza a impadronirsi dei beni del prossimo attraverso il mercato, infrangendo o deformando le sue regole” (p. 17).
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Attenzione: infrazione o deformazione delle regole di mercato. Ecco la differenza fra Prodi e certa storiografia “mercatista”, che invece ritiene il mercato sano in se stesso. Secondo lo storico bolognese il mercato in Occidente si è sviluppato, tra i secoli XI e XVIII, non per intervento di una specie di spirito santo capitalistico ma attraverso l’interazione dialettica, dura ma creativa, fra stato, chiesa e istituzioni economiche. Nelle vesti spesso sontuose di papi, chierici, re e principi, mercanti e finanzieri. Un'interazione che ha condotto alle regole, imposte dallo stato.
Prodi tratteggia forze storiche concrete e si riferisce a concezioni etiche e politiche reali; studiandole, per dirla in sociologhese, "in situazione". Cosicché il lettore può scoprire da solo, come il rispetto delle regole di mercato implichi sempre l’esistenza di uno stato che si comporta da stato (e che dunque legifera e controlla ) e di un mercato che si comporta da mercato ( e che quindi scambia beni e non produce, almeno direttamente, quelle stesse le regole cui poi dovrebbe obbedire).
Semplificando: dove c’è il predominio di una sfera sull’altra, prevale il furto ( o dello stato o del privato) a danno della comunità. Dove c'è equilibrio conflittuale, la comunità prospera. Ecco la lezione della storia moderna: quella di un capitalismo socialmente ben temperato, grazie al dualismo permanente, necessario e creativo tra stato e mercato. Dove il "tasso" di onestà dipende, come dire dalla qualità della "lotta per le regole", condotta, in primis dalle istituzioni politiche. Si tratta di una chiave sociologica molto interessante, quella della sociologia del conflitto, che va da Gumplowicz a Dahrendorf, intelligentemente reinterpretata da Prodi in termini storici.
Un dualismo che vede soprattutto nei secoli XVI-XVIII il conflitto tra Stato Assoluto (ma in via di democratizzazione) e "Repubblica internazionale del denaro" (banchieri e finanzieri). Dal quale scaturirà il moderno capitalismo, con i suoi pregi e difetti. Conflitto - come nota Prodi nelle sue riflessioni finali – che nel secolo XIX sfocerà nella vittoria dei sistemi imperiali (in particolare quello britannico) . Detto altrimenti: nello “stato chiuso”. E dunque nel predominio del pubblico sul privato. Al quale però succederà dopo la parentesi dei totalitarismi e del welfarismo, un mercato fin troppo aperto, quello della globalizzazione senza regole: del predominio del privato sul pubblico.
Molto interessante è la ricostruzione dell’evoluzione dell’idea di furto:
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“Il concetto e la prassi di “furto - scrive l’autore - sono cambiati radicalmente in Occidente insieme ai concetti di ’ricchezza’ e di ‘povertà’… Questo mutamento ha costituito una componente importante sulla strada verso la modernità. Si è passati dalla concezione immobile basata sulla tradizione biblica e sulla legge naturale, ripresa dal diritto romano, del furto come violazione del principio fondamentale della giustizia (suum cuique tribuere: quindi furto come sottrazione di cosa altrui invito domino) a una concezione dinamica del furto come infrazione delle concrete regole della comunità umane nel possesso e nell’uso dei beni di questa terra, come violazione fraudolenta di un patto contrattuale, sia formalmente stipulato tra due o più soggetti, sia implicitamente compreso nei patti di convivenza di una comunità” (p. 109).
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Questo per il passato. E oggi? Secondo Paolo Prodi:
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“Il problema è che davvero è scomparso il confine tra il furto e il comportamento onesto, tra il lecito e l’illecito: al centro della scena si pongono a mio avviso tre problemi fondamentali: il formarsi di un capitalismo finanziario del tutto nuovo, delocalizzato invisibile e irresponsabile; il problema della limitazione delle risorse del pianeta…; il problema delle minacce incombenti sulla sopravvivenza dell’ambiente naturale…” (p. 377).
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Problemi “politici” non di poco conto. Ai quali uno storico difficilmente può rispondere. Forse si potrebbe chiedere a Romano Prodi. Ma solo dopo aver letto il bel libro del fratello Paolo.

Carlo Gambescia

mercoledì 22 luglio 2009

 Incontri su You Tube
Parlami d’amore Mariù



Chi non ha amato il Vittorio De Sica regista. E i suoi film, soprattutto quelli neorealisti: un pezzo di storia d’Italia.
Ma c’è anche il De Sica, uomo disinvolto e galante delle commedie degli anni Trenta, dirette da Mario Camerini. Appena trentenne, bello e possibile.
Bene, abbiamo individuato su YouTube un video molto particolare, che ripropone uno dei momenti più teneri de Gli uomini che mascalzoni. ( http://www.youtube.com/watch?v=Cmbj9dghLo4
). Film di esordio, dove De Sica balla e conquista la sua Mariù, l’attrice Lya Franca, sulle note della omonima canzone di Neri e Bixio:
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Come sei bella, più bella stasera, Mariù!/Splende un sorriso di stella negli
Occhi tuoi blu!/ Anche se avverso il destino domani sarà
Oggi ti sono vicino, perché sospirar?/Parlami d'amore, Mariù!
Tutta la mia vita sei tu!/Gli occhi tuoi belli brillano,
come due stelle scintillano!/Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!/Qui sul tuo cuor non soffro più:
Parlami d'amore, Mariù!/So che una bella e maliarda sirena sei tu!
So che si perde chi guarda quegli occhi tuoi blu./Ma che mi importa se il mondo si burla di me.
Meglio nel gorgo profondo ma sempre con te,/sì con te.
Parlami d'amore, Mariù!/Tutta la mia vita sei tu!/
Gli occhi tuoi belli brillano/Come due stelle scintillano!/Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!/Qui sul tuo cuor non soffro più:
Parlami d'amore, Mariù.
( http://it.wikipedia.org/wiki/Parlami_d%27amore_Mari%C3%B9)

Il testo della canzone e la trama del film ( http://www.mondotram.it/tram-cinema/uomini-mascalzoni/
) non sono sicuramente di grande originalità. Ma si era durante il fascismo e anche la conquista della normalità, tra i Cesari di cartapesta era importante…
Struggente l’attimo - oggi non politicamente corretto - in cui De Sica stringendo a sé una giovanissima Lya Franca la fissa e le sussurra, pur cantando: “Gli occhi tuoi belli brillano/Come due stelle scintillano!” E lei abbassa lo sguardo…
Mia madre, che conosceva il film a memoria, ogni volta che lo rivedeva in mia compagnia, appena iniziavo a spiegarle l'importanza storica del femminismo, mi ripeteva lapidaria, assumendo lo stesso atteggiamento di Toro Seduto davanti ai furbi funzionari del governo americano: " Donne con le gonne. Non ne fanno più, purtroppo".

Forse aveva ragione. Forse. 

Carlo Gambescia

martedì 21 luglio 2009

Il caso di Luca Bianchini 
Tra conoscenza e virtù





Su Luca Bianchini, il presunto “stupratore seriale" di Roma, dopo la "partenza a razzo" dei media, sembra essere scesa nell'ultima settimana una coltre di silenzio. Perché?
Difficile rispondere. Pare che verrà ripetuta la prova del Dna. In realtà, contro questo trentenne, a dir poco incolore ( e anche questo per i telegiornali, dopo poche ore, era già diventato un gravissimo indizio di colpevolezza) si è applicato il famigerato schema del mostro da "inchiodare" sulla prima pagina.
Schema che viene utilizzato dai media, ignorando la regola (di civiltà) giuridica che non si è colpevoli fino a pronuncia definitiva. Inoltre, nelle redazioni, nessuno si è interrogato sul fatto, che anche in caso di colpevolezza ( per ora si sono addebitati a Bianchini tre stupri), saremmo comunque davanti a una personalità fortemente disturbata. Un uomo, anzi una per-so-na, non da linciare, castrare o rinchiudere in gabbia, ma da curare.
Il comportamento dei media, con la sua ritualità (indicare un capro espiatorio e scavare nel suo passato, per comprovarne la “vera” natura di mostro) è un elemento che indica come i fatti sociali (o le rappresentazioni sociali dei fatti) - in questo caso il “fatto mostro” - abbiano consistenza propria. Ormai, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno, esiste il “Mostro Bianchini” (e qui si potrebbe risalire fino al famigerato caso Girolimoni...).
Il che rinvia a un fatto sociologico più profondo. Quale? La necessità sociale e ciclica di trovare un capro espiatorio. La cui figura di "colpevole perfetto" svolge una funzione di continuità identitaria e di rassicurazione simbolica. I gruppi sociali - semplificando - per sentirsi vivi, hanno la necessità di designare un nemico: dal “mostro quotidiano” ai “mostri incappucciati” che deciderebbero i destini del mondo.
E Bianchini, colpevole o meno, è finito negli ingranaggi di una macchina che pare non avere pietà di nessuno.
Infine, tutta la vicenda pone una questione più sottile. Quella del problema morale e sociologico del rapporto tra virtù e conoscenza, per usare una terminologia alta. Nel senso che i politici, i magistrati e i giornalisti, o comunque coloro che sono dotati di una conoscenza superiore alla media dei meccanismi sociali, di regola, non fanno nulla per evitare la “caccia al mostro”.
Finora nel caso Bianchini, soprattutto politici e giornalisti, probabilmente grazie alle solite "imbeccate", hanno dato il peggio di se stessi.
Il che significa, che la conoscenza dei fatti sociali, ovvero del rischio ciclico - accertato sociologicamente - di trasformare una persona innocente in capro espiatorio, non collima con la virtù, ossia con la disposizione, che pur esiste nell’uomo, a perseguire e praticare il bene, e dunque a fare il possibile perché nessuno possa soffrire ingiustamente: dal presunto colpevole alle vittime innocenti.
Ma questa, probabilmente, è un'altra storia. O no?

Carlo Gambescia

lunedì 20 luglio 2009

La "scarsa adesione" dei palermitani al diciassettesimo anniversario dell'uccisione del giudice Paolo Borsellino

Eroe, a prescindere ( e non per caso)




PALERMO - La deposizione di una corona di fiori, nella caserma della polizia 'Lungaro', a Palermo, ha dato il via alle commemorazioni organizzate per il diciassettesimo anniversario della strage di via D'Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Alla cerimonia, disertata dalla cittadinanza, hanno partecipato, tra gli altri, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, il vice capo della polizia Francesco Cirillo il questore di Palermo Alessandro Marangoni, il comandante della Regione dei carabinieri Enzo Coppola, il sindaco Diego Cammarata e i vertici locali delle forze dell'ordine. Presenti anche il figlio e la moglie di Borsellino e la sorella di Giovanni Falcone, magistrato assassinato due mesi prima dell'eccidio di via D'Amelio.Un centinaio di persone stanno partecipando alle manifestazioni organizzate, in via D'Amelio, a Palermo, dal comitato antimafia '19 luglio 2009' in occasione del diciassettesimo anniversario dell'uccisione del giudice Paolo Borsellino. Pochissimi i palermitani presenti. E proprio la scarsa adesione della gente ha suscitato la reazione dei manifestanti che hanno gridato, dal palco allestito nella via in cui fu piazzata l'autobomba che assassinò il magistrato: "vergogna, vergogna". Gli organizzatori avevano invitato gli abitanti dei palazzi di via D'Amelio ad esporre lenzuoli bianchi alle finestre; ma l'appello non è stato accolto e le serrande di molti appartamenti sono rimaste abbassate. Alla dura protesta del comitato ha risposto, però, Rita Borsellino, sorella del giudice ucciso, che, scesa in strada dalla casa della madre, ha replicato: "Ci vuole più coraggio a restare qui ogni giorno, che scendere in piazza solo per le commemorazioni". Alla manifestazione partecipano i ragazzi dell'associazione calabrese 'Ammazzateci tutti'' e gruppi scout di tutta Italia che la notte scorsa hanno fatto una veglia in via D'Amelio. Sul palco si sono alternati Salvatore Borsellino, fratello del magistrato, e semplici cittadini che hanno ricordato la figura del giudice.

( http://www.ansa.it/opencms/export/site/visualizza_fdg.html_1619394827.html
)

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Come commentare la “scarsa adesione”dei palermitani?
Sui rapporti mafia-società siciliana (e italiana), grosso modo, esistono quattro tesi.
La prima: antropologica. La mafia è nel Dna dei siciliani, e perciò mai sarà sconfitta.
La seconda: complottista. La mafia, gode della connivenza del potere, e pertanto, per vincerla, è necessario fare prima pulizia in alto.
La terza: sociologica. La mafia, prima che un fatto criminale è un fenomeno socioculturale. E quindi la si può sconfiggere, solo (ri)partendo dal basso, dalla scuola e dai comportamenti quotidiani.
La quarta: repressivo-efficientistica. La mafia può essere vinta, solo impegnando un crescente un numero di uomini e mezzi (dai magistrati ai poliziotti).
Sulla base di queste quattro interpretazioni, come può essere spiegata la “scarsa adesione” di ieri?
E’, ovvio, che per coloro che difendono la tesi antropologica, una manifestazione andata deserta, è un fatto pressoché scontato.
Mentre per i complottisti, in Sicilia starebbero vincendo le "forze del male". Di conseguenza il fallimento della manifestazione di ieri sarebbe frutto di sotterranei e astuti input giunti da Roma
Per i difensori della tesi sociologica, invece, la società siciliana, potrebbe essere stanca di dichiarazioni e discorsi politici, ai quali non fa seguito alcuna vera battaglia nei riguardi della “mafia quotidiana”.
Infine per i sostenitori della repressione punto e basta, dietro la scarsa adesione dei palermitani, vi sarebbero le capillari minacce da parte del potere mafioso locale, incontrastato in termini di uomini e mezzi.
Naturalmente, ad esclusione della tesi antropologica, le altre tre spiegazioni potrebbero essere riprese e sviluppate anche in chiave complementare.
Quanto detto, ovviamente, vale soltanto sul piano razionale e argomentativo. Su quello irrazionale, delle emozioni, restano negli occhi di tutti noi le malinconiche immagini di quelle finestre di via D’Amelio, spoglie, senza lenzuoli bianchi…
Chissà Borsellino e i suoi uomini, di lassù, che avranno pensato. 

Carlo Gambescia

venerdì 17 luglio 2009

Polemiche
“Bamboccioni”? Al tempo...




Ieri sul Corriere della Sera è apparso un servizio sulla cosiddetta generazione “né-né” : i giovani che non avrebbero voglia “né di lavorare né di studiare”(http://www.corriere.it/cronache/09_luglio_16/mangiarotti_rapporto_gioventu_e39551a0-71ca-11de-87a4-00144f02aabc.shtml ) . In parole povere i cosiddetti “bamboccioni”, come li definì Padoa-Schioppa, Ministro dell’Economia dell’ultimo Governo Prodi.
Il Corriere ha ripreso alcuni dati inediti del "Rapporto Giovani 2008", prodotto dal Dipartimento di Studi sociali, economici, attuariali e demografici della Sapienza di Roma per conto del Ministero della Gioventù. Vediamoli insieme.
Nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni, su 3 milioni circa di adolescenti ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano (il 9%); 50 mila ragazzi ( l’1,6%) che di necessità hanno fatto “virtù”: al momento non cercano lavoro ; 11 mila invece non sono interessati a lavorare o studiare neppure in futuro. Si registra una analoga tendenza tra i giovani dai 25 ai 35 anni, (in totale 8 milioni): un milione e novecentomila non studiano e non lavorano; circa uno su quattro (meno del 24%). Un milione e 200 mila (circa il 15%) gravitano nella sfera della disoccupazione per ragioni varie, in particolare scoraggiamento. Mentre settecentomila (l’8,75 %) sono “inattivi convinti”: non cercano un lavoro e non sono disposti a cercarlo in futuro.
Ora, per la fascia di età tra i 15 e 19, viste le basse percentuali di inattivi per convenienza e/o scelta (anche per il futuro), non è possibile rilevare alcuna tendenza precisa verso una “società del non lavoro”. Tuttavia una tendenza va registrata: che la “disaffezione” al lavoro tende ad aumentare con l’età. E tocca punte relativamente più alte tra i 25 e i 35 anni. "Relativamente" perché gli “inattivi convinti”, all'interno di quest'ultima fascia, non sono tanti: poco meno di 1 su 10 .
Pertanto per la fascia tra i 15 e i 19 anni siamo al di sotto della soglia di rilevanza sociologica. Mentre per la fascia tra i 25 e i 35 anni sarebbe interessante capire le ragioni di quei 700 mila giovani che rifiutano il lavoro, come dire “ideologicamente”. Sarebbe utile conoscerne i titoli di studio, la preparazione culturale l’estrazione familiare e sociale, l’area di residenza e la precedente carriera lavorativa (se vi è stata). Perché, per dirla fuori dai denti, la storia dei “bamboccioni”, sponsorizzata tra le righe dal Corriere della Sera , sembra non avere alcun fondamento analitico ed empirico.

Anche perché se la scelta del giovane è ideologica, e dunque culturale, non può rinviare, almeno direttamente, a convenienze di tipo economico legate a genitori premurosi e danarosi che si tengono i figli ultramaggiorenni in casa... Di qui la necessità di giovarsi, prima di trinciare superficiali giudizi sulle tendenze in atto, di una migliore e più sicura base concettuale e osservativa.
In realtà, la retorica giornalistica sui “bamboccioni” mostra di essere soltanto il velo che una società, incapace di motivare realmente i giovani creando “veri” posti di lavoro, stende sulla propria ipocrisia. 
Carlo Gambescia

giovedì 16 luglio 2009

Il libro della settimana: Gianfranco Miglio, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Giovanni Maria Lampredi e Ferdinando Galiani, pref. di Lorenzo Ornaghi, Nino Aragno Editore, Torino 2009, pp. XL-262, euro 13,00 - 


www.ninoaragnoeditore.it


“Professore universitario e Senatore della Repubblica, un uomo libero e grande”. Queste parole sono incise sulla lapide della tomba di Gianfranco Miglio, scomparso nel 2001. Si tratta di informazioni riportate sulla bandella di controcopertina di un interessante volume, ancora fresco di stampa, di Gianfranco Miglio, tra l'altro dalla elegantissima veste grafica: La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Giovanni Maria Lampredi e Ferdinando Galiani (Nino Aragno Editore, Torino 2009, pp. XL-262, euro 13,00). Nota non secondaria: il testo è brillantemente prefato da Lorenzo Ornaghi, allievo prediletto di Miglio.
Il titolo può non invogliare il lettore distratto, perché apparentemente rinvia a una remota polemica settecentesca, in punta di diritto internazionale, alla quale Miglio dedicò il suo primo volume nel 1942, stimolato dal professor Balladore Palmieri. In realtà, come nota dottamente Ornaghi, il volume è ancora attualissimo perché pone il problema, tutto moderno, del rapporto tra diritto e politica, ma anche, aggiungeremmo, tra morale e politica. Tematiche che già avevano avevano attratto il giovane Miglio, futuro maestro di realismo politico, nonché acuto studioso di Carl Schmitt.
Per un verso Miglio scrive questo libro perché interessato al diritto di commercio navale tra paesi neutrali e paesi belligeranti. Ma per l’altro, perché attratto da quel che allora stava accadendo (1940), tra gli Stati Uniti, ancora neutrali, ma disposti a commerciare con tutti, incluse Inghilterra e Germania in guerra tra loro, e purché le merci, una volta saldati i conti, venissero ritirate direttamente nei porti americani. Il che, di fatto, privilegiava la Gran Bretagna, padrona dei mari. Di qui le proteste tedesche e la conseguente guerra sottomarina.
Ma ascoltiamolo: in quel mondo in guerra,
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“io mi ero accorto che alla fine del secolo decimottavo (in occasione dell’intervento della Francia e Spagna nella guerra fra l’Inghilterra e le sue antiche colonie nord-americane), l’adozione di questa regola aveva dato luogo già ad una elegante e dotta polemica fra il poligrafo Abate Galiani (che l’avversava) e il giurista toscano Giovanni Maria Lampredi (che la difendeva). Balladore pensava che la ricostruzione di questa controversia, sullo sfondo delle dottrine relative al commercio delle potenze neutrali, avesse un sapore di attualità, e, anche dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, interessasse gli Stati dell’America meridionale rimasti estranei al conflitto. Perciò mi incoraggiò a scrivere il libro, e lo fece pubblicare dal milanese “Istituto per gli Studi di politica internazionale (ISPI), di cui era patrono” (p. VII).
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Tradotto: Miglio, già in odore di realismo, mostra di preferire le tesi di Giovanni Maria Lampredi. Perché, a suo avviso, il giurista toscano scorge per primo il moderno utile dello stato, come dovere verso se stesso, inclusivo del diritto a commerciare con tutti. A differenza dell'Abate Galiani, che invece appellandosi a un superiore principio di "solidarietà passiva" a sfondo pacifista (un dovere verso gli altri da recepire e giuridicizzare statualmente) si oppone a tale "Utile di Stato", riconducendo così la politica nell'alveo del diritto e anche della morale. Perciò sotto questo aspetto la polemica tra Lampredi e Galiani verte su un punto fondamentale, tuttora molto discusso: viene prima l'utile dello stato o quello della comunità internazionale?
Ma c'è dell'altro: Miglio, senza fare sconti neppure a Lampredi, scorge nella “realizzazione del maggior benessere”, attraverso l'autonomia politica ed economica dello stato anche in ambito commerciale, quel prolungamento del diritto naturale, sganciato da qualsiasi trascendenza, che conduce al primato di una concezione sempre più mercantile-aziendalista ed economicista dell’individuo come dello stato. Perciò, come già si capisce, la controversia tra Galiani e Lampredi, racchiude come in un microcosmo, la successiva macrostoria dell’Otto-Novecento, che vede - semplificando - prima il dominio della politica sul diritto, e poi dell’economia sulla politica… Un economicismo, oggi chiamato "globalizzazione", che pende, come la famosa spada di Damocle, sulle nostre teste.
Naturalmente abbiamo semplificato, forse troppo, un libro ricco di osservazioni, intuizioni e spunti in relazione, ad esempio, alle radici storiche dei rapporti tra stato e mercato. Ma anche utile per la ricostruzione del pensiero di Miglio e dei suoi percorsi di ricerca, solo apparentemente lontani (dal diritto internazionale alla scienza politica, passando per le dottrine politiche, la storia delle istituzioni e la scienza dell’amministrazione).
Inoltre chi si avvicini per la prima alla volta all’opera “di un uomo libero e grande” rimarrà sbalordito dalla dottrina e dal rigore posseduti da un giovane all’epoca appena venticinquenne. Mentre chi già apprezza Gianfranco Miglio, non potrà non riconoscere nel giovane ma già vigoroso albero, i segni di quella che può essere oggi definita una quercia della scienza politica, non solo italiana.
E di quelle secolari. 

Carlo Gambescia

mercoledì 15 luglio 2009

Riflessioni
"Complottismo", "anticomplottismo" e uso dell’ombrello



E’ possibile prevedere le azioni sociali? Sì e no. E spieghiamo perché.
Ad esempio, un’azione sociale come quella di aprire l’ombrello in caso di pioggia è sempre possibile, ma non probabile. Ma procediamo per gradi.
In una società, dove solo 5 individui su 10 possono permettersi di acquistare un ombrello, resta certo possibile tutti lo aprano, mentre in realtà è poco probabile che lo aprano tutti (per non parlare della contemporaneità dell’apertura dell’ombrello…). Probabilmente lo apriranno 5 su 10. Ma è altrettanto probabile che tra quei 5, 1 lo abbia dimenticato a casa, 1 venduto per ragioni di bisogno, 1 in riparazione. Il che significa che a fronte della possibilità che tutti in caso di pioggia aprano l'ombrello, resta la probabilità che lo aprano solo 2 su 10… Ma anche questo non è del tutto probabile. Per quale ragione?
Perché i dati di cui sopra, possono mutare in relazione alla crescita o meno della diffusione degli ombrelli, legata non solo alle condizioni economiche (il poter permettersi o meno un ombrello), ma anche alle condizioni climatiche ( continuità o meno del regime delle piogge), alle condizioni culturali (veti o meno all’uso dell' ombrello). E queste sono soltanto alcune delle numerose, se non addirittura infinite, variabili da applicare a una elaborazione di tipo statistico, circa il probabile verificarsi, di una azione sociale ritenuta possibile .
Certo possono essere utilizzati dei coefficienti capaci di calcolare le eventuali distorsioni… Ma il punto è che anche facendo così, si resta sempre nel campo del probabilistico.
E ci siamo riferiti solo all’aspetto esteriore, oggettivo, quello che riguarda l’osservatore, colui che formula la previsione.
Quanto a quello interiore, soggettivo, dell’attore in situazione, resta difficilissimo risalire alle ragioni individuali: cosa i singoli abbiano esattamente in testa, circa l’uso o meno dell’ombrello. Perché è vero che una parte della psiche umana è regolata socialmente, ma un’altra no. O comunque si tratta di una sfera che resta regolata, per contrasto, dalle relazioni e reazioni individuali (caratteriali e temperamentali) alle regole sociali. Ad esempio si può accettare o rifiutare l’ uso dell’ombrello in termini utilitaristici (difendersi dalla pioggia), per ragioni individuali non utilitaristiche: paura, imitazione, convincimento, consuetudine, decoro, eccetera.
Ora, se è così difficile, dal punto della previsione statistica dell’azione sociale, prevedere l’esatta percentuale di persone che in caso di pioggia aprirà l’ombrello (per non parlare della predizione tipo: martedì 16 luglio alle ore 14.00 pioverà, e alle ore 14.01, Mario Rossi, di Roma, abitante, eccetera, aprirà l’ombrello), figurarsi il prevedere, come, quando e perché, un ridottissimo gruppo di signori incappucciati, si riunirà, per decidere i destini del mondo. O addirittura predirne i comportamenti ( nomi cognomi, data e luogo della riunione, eccetera)
Attenzione, abbiamo data per scontata l’esistenza di un gruppo di signori incappucciati. Cosa che non è perché il “complottismo” rinvia a un giudizio di valore sul mondo o se si preferisce a una visione, sempre “mirata” della storia umana. Ovviamente la stessa cosa può valere per l’”anticomplottismo”. Dal momento che dal punto di vista della teoria dell’azione sociale e della sua previsione, in tutti e due i casi è in gioco un determinante fattore soggettivo.
Il che significa che lo studioso serio - se non vuole essere retrocesso al rango inferiore dell’ ideologo - deve sempre assumere una posizione oggettiva, al di sopra delle parti. E pertanto considerare la posizione “complottista” come quella “anticomplottista” per ciò che sono: due forme di manipolazione ideologica della storia.
Dal momento che la storia non esiste di per sé, ma è sempre una elaborazione culturale legata all’interpretazione ideologica degli eventi. Stesso discorso per la politica attiva, che non è altro che una interpretazione “storica”, a uso ideologico, della contemporaneità.
Esistono però “regolarità” psicosociali con effetti di ricaduta in ambito sociologico, che ci permettono di andare oltre il puro uso ideologico della storia. E una di queste regolarità, o costanti, è quella che Pareto, chiamava “istinto delle combinazioni”: il voler spiegare i fatti associandoli a derivazioni (ideologie giustificative). E dunque di "razionalizzarli" a scopo ideologico.
Le ideologie (come contenuti) passano mentre le manipolazioni culturali della storia (come forma) permangono. E la sociologia deve occuparsi di ciò che permane in senso trans-storico, e dunque principalmente della “forma”, o altrimenti detto: della manipolazione culturale, in quanto tale ("complottista" e "anticomplottista"), come costante o "regolarità" trans-storica e sociologica.
Si spera di aver spiegato con sufficiente chiarezza quanto sia difficile, a partire dall’uso dell’ombrello, prevedere - per non parlare del predire… - in modo corretto i “fatti sociali”.
Perciò cari lettori, un piccolo consiglio, diffidate dei complottisti come degli anticomplottisti. Soprattutto di quelli a buon mercato.

Carlo Gambescia 

martedì 14 luglio 2009

La crisi del Partito democratico  
Lo sciacallo



Se dovessimo indicare un nostro candidato alle primarie per la segreteria del Partito democratico sceglieremmo Bersani. Non tanto per la qualità del personaggio o per quel dice, ma perché dietro di lui c’è D’Alema, l’ultimo dei Mohicani della vecchia guardia, che nel 2005-2006 puntò sull’emancipazione finanziaria dei diessini, e in prospettiva del centrosinistra, dalla stesso establishment bancario-inprenditoriale-mediatico che era ed è contro Berlusconi, ma scegliendo il cavallo sbagliato: Consorte. E così D’Alema e Fassino vennero massacrati con le solite intercettazioni a orologeria di Repubblica e Corriere della Sera.
Ovviamente, si tratterebbe di una scelta di istintiva simpatia per un politico, che non si è mai piegato (alcuni aggiungono "del tutto"...) davanti a Israele. Ma questa è un’altra storia.
Purtroppo la crisi del Pd è molto più profonda. E consiste nel fatto che il Partito democratico non ha alcuna precisa identità politica. Non è un partito di sinistra ma non è neppure un partito di centro... Non è un partito socialdemocratico, né post-socialdemocratico, né democratico-cristiano o post-democratico-cristiano... Non è laico, non è confessionale... In economia non è favore del mercato ma non è neppure contro... E’ un partito indecisionista.
Pertanto, anche la ricerca di autonomia finanziaria dai poteri forti, perseguita da D’Alema (e all’epoca, ad esempio, osteggiata da Rutelli), sarebbe finita "politicamente" in un nulla di fatto, anche in assenza delle intercettazioni a orologeria. Quando non ci sono idee e programmi, i soldi da soli non possono bastare. Come del resto non può bastare il realismo politico, nudo e crudo, di cui D'Alema resta però maestro indiscusso. Ma anche questa è un'altra storia.
Sulla crisi del Pd, che poi non è solo la crisi di un partito, perché si riverbera quotidianamente su un elettore di sinistra, democratico e riformista ma depresso perché privo di una casa-madre, si è abbattuto l’atto di sciacallaggio politico di Beppe Grillo. Che candidandosi alla segreteria Pd, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco non solo di un partito ormai allo sbando, ma anche di un elettorato democratico, ancora consistente, che avrebbe bisogno di tutto, eccetto che del qualunquismo di un comico in disarmo.

Complimenti. Berlusconi ringrazia.

Carlo Gambescia 

lunedì 13 luglio 2009


Il "Secolo d’Italia": 
pacco, doppio pacco, paccotto e contropaccotto

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Si dice in giro che il Secolo d’Italia piaccia ai giornalisti e per niente ai lettori. Soprattutto da quando il quotidiano, che è stato di Alleanza Nazionale, e prima ancora dei fascisti ritornati da Marte con una scarpa e una ciavatta, si è messo a rincorrere i temi politicamente corretti della sinistra debole. Quella con la boccuccia a culo di gallina del “Ma che bontà, ma che Bontà, ma chi è questo Togliatti qua?”.
D’altronde è il nuovo corso voluto da Flavia Perina e Luciano Lanna, che insieme hanno banalizzato i contenuti del giornale (“Ma che bontà, ma che bontà, ma chi è questo Benito qua?”) per essere ripresi, un tanto al chilo dal Corriere e da Repubblica.
Dall’elogio di “Bella Ciao”, alla critica del velinismo, dalla bocciatura delle ronde all’apertura all’Islam e agli altri temi politicamente corretti che piacciono all’opposizione.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: ogni giorno il Secolo vende 700 copie.
Il nuovo corso è un vero e proprio fallimento se si pensa che dalle pagine è sparita completamente la cultura. La linea editoriale si è improvvisamente sposata con quella politica di Gianfranco Fini: il liquidatore dei fascisti su Marte, come dei conservatori su Venere… E solo per approdare sulla Terra del moderatismo, fatta di ministeri e prebende varie.
Insomma una destra che adesso lavora per se stessa, aprendo in ogni sua esternazione alla sinistra che la applaude e la loda. Ci sembra quasi di sentirli cantare tutti insieme: il trio Perina, Lanna, Sansonetti: “Ma che bontà, ma che bontà, ma chi sono questi Benito e Togliatti qua?”
Anche il Secolo pensa che per costruire una destra decente bisogna (com)piacere soprattutto quelli di sinistra. E pubblicare articoli illeggibili sul mondo del fumetto, sul cavatappi e altre amenità glamour.
Fini ha voluto un giornale leggero e vuoto: un pacco. Flavia Perina e Luciano Lanna gli hanno confezionato un giornale-doppio pacco, con il quale il giorno dopo si può benissimo incartare il pesce, ovviamente dopo che l’ultima cazzata scritta sia stata ripresa dal Corriere e Repubblica, sempre pronti a fare il paccotto al Secolo. Tutto questo per vendere 700 copie al dì… E perciò beccarsi il contropaccotto dei lettori… Mai prendere per il culo il lettore, così recita il primo comandamento del giornalismo vero.
Concludendo: pensiamo sia giunta l’ora di chiudere questo giornale che viene finanziato con i soldi pubblici e vende meno di un foglio parrocchiale.
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Carlo Gambescia e Nicola Vacca 

venerdì 10 luglio 2009

Corsi e ricorsi
Antonio Di Pietro, 
l’International Herald Tribune 
e i fantasmi della guerra civile



Riconosciamo a Di Pietro il pieno diritto di condurre la lotta politica come meglio ritiene. Fatto salvo, ovviamente, il suo dovere di farsi carico moralmente e storicamente di quel che va dichiarando a destra e a manca.
Un solo esempio. Troviamo molto pericoloso il suo appello (tutto giocato sul “Lodo Alfano” e la "Cena Manzella"), pubblicato sull’ International Herald Tribune ( http://www.antoniodipietro.com/politica/#001280 ) dove si chiede alla comunità internazionale di esercitare “pressioni per ripristinare i principi di libertà democratica e di indipendenza della Corte Costituzionale per evitare che l’Italia si trasformi da democrazia a dittatura di fatto”.
Per due ragioni.
La prima è che l’appello allo straniero, da che mondo è mondo, si è sempre risolto con un’invasione militare, con la sconfitta e “cacciata” dei governanti locali al potere, e con la creazione di un governo fantoccio, capace di tenersi in piedi solo sulla punta delle baionette dell’occupante straniero. Inoltre in Italia, da Lodovico Sforza a Badoglio, l’intervento dello “straniero” - ed è il meno che si possa dire - è sempre sfociato in guerra civile. Di Pietro vuole la guerra civile? Lo dica apertamente.
La seconda ragione è che una dittatura è o non è. Parlare di “dittatura di fatto” è vago. Perché il metro di giudizio su un "fatto” può variare in relazione alle scelte politiche dei diversi attori giudicanti. Nietzsche sosteneva che non esistono fatti ma solo opinioni. "Assioma" che può essere discutibile sul piano della scienza, o se si vuole della metapolitica, ma è sacrosanto su quello della politica. Piano sul quale si muove Di Pietro.
A noi Berlusconi non piace affatto. Ma Antonio Di Pietro, con quei fantasmi di guerra civile abbarbicati alle sue spalle, piace ancora meno.


Carlo Gambescia 

giovedì 9 luglio 2009

Il libro della settimana: Sergio Ristuccia, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, Marsilio, Venezia 2009, pp. 464, euro 35,00.

http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3179670/costruire-le-istituzioni-della-democrazia


Ci sono testi così densi e ricchi di idee che una volta chiusi, dispiace averli finiti. E si desidera subito riaprirli, per scoprire qualche particolare prima sfuggito, e così godersi la riscoperta. E di nuovo il libro.
Tra questi dobbiamo collocare al posto d'onore, Sergio Ristuccia, Costruire le istituzioni della democrazia. La lezione di Adriano Olivetti, Marsilio, Venezia 2009, pp. 463, euro 35,00. Perché si tratta del miglior lavoro uscito a tutt’oggi su Adriano Olivetti.
Sergio Ristuccia, presidente del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, già segretario generale della Fondazione Olivetti, traccia un vigoroso e accurato ritratto intellettuale dell'imprenditore, editore, politico e quant'altro, nato a Ivrea nel 1901. Il cui pensiero, a suo avviso, ruota intorno a tre punti fermi.
Primo. L’idea che la politica sia fatta dalle persone e per le persone.
Secondo. L’idea che i politici eletti debbano esprimere due istanze: quella comunitaria (della comunità che li elegge) e quella delle competenze professionali (come valore da "aggiungere" e non da "sottrarre" alla comunità).
Terzo. L’idea che lo stato non sia una comunità isolata, ma una comunità di comunità. Di qui la sua scelta federalista, e negli ultimi anni della sua non lunga vita ( Olivetti morì improvvisamente a 59 anni), quella di scendere in campo, anche elettoralmente, con il Movimento Politico Comunità.
Scrive Ristuccia:
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“Proviamo ora a mettere insieme i due modi di pensare ad Adriano Olivetti che si sono andati affermando: il grande imprenditore, morto prematuramente prima che la sua opera si consolidasse pienamente: e il politico che, per essere un riformista rigoroso ma inascoltato dai riformisti di cultura tradizionale, apparve velleitario ed utopista. Nel mettere insieme questi due modi di pensare, che poi significa mettere insieme ed in connessione quelle che, se vogliamo, sono le due anime di Olivetti, troviamo in realtà il cuore, il significato profondo della sua lezione politica. Per oggi e per domani” (pp.438-439).
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Un altro merito del libro è quello di un' accurata e appassionata esegesi dell' opera principale di Olivetti, L’ordine politico della comunità, testo scritto negli anni della guerra e uscito nel 1945 (sottotitolo: "Le garanzie di libertà in uno stato socialista"). Che racchiudeva un grande progetto di Repubblica Federale, aperta però al decentramento regionale. E perciò appositamente pensato - a differenza di quel che accadrà dopo - per togliere potere ai grandi partiti nazionali e conferirlo alle comunità locali e di lavoro. Un disegno assolutamente in linea con quel socialismo democratico, riformista e solidarista nel quale l'impreditore canavese credeva.
Grazie al libro di Ristuccia si scopre la sincera essenza comunitarista del pensiero di Olivetti. In questo senso - ma la nostra è un' intuzione da approfondire - il socialismo olivettiano andrebbe teoricamente avvicinato, pur nella diversità di intenti, a quello di Tönnies, uno dei padri della sociologia moderna ; ma questa è un'altra storia...

Resta infine il fatto che Olivetti non si stancò mai di parlare di “comunità concrete”: le sole capaci di creare quel “superiore interesse concreto”, teso a comporre i conflitti e ad affratellare gli uomini; procedendo dal basso verso l’alto: dal comune al governo federale, passando per le regioni e le "comunità" ( da lui suddivise in amministrative, industriali, agricole e miste).
Olivetti scorgeva nell'idea di comunità non il retaggio di balorde ideologie etniciste, ma una sfera aperta al “dominio dell’uomo”. La “regione” notava "è controllabile soltanto con il mezzo di un autoveicolo, lo Stato col mezzo di un aereo o di una ferrovia. Unica, completamente umana, è solamente la Comunità”, che, lasciava capire, si può percorrere a piedi, magari in gruppo, cantando o conversando...
Va però anche ricordato, seguendo il giudizio di Franco Ferrarotti, all’epoca vicinissimo a Olivetti, che l’approccio "culturologico" alla politica dell’imprenditore piemontese, era troppo alto, soprattutto nel senso di una sua eccessiva fiducia nel potere della parola scritta (si veda F. Ferrarotti, Pane e lavoro! Memorie dell’Outsider, Guerrini e Associati 2004).
Di qui certo neo-illuminismo olivettiano, in buonissima fede, ma troppo sicuro di sé e della possibilità di poter riformare l’Italia, mutandone a tavolino le istituzioni... Il che - ripetiamo - nulla toglie al valore intellettuale e umano del pensiero di Olivetti. E soprattutto al bel testo di Ristuccia.
Anche perché un altro imprenditore molto meno idealista, quarant’anni dopo riuscirà sul serio a cambiare l’Italia.
In peggio però.

Carlo Gambescia 

mercoledì 8 luglio 2009

Incontri su YouTube 
Sacco e Vanzetti

Terracina 14  agosto 1971  


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Non siamo cinefili, né amiamo il cinema per il cinema. Però, ecco c’e sempre un però, su YouTube abbiamo appena recuperato il trailer di un film che oggi andrebbe proiettato in tutte le scuole italiane… Parliamo di Sacco e Vanzetti, film del 1971, diretto da Giuliano Montaldo ( http://www.youtube.com/watch?v=hLmqCk0BUfo ) e superbamente interpretato da Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla.
La storia dovrebbe essere nota a tutti (usiamo il condizionale e più avanti il lettore capirà perché...): Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco, due immigrati italiani di fede anarchica, finiscono ingiustamente nelle maglie della giustizia americana. Nel 1921 vengono condannati a morte innocenti. E nel 1927, il 23 agosto giustiziati. Il film è molto documentato, fino a sfiorare il didascalico. Ma va ricordato anche per la eccellente colonna sonora di Ennio Morricone.
E soprattutto per la commovente ed epica ballata di Sacco e Vanzetti cantata da Joan Baez ( http://www.youtube.com/watch?v=gcgYwTnBIIQ ) : Here's to you, Nicola and Bart/ Rest forever here in our hearts/ The last and final moment is yours/ That agony is your triumph...
All'epoca - eravamo poco più che adolescenti - il film ci aprì gli occhi sull' America. E in modo particolare sull'ostracismo sociale nei riguardi di lavoratori e immigrati. Altro che la Sacra Terra delle Grandi Opportunità per Tutti!
Ora, al di là del fatto che si condivida o meno la fede anarchica di Sacco e Vanzetti. Fede che nel mondo di oggi, dove nessuno dà nulla per nulla, resta comunque degna di grande rispetto. La loro triste storia, che ricorda la difficile condizione di molti migranti italiani tra Otto e Novecento, dovrebbe far riflettere sul nostro modo di accogliere (si far per dire) chi oggi bussa alla nostra porta. Si pensi alle ultime vergognose misure repressive varate dal leghista Maroni, con il beneplacito di Berlusconi.
E poi, comunque la si pensi, è un film contro la pena capitale... Il che non è poco.
Purtroppo, sembra che Sacco e Vanzetti, siano morti invano. La storia è una maestra di vita con pochissimi studenti.
Che tristezza!
Carlo Gambescia

martedì 7 luglio 2009

 Ryanair 

Posti in piedi...



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LONDRA - Posti in piedi in aereo. Come in autobus o in metropolitana. E' l'ultima, e l'ennesima, trovata della compagnia aerea low cost Ryanair che ipotizza di offrire ai passeggeri la possibilità di viaggiare gratis se se la sentono di rimanere in piedi durante il volo.La proposta è partita ancora una volta dal capo della compagnia irlandese, Michel O'Leary: "Si potrebbero eliminare cinque o sei delle file di sedili posteriori e dire ai passeggeri 'Ve la sentite di restare in piedi? Se si' potete viaggiare gratis'", ha spiegato. Ryanair ha già sottoposto alla Boeing (società costruttrice di aeroplani) l'idea di convertire i suoi aerei creando uno spazio per i posti in piedi dove invece dei sedili ci sarebbero sgabelli, o ha anche proposto di creare un'apposita flotta con questi 'posti verticali'. "Perché dovrebbe essere diverso di quanto accade sui treni dove migliaia di persone che non trovano posto si accomodano nei corridoi? In metropolitana, per esempio, accade regolarmente", ha aggiunto O'Leary ammettendo di aver mutuato l'idea dalla compagnia aerea privata cinese Spring, e che 'facendo entrare' nel velivolo il 50% in più di passeggeri si possono ridurre i costi del 20%. Un portavoce di Ryanair ha comunque riferito che il progetto deve passare al vaglio dell'autorità aerea irlandese.
( http://www.ansa.it/opencms/export/site/notizie/rubriche/daassociare/visualizza_new.html_1615790929.html )
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A volte si leggono notizie curiose che hanno però più significato di altre, magari apparentemente importanti.
Ecco, la proposta Ryanair dei “posti in piedi gratuiti”, è una di queste.
Parliamo della famigerata compagnia irlandese dove il passeggero, proprio perché paga poco, deve soffrire: spazi ridotti, personale scontroso, spuntini e bibite a pagamento, arrivi e partenze da aeroporti periferici.
Ryanair imbarca i proletari del volo. E ne sappiamo qualcosa per avere una volta viaggiato su un suo aereo: esperienza inenarrabile.
E ora, grazie alla stessa deregolamentazione neo-liberista che ne ha permesso nascita e sviluppo, Ryanair si è (re)inventata questa storia dei posti in piedi, riprendendo l'idea da un compagnia cinese... Nazione nota e apprezzata per il grande rispetto dei diritti umani...
Si spera sia solo una provocazione. E, in ogni caso, ci auguriamo che le autorità aeree locali non favoriscano una proposta da Luna Park dell'aria.
Naturalmente ci si può rispondere in chiave neo-manchesteriana: nessuno obbliga i passeggeri a viaggiare con Ryanair. Giusto. Ma non dovrebbero esistere, per così dire, "requisiti minimi di benessere" a tutela del viaggiatore ? Perché permettere a una compagnia area di fare soldi sulla stupidità, sullo spirito di adattamento, sulla avidità e/o avarizia degli individui ( e spesso anche degli enti), che pur di risparmiare quattro soldi, preferiscono viaggiare ( o far viaggiare le persone) in condizioni peggiori che su un carro bestiame?
Per metterla in altri termini, va applicato - certo in chiave estensiva - lo stesso principio della regolamentazione pubblica di lavori e attività private nocivi alla salute (si pensi al lavoro notturno o minorile). Anche perché il volare in certe condizioni (che per alcuni passeggeri può essere un lavoro) può far male, fisicamente, alle persone. E che queste ultime siano disposte, per qualche ragione (bisogno, necessità, avidità, stupidità), "a farsi del male", non ne autorizza lo sfruttamento economico.
Talvolta le persone vanno protette da se stesse. Certo, senza esagerare. Ma non è sicuramente questo il caso.

Carlo Gambescia

lunedì 6 luglio 2009

Futurologia post-berlusconiana
Dopo la caduta




Oggi facciamo esercizio di futurologia post-berlusconiana.

Cade Berlusconi. Iniziano le consultazioni. Fini fallisce, perché non riesce a convincere tutto il Pd a entrare nel governo di unità nazionale per fronteggiare la crisi economica. L’incarico viene dato a Draghi, che gode del consenso di Napolitano, di tutto il mondo industriale e finanziario, dei sindacati e perfino della Cgil. E dell’appoggio parlamentare del centro destra (Lega esclusa) e del centrosinistra (solo D’Alema scettico, resta fuori...). Riesce. Camera e Senato non battono ciglio. Napolitano, in modo istituzionalmente estemporaneo, fa un discorso televisivo a rete unificate (private incluse), dove celebra la nuova unità d'intenti di tutti gli italiani "strettisi intorno al Nuovo Governo della Repubblica nata dalla Resistenza". Draghi - si legge sui giornali - dovrebbe portare l’Italia alle elezioni, non prima però di aver fatto alcune riforme, tra cui quella elettorale. Ma nessuno dice come e quando...

Diventa Governatore della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni, fido di Draghi e graditissimo all’establishment economico e finanziario internazionale.
Comunque sia, la stampa appoggia Draghi, subito definito un Ciampi, più giovane... E così il nuovo Presidente del Consiglio invece di fare subito la riforma elettorale, attacca le pensioni e quel che resta dello stato sociale, grazie anche alla complicita del nuovo ministro dell'economia: Ignazio Visco, già vicedirettore della Banca d'Italia. Inoltre, il nuovo ministro degli interni, "un tecnico" ex prefetto, prende immediatamente misure ferree contro qualsiasi forma di protesta politica e sociale: la sicurezza dei bravi cittadini va tutelata a ogni costo. Il nuovo ministro della difesa, altro "tecnico" ex capo di Stato Maggiore, potenzia la presenza dei militari nelle strade. In Italia Settentrionale la Lega è messa nelle condizioni di non nuocere, grazie al lavoro congiunto di giudici e forze dell'ordine. L'establishment leghista (Maroni, Calderoli e altri) finisce nei guai a causa delle rivelazioni di alcuni pentiti... Bossi ha un attacco di cuore. Questa volta la prognosi è infausta. Il suo partito va alla deriva. Ronde o non ronde la Lega è fuori gioco.
Fini intanto, celebratissimo insieme a Draghi dai media, vara il “Partito Unico di Centro”, in grado di conseguire sulla carta il 40 per cento dei consensi, con dentro pezzi di centrodestra e di centrosinistra. Il progetto gode dell’appoggio totale dei poteri forti e perciò di tutta la stampa e dei media televisivi, compresi quelli berlusconiani. Ormai approdati a miti consigli, su ordine diretto dello stesso Berlusconi. Il quale dopo la caduta ha subito un vero e proprio crollo psichico. E sulla cui testa ora pendono vecchi e nuovi processi. L'uomo è impaurito, teme di perdere tutto, anche il suo impero economico. Ormai il Cavaliere, come la Lega, è fuori gioco per sempre.
Viene approvata la nuova riforma elettorale. Che prevede che al partito in grado di conseguire la maggioranza relativa venga assegnato il settanta per cento dei seggi parlamentari: si tratta di una riforma che "premia la stabilità". Così viene presentata dai media.
Ma il voto viene rinviato di mese in mese. Probabilmente perché l'opera di "bonifica", questa volta, rispetto al 1992-1994, dovrà essere capillare. Intanto Obama giunge a Roma, in visita straordinaria per incontrare Draghi.
I giornali li ritraggono insieme. “Quest’uomo - dichiara il presidente Usa - porterà l’Italia fuori dalla crisi”. Anche il premier israeliano Netanyahu è dello stesso parere.
I mercati approvano.


Naturalmente si tratta solo di una modesta esercitazione futurologica ... 

Carlo Gambescia

venerdì 3 luglio 2009

La "mini indennità" di disoccupazione ai lavoratori precari
Una presa in giro


Chi ricorda la “mini indennità” di disoccupazione introdotta dal governo nel gennaio scorso a sostegno dei lavoratori precari? Il provvedimento stabiliva, in via sperimentale, il riconoscimento per il 2009 di una somma una tantum pari al 20% del reddito percepito nel 2008 ai collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co.) e ai collaboratori a progetto (co.co.pro.). Condizionandolo ai seguenti requisiti: dipendenza da un solo datore di lavoro; iscrizione alla gestione previdenziale per i parasubordinati che abbiano determinati requisiti; mensilità contributive, per il 2008 fra le 3 e le 10, più almeno altre 3 per 2009; reddito 2008 compreso tra 5 mila e 13.819 euro.
L'indennità per la quale sono stati stanziati 70 milioni di euro per il trienno 2009-2001, grosso modo può oscillare tra mille e 2.763 euro: nulla di risolutivo, insomma. Tuttavia per accedere a questo "meglio che niente", i precari con rapporto lavorativo cessato prima del 30 maggio scorso dovevano presentare domanda all'Inps entro il 30 giugno. Mentre per i rapporti lavorativi finiti dopo il 30 maggio, il “precario” entro un mese di tempo dalla cessazione del rapporto.
Allora, stando a quel che riferiva ieri un trafiletto del Corriere della Sera, ( http://www.corriere.it/economia/09_luglio_02/precari_sussidi_f81880ec-66c7-11de-9708-00144f02aabc.shtml ), finora sarebbero pervenute solo 1.800 domande “ rispetto a una platea di potenziali interessati quantificata per esempio dall'Adapt (Fondazione Marco Biagi) in 75 mila collaboratori, cioè il 10% del totale” . Perché?
Probabilmente la causa del fallimento è legata alla scarsa informazione, connessa a sua volta, al deficit di “sindacalizzazione” del lavoro precario. Infatti, teoricamente, due potevano essere i canali informativi: quello pubblico e quello sindacale. Andava invece data per scontata l'assenza di qualsiasi opera di informazione da parte delle aziende. Di regola, non interessate a favorire la documentazione del lavoratore, soprattutto quando manca, come in questo caso, un ritorno economico immediato (in genere fiscale).
Bene, anzi male, perché il Ministero del Lavoro ha praticamente “silenziato” il provvedimento. A parte forse l’ ”emissione” di qualche spot televisivo in febbraio, a scopo celebrativo circa la presunta natura sociale del governo di centrodestra... Spot di certo sfuggiti, al co.co.co e al co.co.pro, prigionieri di orari di lavoro stressanti, e perciò facili prede del sonno, soprattutto davanti alla tv…
Quanto al sindacato, il vero punto della questione, come accennato, è quello della bassa sindacalizzazione di questo genere di lavoratore precario: di regola timoroso di mettersi in “cattiva luce”, iscrivendosi e praticando il sindacato, con un datore di lavoro che lo tiene in pugno. Di qui la difficoltà da parte del sindacato di raggiungere sul piano informativo un lavoratore che quasi si nasconde nel timore di perdere il posto di lavoro e/o di essere riassunto in futuro. Una difficoltà che al sindacato non poteva non essere nota .
Insomma una presa in giro.

Italia 2009, Anno Secondo del Quarto Governo Berlusconi. Che vede al Ministero del Lavoro un ex socialista. E sindacati che si comportano da ex sindacati. Che tristezza. 

Carlo Gambescia

giovedì 2 luglio 2009

Il libro della settimana: Ruth Ben-Ghiat (a cura di), Gli imperi. Dall’età antica all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro 26,20. 

https://www.mulino.it/isbn/9788815130570


Ogni vera storia è sempre storia contemporanea, insegnava Croce. Il che, tradotto, significa che ad esempio oggi si torna a parlare di “impero” e “imperi” perché gli storici vivono immersi in un mondo dove l’impero, in questo caso quello Usa, nascente o meno, è una realtà tangibile, contemporanea. Di qui la necessità del confronto storiografico possibilmente oggettivo con lo sguardo rivolto soprattutto sul presente.
Perché, se possibile? In realtà, e sia detto con il massimo rispetto per Croce, spesso la “contemporaneità” non giova alla serenità storica e neppure al taglio metodologico prescelto, che talvolta risente delle mode conoscitive del tempo: lo storico invece di rivendicare la propria indipendenza, anche di metodo, rischia sempre di riflettere il pensiero comune, se non i vezzi, della propria epoca. E questo purtroppo è il caso del testo di cui qui ci occupiamo: Gli imperi. Dall’età antica all’età contemporanea, (il Mulino, Bologna 2009, pp. 346, euro 26,20). Volume curato da Ruth Ben-Ghiat, docente di storia e direttrice del dipartimento di Italian Studies della New York University. Opera che esce nella collana “Dialoghi” dell’Istituto Italiano di Scienze Umane, presieduto da Aldo Schiavone, e che raccoglie undici contributi dell’omonimo convegno tenutosi presso la New York University il 27-28 gennaio 2006.
Del volume, infatti, è particolarmente criticabile l' approccio che potremmo definire - semplificando - post-moderno. Nel senso di una critica fondata su una ragione storiografica debole, favorevole alle scorciatoie, e perciò troppo ripiegata sul presente, come unico mondo possibile.
Perché per un verso si considerano definitivi alcuni fenomeni ancora in atto e dagli esiti incerti, come la crisi dello stato-nazione; e per l’altro si rifiuta per principio qualsiasi definizione concreta del concetto di impero, se non quella metaforica, molto post-moderna appunto, dell’ impero come di una invisibile rete onnicomprensiva, seguendo la dominante moda delle analogie informatiche. Ma procediamo con calma.
In primo luogo, gli autori - tutti storici - sembrano privilegiare solo due forme istituzionali: l’impero e lo stato-nazione. Il che è riduttivo perché la storia ha conosciuto, a voler essere sintetici, la città-stato, la città mercantile, lo stato-regionale (signorie e principati), lo stato assoluto: tutte entità spesso entrate in contrasto con gli imperi. Pertanto non è detto che in futuro queste forme storiche non possano riproporsi: non esiste insomma alcuna polarità impero/stato-nazione, ma una linea lungo la quale è possibile ciclicamente rinvenire le forme istituzionali più differenti. Come non esiste una tendenza evolutiva assoluta alla “transnazionalità”, malgrado gli autori sostengano in contrario ( si vedano l’introduzione della Ben-Ghiat e i contributi della Stoler e di Armitage) : idea che attraversa tutta l’opera e che affiora persino in contributi circoscritti per argomento come quelli di Feros, della Pagano de Divitiis e di Cooper.
Probabilmente perché si tratta di un'idea tesa a giustificare, attraverso l’impiego del concetto di reti transnazionali soprattutto economiche e culturali, ciò che per la sensibilità culturale post-moderna degli autori, affascinati dalle analogie informatiche alla moda, è l’ a priori per eccellenza: la natura reticolare del impero americano, nei termini - e il cerchio metodologico si chiude - di una logica del dominio soft, quale egemonia sull'immaginario, come impone la scuola post-moderna stregata dai meccanismi disciplinari della psiche umana.
In secondo luogo, il volume resta così privo di un qualsiasi accenno alle forme di dominio hard esercitate attraverso le burocrazie imperiali, gli eserciti, i “funzionari” del fisco e della moneta: i lavori di Einsenstadt, Finer, Tilly sul ruolo del conflitto culturale, bellico e fiscale nella formazione degli imperi e delle altre istituzioni politiche, non sono neppure citati. Mentre risulta sopravvalutato il ruolo dell’economia di mercato (nonostante due buoni saggi in chiaroscuro di Anthony Pagden e Guido Abbattista sui rapporti tra passioni e interessi nel quadro della cultura settecentesca) . Si danno, insomma, per eterni e vincenti - fin dall'antichità - i meccanismi "transnazionali" dell’economia di mercato: emblematico il saggio di Elio Lo Cascio sull’economia imperiale romana nel Mediterraneo, come meccanico esito di una neoclassica “sostanziale diminuzione dei costi di transazione”; tra l'altro vi si parla anche di “schiavo-manager”…
Sconcertante - dispiace dirlo - anche il contributo del pur accorto Franco Cardini, l’unico, a dire il vero, che provi a definire il concetto di impero (per quanto puntando troppo sull’idea "soggettiva" di autocoscienza imperiale; idea "bella ma impossibile", perché non aiuta lo studio degli "oggettivi" e concreti rapporti di forza ) . Il quale però, per venire all’oggi, dà una definizione dell'egemonia imperiale Usa che sconfina nella fiction alla Fanucci (post-moderna appunto):
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Si può dire - scrive lo storico fiorentino - che centro e protagonista dell’impero siano non già gli Stati Uniti con il loro governo, il loro esercito e i loro interessi, bensì una nuova e complessa entità sovranazionale, internazionale e anazionale; un ‘impero’ senza confini e senza limiti, senza centro e senza periferia, guidato da una élite internazionale di gruppi imprenditoriale e finanziari” (p. 49) .
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Insomma tutto e il contrario di tutto. Sembra quasi che il volume si muova nell’onda lunga ma melmosa di Empire. O per dirla tutta che voglia solo fare il verso (storiografico) all'immeritatamente fortunato testo (filosofico) di Negri e Hardt, apprezzatissimo in America anche dagli storici, come Bibbia di certo post-modernismo progressista. Dove, in nome di una specie di gaia scienza post-marxista, si celebra il potere invisibile del capitale a scapito però della visibilità di concreti e misurabili rapporti di forza, tra classi, ceti e individui con tanto di nome e cognome. Per farla breve: della chiarezza. Soprattutto metodologica.

Con una differenza che al filosofo politico certi eccessi "metanarrativi" si possono perdonare, allo storico no. 

Carlo Gambescia