martedì 30 novembre 2010


Riflessioni
Liberalismo e società di massa




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Ieri sera rileggevamo un passo del bel libro di John Lukacs Democrazia e populismo (Longanesi), dove si pone un problema fondamentale:
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“In questo libro ho sostenuto che le vecchie categorie del ‘conservatorismo’ e del ‘liberalismo’ sono divenute quasi del tutto obsolete. Ma una tendenza è chiara. Quasi ovunque, la ‘sinistra’ ha perso forza d’attrazione. E’ possibile che in futuro la vera divisione sarà non tra destra e sinistra, ma tra due specie di destra: tra coloro la cui bussola è il disprezzo (…), che odiano i liberali più di quanto amino la libertà e coloro che amano la libertà più di quanto temano i liberali; tra nazionalisti e patrioti; (…); tra quanti si affidano alla tecnologia e alle macchine e quanti si affidano alle tradizioni e alle vecchie regole delle decenza umana; tra coloro che sono favorevoli allo sviluppo e coloro che desiderano proteggere e conservare la terra: tirando le somme, tra chi non mette in questione il Progresso e chi invece lo fa”(p. 199).
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L’analisi di Lukacs ha vigore argomentativo. Il progresso non può essere assolutizzato a beneficio di masse narcotizzate da consumi crescenti ed eccessivi, e disposte a subire e il fascino indotto dell’invidia e della forza bruta. Perché, prima o poi, si rischia di fare i conti, con una crescente anomia ambientale, sociale e morale. Resta però un dubbio: se le istituzioni liberali, elitarie per eccellenza (perché nate da e per pochi notabili), siano effettivamente in grado di governare la democrazia di massa. Anche perché il Novecento ha mostrato, e dolorosamente, che spesso lo stesso liberalismo (antidemocratico, o a-democratico), in alcuni occasioni, è venuto a patti se non con il totalitarismo, almeno con l’autoritarismo, senza per questo riuscire a fermare la massificazione della società.
Sotto questo aspetto, e malgrado tutto l’acume storico di Lukacs, il “problema Tocqueville”, quello di coniugare liberalismo e democrazia, resta ancora oggi privo soluzione. E qui probabilmente può venirci in aiuto Benedetto Croce, per il quale "la libertà non ha potuto mai fondare un edificio politico durevole, ma la corona quando il tempo lo ha consolidato" (Storia d'Europa nel secolo decimonono).
Ecco, occorre tempo. In questo senso, può tornare utile il suggerimento della Arendt sul tempo come fattore creativo in politica (Vita Activa). Tuttavia, se come sostiene Adorno, "quando il tempo è denaro", come appunto accade nella società attuale, "sembra morale risparmiare il tempo, specialmente il proprio" (Minima moralia), chi vorrà o potrà dedicarsi, altruisticamente, al crociano consolidamento - nel tempo - dell' "edificio politico"? 


Carlo Gambescia

lunedì 29 novembre 2010

Wikileaks 
Tempesta in un bicchier d’acqua



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Sulle "rivelazioni" di Wikileaks vanno fatti due discorsi. Il primo riguarda i contenuti, il secondo la forma.
Quanto ai contenuti, a prima vista, dai documenti pubblicati non viene fuori nulla di veramente importante, se non pettegolezzi e chiacchiere di corridoio. Oltre, ovviamente, alla scoperta ( che non è una scoperta, come vedremo più avanti) del ricorso statunitense allo spionaggio.
Quanto alla forma, siamo davanti a un evento mediatico, o meglio mediatizzato. E in questo senso, se ci si passa l’espressione, come è stato “mediatizzato”, può essere “smediatizzato”. Tradotto: da qui a dieci giorni, sulle “rivelazioni” potrebbe calare il silenzio.
E qui si apre un problema interessante: quello del rapporto fra la forza del “segreto” , connaturato a ogni forma di potere (democratico, dittatoriale, eccetera), e la forza della verità dei moderni, come dire, “a mezzo stampa”.
In teoria, le “rivelazioni”, dal punto di vista della moderna ortodossia democratico-giornalistica, dovrebbero far cadere, soprattutto se leader eletti (come Obama, Sarkozy, Berlusconi), gli statisti "chiacchierati". Ma così non sarà.
Perché? Il segreto ( e le pratiche connesse, spionaggio, eccetera) in politica, come strumento di gestione (nei termini del Mors tua vita mea) è insopprimibile. Che cosa sono a fronte del millenario culto degli Arcana Imperii, i riti moderni della libertà ( e verità) di stampa? Nulla.
La politica ha forza propria, perché, come la religione e la medicina, concerne la vita e la morte degli uomini. Come del resto afferma l’antica iscrizione romana, preservataci da Cicerone: Salus pubblica suprema lex esto. Di qui la sua prevalenza, su ogni altra considerazione, quale principio dell’autodifesa di un gruppo sociale.
Ad esempio, se Hillary Clinton, come rivela Wikileaks, ha fatto spiare alleati e nemici, lo fatto nell’interesse del popolo americano. In questo senso, ha ubbidito al principio del Suprema lex salus popoli esto. Alla stessa stregua di un console romano, di un feudatario medievale, di un ministro prussiano. Che poi talvolta il potere venga strumentalizzato da chi, anche su delega, al momento lo eserciti, fa parte del “gioco”. Ma, attenzione, il potere può essere strumentalizzato, o distorto, come la storia mostra (da ultime le esperienze del totalitarismo novecentesco), fino a quando non metta a rischio la Salus popoli. C’è un limite di autoconservazione sociale, oggettivo (come mostra, tra le altre, l’esperienza sovietica), oltre il quale i “governanti” non possono andare, pena la completa dissoluzione politica e sociale. E questo sicuramente non è il caso delle democrazie contemporanee. Che sono ancora ben lontane dal raggiungere il punto di rottura.
Perciò, una volta superata la curiosità iniziale, delle rilevazioni di Wikileaks non si parlerà più. Al massimo i files pubblicati andranno ad arricchire (si fa per dire) il vivaio pseudo-culturale delle varie mitologie complottiste. Ma questa è un’altra storia.



Carlo Gambescia
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venerdì 26 novembre 2010

L’Italia e la retorica della rivoluzione tradita
Fare gli italiani, che palle!

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Esistono, da sempre, due modi di fare storiografia: o ricostruire le cose come sono andate o processare gli eventi in chiave ideologica.
Da questa seconda impostazione nasce la retorica della rivoluzione tradita. Che, attenzione, non parte mai dall’analisi delle condizioni di fatto, ma da quella delle (presunte) condizioni ideali. Ad esempio, secondo le famose tesi di Gramsci sul Risorgimento italiano, a suo tempo “smontate” da Rosario Romeo, l’Italia (rivoluzione mancata) avrebbe dovuto fare come la Francia (rivoluzione riuscita) del 1793: (’93 non ’89), salvo poi incappare in un qualche Napoleone italico. Ma su questa possibile conseguenza Gramsci aveva glissato. Del resto era comunista e perciò gli piacevano le maniere forti di Lenin.
E qui cade l’asino, perché in Italia i seguaci dell’idea del Risorgimento tradito sono sempre stati o fascisti o comunisti, con il piccolo complemento storico di quei confusionari dei liberalsocialisti, a partire da Gobetti, un liberale rosso acceso quasi sconfinante nella falce e martello, cui si deve il copyright dell'unificazione senza eroi. Dunque un antifascista. E per questo venne bastonato a morte dalle camicie nere.
Ma il punto più grave dell'intera questione è che fascisti e comunisti, con la scusa della retorica della rivoluzione tradita del Diciannovesimo secolo, hanno edificato nel Ventesimo solo dittature. Perché gli italiani ( e quei disgraziati dei russi) dovevano essere riveduti e corretti secondo l’ideologia del partito unico. A fin di bene, ovviamente.

Il buon Augusto Del Noce - e prima di lui Noventa - asserì, più di quarant’anni fa, che per tornare a respirare ci si doveva liberare della mentalità fascista e di quella antifascista. Dal momento che, a suo avviso, l’aspetto più pericoloso della mentalità “antista” era di criticare il Risorgimento "di fatto" nel nome di un Risorgimento "ideologico".
Insomma, di criticare il fatto ( le cose come erano andate...) in base alla norma (come invece dovevano andare...). Per poter così "forgiare", sulla falsariga di un universo orwelliano forever, il famigerato “Italiano Nuovo”. Certo, sono chiacchiere che oggi possono attrarre solo qualche regista paleo-marxista o paleo-fascista. Ma potenzialmente pericolose per la libertà di tutti. Anche se ora, per fortuna, conosciamo bene quel che hanno combinato e come sono finiti fascismo e comunismo.
E Del Noce era cattolico. Ma onesto.

Carlo Gambescia

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giovedì 25 novembre 2010

Oggi lasciamo la parola all'amico Nicola Vacca, poeta e scrittore lontano dai soliti giri. Il pezzo è apparso ieri sul quotidiano "Linea" nella rubrica settimanale di poesia a sua cura.
Chi meglio dell' amico Nicola può ristabilire la giusta distanza tra una"incivile" non poesia da "Maurizio Costanzo Show" e una poesia che invece può illuminare la "civiltà delle anime" ? (C.G.)
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Il libro della settimana: Valentino Zeichen, Aforismi d'autunno, Fazi 2010, pp. 167, euro 15,00. 

http://www.fazieditore.it/



Valentino Zeichen è un poeta troppo sopravvalutato. Non è un caso se alcune sue opere sono state pubblicate nello Specchio mondadoriano, collana di poesia storica, e una volta anche prestigiosa, nella quale oggi sono quei poeti che non hanno molto da dire.
Qualche anno addietro, stroncando molto volentieri Neomarziale, uscito appunto ne Lo Specchio, parlai di Zeichen poeta che “racconta occasioni e situazioni senza mai entrare nel cuore delle cose, il suo verso descrive soltanto quello che accade. Una poesia incolore che rende la vita una faccenda antiemotiva e priva di sensazioni “.
Zeichen con quella raccolta si confermò un poeta dalla vena occasionale. Questo descrivere alla lettera le cose e le azioni del quotidiano fa della sua poesia una sequenza completamente morta di parole che serve soltanto a riempire pagine bianche. Valentino Zeichen, ancora oggi, non crede nella funzione affermativa della poesia, non ritiene opportuno scavare nelle ragioni intrinseche della parola poetica, cosa più grave non vuole ispirarsi alla follia di vedute passionali per inventare emozioni in grado di catturare i lettori.
È sufficiente sfogliare il suo nuovo libro fresco di stampa per imbattersi nella piatta banalità del discorso poetico di Valentino Zeichen. Aforismi d’autunno (Fazi editore, pagine 167, 15 euro) è una cattiva copia di uno zibaldone in cui il poeta (?) si cimenta con la folgorante brevità dell’aforisma. Il risultato è davvero deludente, ma è allo stesso tempo la conferma della scrittura insignificante e minimalista di Zeichen che non riesce ancora una volta ad andare oltre la superficie delle parole.
A cosa serve scomodare le intuizioni che pugnalano tipiche dell’aforisma se non si riesce a scalfire il proprio tempo con la ricchezza di poche parole? Praticamente a nulla. Nel caso di Zeichen l’aforisma è un vuoto esercizio di stile, un pretesto per realizzare un narcisistico atto di scrittura. “Si lima le ossa / delle unghie / sul mio cuscino”; “Nel frattempo si annida la polvere /sul nodo scorsoio della cravatta”; “I poeti subacquei s’immergono / nel torbido dell’interiorità / mentre la profondità galleggia / nella superficie del linguaggio” .
Questi pochi frammenti rendono perfettamente l’idea di una scrittura arida e volutamente incapace di esprimere qualcosa. Nella bandella si legge che Zeichen ha scritto questi aforismi in forma di poesia “ pensando ai cambi di colore della natura in autunno,a metafora di una condizione esistenziale, trae ispirazione dalla profondità di Karl Kraus, dall’eleganza di Oscar Wilde, nonché dalla raffinata leggerezza di Ennio Flaiano”.
Cari amici di Fazi, forse avete esagerato un po’. Leggere per credere. Oscar Wilde: “L’opinione pubblica esiste laddove non ci sono idee”. Karl Kraus: “Che tortura questa vita in società! Capita che uno sia così premuroso da offrirmi del fuoco e allora, per essere premuroso con lui, mi devo tirar fuori di tasca una sigaretta”. Ennio Flaiano: “Ho un solo motivo di consolazione. Si crede comunemente che gli stupidi sodalizzino. Non è vero. Nessuno odia e disprezza tanto uno stupido quanto un altro stupido. Se così non fosse… ma il guaio è che siamo tanti”.
Non c’è nient’altro da aggiungere. Zeichen non ha la profondità di Kraus, nemmeno l’eleganza di Wilde, la raffinata leggerezza di Flaiano neanche lo sfiora. Infatti, in uno dei suoi Aforismi autunnali, egli si definisce un poeta svogliato che non vuole più saperne di scrivere, e ha bloccato l’emorragia dell’inchiostro con la matita emostatica. A questo punto è lecito chiedersi perché abbia pubblicato un altro libro inutile.
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Nicola Vacca 

mercoledì 24 novembre 2010

Gianfranco Miglio, Roberto Saviano e la mafia
Gomorra, Cartagine, Roma

Busto di  Gianfranco Miglio (Brescia 2010) 

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Dare oggi a Gianfranco Miglio del mafioso, o comunque dello “sdoganatore”, ricorda l’accusa, altrettanto sciocca, rivolta a Vilfredo Pareto, già negli anni Venti, di essere stato l' ideologo principe del fascismo. Si tratta perciò di una "imputazione" che non può che squalificare ulteriormente un personaggio, già incolore per cultura e intelligenza, come Roberto Saviano.
Ma torniamo a Miglio, scomparso nel 2001. Prima la frase “incriminata”, che risale a un’ intervista del 1999.
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“Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina la crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate” .
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(“Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica”, intervista a cura di Stefano Lorenzetto, “il Giornale” 20-03-1999, p. 9, Pdf reperibile qui: http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=search&currentArticle=131XU )
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La chiave per capire il senso politologico di un’affermazione che a prima vista può apparire paradossale, non è tanto l’ idea di “costituzionalizzazione della mafia” quanto il termine “costituzionalizzare”.

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Dalla "pistola" al "contrattto"
Si tratta di un termine che rinvia alla teoria politica di Miglio e in particolare alla sua analisi del processo politico. Da lui ciclicamente inquadrato come conflitto tra un diritto astratto imposto dall’alto, in nome dell’impersonalità della legge, e un diritto corporativo, concreto, difeso in basso e spesso legato al potere di un uomo, ma comunque esito di una dialettica politica, sempre viva e accesa, tra i diversi e opposti gruppi sociali. Di conseguenza per Miglio lo “Stato moderno”, in particolare lo “Stato di diritto”, rimane l’eccezione (storica) piuttosto che la regola. Siamo perciò davanti a un conflitto permanente e costitutivo tra i vari gruppi sociali, dove i vincitori (sempre temporanei), possono imporre le propria legge, appunto “costituzionalizzandola” e quindi "incivilendosi", seguendo la fase ascensionale della traiettoria vichiana. Un sociologo parlerebbe di processo di istituzionalizzazione. Come dire: dalla "pistola" al "contratto". O se si preferisce, da Gomorra a Cartagine. Honoré de Balzac scorgeva dietro ogni grande fortuna un delitto... Miglio, senza emettere alcun giudizio di valore, ha tradotto politologicamente il senso profondo della Comédie humaine .
Si tratta di un approccio realistico, se non naturalistico alla politica (da Miglio denominato "puro"), che pone al centro la ferrigna e inflessibile dinamica delle forze sociali in lotta, dove altri invece hanno posto l'economia, la religione, l'etica, la scienza, i grandi uomini, eccetera. Certo, dietro l'approccio di Miglio si erge una visione dell’uomo, quella eraclitea del Polemos signore di tuttte le cose, che non potrà mai piacere a quelle che Miglio, nella stessa intervista, definisce “anime belle”. Ma ascoltiamolo:
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“La politica come la pensava Machiavelli, ha regole diverse dall’etica. La morale è una cosa, la politica è un’altra. Ecco perché non posso soffrire le anime belle, i La Pira, i Dossetti, i Lazzati, con la loro idea astratta dell’uomo. Non sopporto i cattolici sociali che vorrebbero insegnare al Padreterno come andava fatto l’uomo. Io invece accetto l’uomo come Dio l’ha creato, un impasto di bene e di male”.

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Gomorra, Cartagine, Roma
Pertanto “costituzionalizzaziare” significa realisticamente prendere atto della forza del nemico o avversario e agire di conseguenza: se chi ci fronteggia con la spada sguainata non può essere “spento”, come scriveva Machiavelli, si può provare a blandirlo… Fermo restando, che il nemico potrebbe non accettare le nostra offerta di pace. Oppure sì… Di qui la possibilità di sopraffarlo, nel caso di suoi errori o improvvise debolezze.
Piaccia o meno, la politica si regge sui puri rapporti di forza. Va anche detto, per inciso, che un approccio del genere, non può escludere per il futuro, almeno in chiave ipotetica, che lo Stato italiano non possa sviluppare una forza superiore e così piegare la Mafia. E quindi, simbolicamente il processo politico potrebbe spingersi più in là: Gomorra, Cartagine, Roma.
Ovviamente, per Miglio, che riteneva l’Italia “una mescolanza di popoli che dovevano restare separati” , quest’ultima strada, soprattutto al Sud, non era percorribile. E qui, in effetti, il politologo mostrava di ragionare più da ideologo “antiunitarista” che da scienziato politico. Ma di sicuro non da ideologo della mafia o da “sdoganatore”. La vera scienza politica, pur talvolta mescolandosi (“dopo”) all’ ideologia, parte sempre (“prima”) da constatazioni di fatto, inoppugnabili. Che al massimo possono “sdoganare” la verità…

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Ritorno all'Antico regime
Miglio muoveva da una constatazione oggettiva e precisa dei processi politici in atto, e per giunta in anni non sospetti. Ecco quel che scriveva nel 1966:
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“Credo non sarà sfuggita a nessuno la evidente corrispondenza esistente fra la legittimazione del profitto a livello d’azienda e gruppo produttivo, apparsa recentemente nei paesi di ‘democrazia popolare’ e il dilagare in Occidente dei particolarismi ‘corporati’ di tipo aziendale (pubblico e privato) e sindacale. Muovendo da direzioni opposte i due sviluppi convergono in un medesimo punto: nella convinzione che lo ‘status dell’individuo non obbedisce più al principio astratto dell’uguaglianza, ma è variamente determinato dal gruppo organizzato a cui l’individuo principalmente appartiene; e, conseguentemente, nella constatazione che alla competizione individuale, tipica dello ‘Stato di diritto’, borghese, si è sostituita nuovamente la competizione di ‘corpi’ , ‘ordini’ e ‘comunità’ tipica della società di Antico regime (…). In tale prospettiva , quale potrebbe essere il destino dello Stato? Probabilmente (…) la sorte dell’autorità statuale potrebbe non essere molto diversa da quella che, in un’analoga congiuntura costituzionale, toccò già alla ‘monarchia feudale’ (…). Analogamente il potere statuale potrebbe gradualmente ridursi ad una autorità nominale, o meglio ad una istanza arbitrale, sprovvista di autonomo potere coattivo e di iniziativa, ma adatta a mediare saltuariamente i conflitti fra le potenti corporazioni di cui si discorreva poco fa”.
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(G. Miglio, Il ruolo del partito nella trasformazione del tipo di ordinamento vigente [1966], ora in Idem, Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, 2 voll. Giuffrè Editore, Milano 1988 , vol. I, pp. 547-548)
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Questa non è che una tra le numerose citazioni in argomento che si possono ritrovare nei suoi scritti.
Ora, un quadro del genere - a dir poco profetico, se si pensa al destino del mondo sovietico, al processo di globalizzazione e alle guerre in atto - prova come la verità della scienza finisca sempre per vendicarsi dell’ideologia. E come al tentativo dell’applicazione della legge uguale per tutti (l’eccezione storica) finisca sempre per sostituirsi la dura competizione (la regola), fatta, come insegna la scienza politica, di conflitti, trattative, accordi, fra tutti i gruppi sociali, e, a maggior ragione, tra lo Stato ( che può essere facilmente retrocesso a gruppo tra i gruppi…) e altri attori sociali, inclusi, probabilmente, anche quelli criminali.
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Conclusioni
E qui arriviamo alla questione della presunta (per ora) trattativa Stato-mafia” del 1993, di cui tanto si discute in questi giorni. Trattativa, che pur essendo ancora da provare sul piano giudiziario, potrebbe risultare attendibile dal punto di vista della sociologia, ossia di una società che, per dirla con Miglio, ricorda sempre più “la competizione di ‘corpi’, ‘ordini’ e ‘comunità’ tipica della società di Antico regime” - poi cancellata dalla Rivoluzione francese - dove lo Stato in realtà era meno assoluto di quanto oggi si creda…
Una società, proprio come nel 1992-1993 (non che le cose ora in Italia vadano meglio…), dove uno Stato partitocratico, debole e diviso, non poteva non mostrarsi disponibile a trattare su tutto e con tutti, pur di conservare un brandello di potere. Figurarsi perciò con la mafia…
Pertanto - riassumendo - la lucida analisi scientifica di Miglio risulta né a favore né contro la Mafia: descrive una situazione di fatto. Infine, il politologo della Cattolica avanza un’ipotesi interessante che può aiutarci a capire il perché “sociologico” della trattativa Stato-mafia del 1993, tuttora però giudizialmente da provare. Ma anche per andare oltre. Perché il realismo di Miglio può essere utile a coloro che al Sud come al Nord vogliono giustamente combattere mafia, camorra, 'ndrangheta. Altro che “sdoganatore”…

Carlo Gambescia
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martedì 23 novembre 2010

 Nasce la Federazione della Sinistra

Socialdemocrazia,  introvabile...


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Ieri ammiravano l’ Unione Sovietica dal carro armato facile, oggi l’America Latina di Chavez e compagnia sciabolante. Di chi parliamo? Della Federazione della Sinistra (FdS). Totale voti alle regionali del 2010: intorno al tre per cento… Che ha celebrato lo scorso fine settimana il primo congresso all’ Ergife di Roma, davanti a suoi tre subcomandanti: Ferrero, Diliberto e Salvi…
Nel documento congressuale si legge che “Rifondazione comunista, Pdci, Socialismo 2000 e Lavoro-solidarietà daranno vita, “in nome di quello che i popoli latinoamericani chiamano il socialismo del XXI secolo, a un nuovo soggetto politico” rivolto a “invertire la tendenza alla divisione e alla frammentazione, che tanto danno hanno arrecato alla sinistra”. La Federazione, si prosegue, “non è un partito unico e nemmeno un cartello elettorale o la sommatoria di due partiti comunisti, ma un progetto ambizioso e originale che punta a valorizzare e a trasformare in iniziativa politica il conflitto sociale e la prassi quotidiana patrimonio comune alle differenti soggettività che costituiscono la Federazione”.
E sempre in nome della “soggettività” si sottolinea la distanza sia dal Pd e dalle forze moderate del centrosinistra. Ma non piace neppure Vendola, dal momento che si fa notare come “la diversità tra la nostra piattaforma e il nostro progetto politico” rispetto a quello di Sinistra ecologia libertà “non vada negata e nemmeno sottovalutata”…
Quando però si va a spulciare nel programma della Federazione della Sinistra, si scopre che potremmo essere davanti a un micropartito socialdemocratico, magari più spostato a sinistra come certe vecchie frange della sinistra del Labour Party o del Sozialdemokratische Partei. Infatti, a parte l’ oggi rituale antiberlusconismo, che si propone in concreto? “ Politiche fiscali che “spostino i carichi dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite”, una “legislazione del lavoro che contrasti la precarietà”, il riconoscimento del “matrimonio tra persone dello stesso sesso”, l’ uscita “dalla Nato, il ritiro unilaterale dall’Afghanistan e la chiusura delle basi militari straniere in Italia”.
A parte, il delicato tocco di post-modernità gay e la critica alla Nato, da sempre diffusa anche nella sinistra dei partiti laburisti inglesi e tedeschi, saremmo quasi in pieno clima socialdemocratico… Ma, allora, Ferrero, Diliberto e Salvi hanno cambiato bandiera? Si professano socialisti del XXI secolo mentre in realtà sono socialdemocratici del XX? No. Perché continuano, in stile vecchio Pci, a non essere carne né pesce, Ci spieghiamo meglio.
L’Italia non ha mai avuto un vero partito socialdemocratico, perché, soprattutto nel secondo dopoguerra, la cosiddetta sinistra maggioritaria (comunisti e socialisti), ha sempre guardato al socialismo come obiettivo finale. A differenza della socialdemocrazia tedesca, che a Bad Godesberg (1958) sposò la causa del riformismo, in Italia, all’inizio degli anni Sessanta, comunisti e socialisti ancora si baloccavano con la “democrazia progressiva” (comunisti) e le “riforme di struttura” (socialisti): due eufemismi per dire che loro mica erano socialdemocratici: democrazia e riforme, non potevano restare tali, ma dovevano favorire - come si leggeva nei documenti ufficiali - la “transizione” dal capitalismo al socialismo. Ancora negli Ottanta, persino Craxi, malgrado l’ enfasi sul “riformismo”, ogni volta che alzava il gomito tirava fuori dalla tasca Proudhon e l’autogestione socialista…
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e il terremoto di Tangentopoli, comunisti e socialisti, senza mai essere stati socialdemocratici, sono diventati di colpo liberisti… E gli ultimi comunisti irriducibili, come Ferrero, Diliberto e Salvi, socialdemocratici. Ma solo a metà, perché continuano tuttora a rifiutare il capitalismo in nome del “Sol dell’Avvenire”…
Morale della favola: in Italia, ancora oggi non esiste un vero partito socialdemocratico… Che malinconia.

Carlo Gambescia

lunedì 22 novembre 2010

Veronesi, Binaghi e assonanze varie
Toh,  chi si rivede!  Il Male...

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Nel nuovo libro di Sandro Veronesi, XY (Fandango) si affronta “l’ineluttabilità del male”.
Veronesi è scrittore, come si dice a Roma, che "se butta". Inoltre è fortemente appoggiato negli ambienti letterari che contano. Come prova la serata lampo di “reading-spettacolo” all'Auditorium, organizzata per oggi, secondo il vecchio rito veltroniano e con la solita compagnia di giro, rigorosamente progressista al caviale.
Nel libro, al di là della solita macchinosità tipica di un autore che di mestiere al massimo potrebbe fare lo sceneggiatore di telenovelas, abbiamo notato un' assonanza (di cui, come Montalbano “non ci siamo ancora fatti persuasi"…), con un bellissimo romanzo, un romanzo vero, di Valter Binaghi, altro nostro contemporaneo (I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano, Sironi Editore, recensito qui: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2008/02/il-libro-della-settimana-valter-binaghi.html) . Con una differenza fondamentale.
Il libro di Veronesi, oltre ad essere scritto nel consueto stile da ubriaco sobrio, affronta, piuttosto che la riflessione cosmica sul male, la questione dell’elaborazione del male e alla stregua di un mediocre sociologo del lutto. Se Binaghi sciabola il male, anche nella forma del Maligno, con la classe di un Chesterton lacustre, Veronesi invece si compiace di passeggiare tra le rovine, offrendosi come guida allo sprovveduto lettore di oggi. E come le guide improvvisate di una volta, quelle dei film di Totò, anche Veronesi vende monete antiche false.
I suoi romanzi.

Carlo Gambescia

venerdì 19 novembre 2010

Cinque anni!


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Il 17 novembre il blog ha compiuto cinque anni ( http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2005/10/la-torta-francese-sulla-questione-delle.html) . Ovviamente, ero troppo impegnato a “demolire” Franco Cardini per “festeggiare” con i lettori…
Cosa dire allora? Che "mi" fa piacere (per una volta abbandono il plurale maiestatico…) essere qui. Il numero degli amici e simpatizzanti acquisiti in questo lustro è sicuramente superiore, e di molto, a quello dei nemici e detrattori.
Del resto chi scrive di mestiere, e scrive onestamente, non può, anzi non deve andare d’accordo con tutti… E’ dunque fisiologico che poi qualcuno si offenda e reagisca secondo l’educazione ricevuta.
Comunque sia, grazie a tutti: amici, simpatizzanti, nemici e detrattori.
Prossimo appuntamento? 17 novembre 2015... Per il decennale!


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Carlo Gambescia

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giovedì 18 novembre 2010

Il libro della settimana: Joscelyn Godwin, L’illuminismo dei teosofi. Le radici dell’esoterismo moderno, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2009, pp. 544, euro 29,50 .

http://www.libreriaeuropa.it/scheda.asp?id=5362&ricpag=1

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Ecco un libro che andrebbe letto in compagnia di un piccolo classico filosofico (magari aulicamente su un leggìo a due posti...) : Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer. Parliamo naturalmente del bel volume di Joscelyn Godwin, L’illuminismo dei teosofi. Le radici dell’esoterismo moderno ( Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2009, pp. 544, euro 29,50), uscito nella eccellente collana “Giano – L’altra storia”, che ormai ha superato la boa dei dieci volumi (e che volumi...), diretta dal dottissimo Marcello De Martino.
Perché, dicevamo, Godwin, Adorno e Horkheimer andrebbero letti, come si esprimevano i nonni, “di conserva”? Per una ragione fondamentale. Godwin - uno storiografo dell’esoterismo prestato alla musicologia (ma questa è un’altra storia…) - si inoltra con intensa partecipazione nello studio dei fitti legami tra illuminismo inglese e teosofia, occupandosi in particolare dell'ambigua circolarità tra scetticismo, spesso distruttivo, della ragione e fascino verso sempre "ragionevoli" trasformazioni spirituali, Si tratta di un complesso processo storico culminante nella “Società Teosofica”, fondata dalla Blavatsky, e nel successivo pullulare dei vari correntismi spiritualistici, tuttora imperversanti tra Oriente e Occidente. Processo, già ben delineato sul piano filosofico e anti-tecnocratico, da Adorno e Horkheimer. Parliamo della famigerata dialettica tra ragione (buona), aperta a spirito e natura da un lato, e razionalità strumentale (cattiva) , dominatrice di uomini e cose dall'altro: un'autentica costante dell’illuminismo moderno. Di qui il nostro consiglio di leggere i due libri insieme. Anche perché, in fondo, il teosofismo resta una specie di tecnocrazia dello spirito, certamente blanda, ma pur sempre tecnocrazia...
Ovviamente, semplifichiamo, per linee guida, un testo, quello di Godwin, ricchissimo di sfumature, perfino “umane troppo umane”, come rileva Dana L. Thomas, il traduttore e prefatore italiano, e come provano undici pagine di Indice dei nomi. Per non parlare delle diciassette di Bibliografia.

Acutissima questa riflessione finale, dove Godwin si (e ci) concede il lusso di spingersi fino a sezionare sapientemente l'attualità.

“ In conclusione, sembra che, nei primi anni del Novecento, si stesse creando un terreno comune tra occultismo, buddismo e la tradizione gnostica occidentale. Oriente e Occidente si erano separati, ma solo su un certo livello. Gli spiritisti londinesi non soppotavano la filosofia induista; e l’esoterismo cristiano di C.G. Harrison non si conciliava con il buddismo di Allan Bennett, di scuola Hinayana. Tuttavia, la Società Teosofica aveva sempre coltivato lo scopo di abbattere le barriere tra religioni e popoli, di ‘formare il nucleo della Fratellanza universale dell’umanità senza distinzione di razza, di religione, di sesso, di casta o di colore’. La Blavatsky (…) credeva senz’altro che l’Occidente avrebbe fatto meglio a guardare verso Oriente se voleva conoscere la vera filosofia (…). Di conseguenza, la sua Società con i relativi membri e affiliazioni, divenne il principale veicolo per la penetrazione nelle coscienze occidentali delle filosofie induiste e buddiste, non solo dal punto di vista dello studio accademico ma come qualcosa che valesse la pena abbracciare. In questo modo, i teosofi aprirono la strada ai migliori, ed ai peggiori, tra i guru orientali che si sono stabiliti in Occidente. Hanno introdotto nel linguaggio di tutti i giorni concetti come karma e reincarnazione, meditazione e cammino spirituale. Insieme con la tradizione dell’occultismo occidentale, hanno origine, tra i teosofi, quasi tutti i presupposti del movimento ‘New Age’, il loro aspetto essoterico in cui non esiste per niente una scissione tra Occidente e Oriente” (…) . Nessuna civiltà precedente ha mai avuto l' interesse, le risorse o la spinta interiore ad inglobare il mondo intero nel proprio abbraccio intellettuale; a prendere il passo tremendo di rinunciare alla propria tradizione religiosa e persino profanarla, nella ricerca di un punto di vista più aperto e più razionale” (pp. 504-505)
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Detto altrimenti: per l’"illuminismo teosofico", la stessa mano che propinava il veleno (il razionalismo strumentale) doveva fornire l’antidoto (il razionalismo spiritualistico).

Ovviamente, così non è stato. E Godwin, Adorno e Horkheimer ci spiegano perché

mercoledì 17 novembre 2010

 Ancora su Franco Cardini
Utile per la società 
e utile della società


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Un lettore ieri chiedeva che cosa ci fosse di sbagliato nelle affermazioni di Franco Cardini da noi riportate nel post a lui dedicato qualche giorno fa (http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2010/11/cardini-il-chomsky-dei-poveri-conuna.html):
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"Quanto alle lobbies multinazionali, ai poteri finanziari e bancari che sostengono i politici che hanno piazzato come loro “comitato d’affari”, agli spacciatori mercenari di strapagate menzogne massmediali, ai massacratori d’innocenti in Iraq e in Afghanistan e ai mercanti d’armi e di petrolio che li sostengono, alle aziende farmaceutiche che condannano milioni di persone a morte per AIDS pur di mantener alti i costi dei loro brevetti, a chiunque lucri su un sistema mondiale così infame da permettere ad alcune decine di migliaia di persone al mondo di nuotare ogni mattina in una piscina olimpionica mentre si cerca di far pagare l’acqua a interi popoli assetati"
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Cogliamo l’occasione, non tanto per rispondere direttamente al lettore sulle singole affermazioni dello storico, dal momento che alla "propaganda" si rischia sempre di rispondere solo con altra "propaganda". E questo tipo di confronto non ci interessa, come i lettori abituali ben sanno. Vorremmo invece - ripetiamo - cogliere l'occasione per elevare il tono del dibattito, tentando di chiarire alcune questioni "a monte", ossia di “metodo”.
Ora, esiste una distinzione classica, di derivazione paretiana, tra utile della società e utile per la società, che così sintetizziamo:

L’utile della società è costituito da ciò che è utile, in senso oggettivo (della società), alla sua riproduzione.
L’utile per la società è determinato da ciò che gli uomini designano, in chiave soggettiva ( ma come entità collettive non individuali), come culturalmente "utile" per la sua riproduzione.
Utile della società e utile per la società coincidono? Possono coincidere in una società di cacciatori e raccoglitori, dove le pretese culturali sono minime o pari a zero, ma non coincideranno mai in una società complessa, come quella moderna, dove le pretese culturali sono massime e dove, di regola, sono in conflitto le più diverse teorie su quello che deve essere l’utile per la società (dal liberalismo al socialismo, al fascismo, al "decrescismo", eccetera).

L’ideale sarebbe quello di stabilire, una volta per tutte, l’utile della società, ma come abbiamo visto, quanto più si complica culturalmente la società, tanto più diviene difficile, se non impossibile, stabilirlo. Anche perché, in un quadro culturale sempre più ricco e complesso, le diverse idee di utile per la società, confondendosi con l' utile della società, finiscono regolarmente per entrare in conflitto. In questo senso l’equilibrio tra le diverse idee di utilità per la società sarà sempre di tipo storico, generazionale, contingente e imperfetto, con vinti e vincitori: la perfezione, insomma, non è di questo mondo. Non esistono ricette politiche definitive e assolute.
Solo un sano relativismo riformista può garantire periodi di equilibrio storico, comunque sempre a rischio di rapida dissoluzione (rapida in termini di secolare “tempistica” storica…). Ovviamente, anche questo è un giudizio di valore. E, a voler essere coerenti, racchiude anch'esso un'idea di utile (riformista) per la società. Lo ammettiamo, senza alcuna remora, proprio perché siamo "imperfettisti".
Qual è la morale del nostro discorso? Che uno storico come Cardini dovrebbe conoscere a memoria questi problemi. E perciò evitare il linguaggio perfettista (come nel passo citato) di chi, illudendosi e illudendo gli altri, crede che la propria idea di utile per la società sia l’unica valida. Magari presentandola come utile della società . Il che potrebbe anche andar bene. Ma in una società di cacciatori e raccoglitori.

Carlo Gambescia

martedì 16 novembre 2010

Il fattore  tempo in politica
Italia, ritorno al futuro



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Ieri dicevamo dei tempi lunghi della bontà… La bontà, per essere credibile (qualcosa su cui contare socialmente) implica la fiducia, e la fiducia si costituisce nel tempo, attraverso la reiterazione del comportamento positivo.
Ad esempio, la Caritas, istituita nel 1971, per diventare una macchina sociale (e politica) della bontà ha impiegato quasi quarant’anni. Ovviamente, parliamo della bontà come fattore sociale prodotto da un attore collettivo.
Ma veniamo al tempo come fattore politico. La politica parla al passato, al presente o al futuro?
Procediamo per gradi. Il tempo in politica, semplificando al massimo, si manifesta sotto tre forme.
In primo luogo, abbiamo il tempo come elemento costitutivo del progetto politico, in relazione a quel che un certo gruppo sociale si proporrà di fare nel e per il futuro
In secondo luogo, abbiamo il tempo come elemento portante del concetto di interesse. L’interesse si costituisce e si stabilizza nel tempo futuro. Dal momento che quel che oggi può essere vantaggioso, potrebbe non esserlo domani . Pertanto anche il concetto di interesse parla, o comunque guarda - con "interesse"... - al tempo futuro
In terzo luogo, abbiamo il tempo come fattore fondativo del gruppo sociale. Dunque tempo al passato? Non proprio. Dal momento che qualsiasi gruppo sociale, pur celebrando un’identità passata, la reinterpreta e rivive nei termini di un'eredità spendibile nel e per il futuro.
In conclusione, si può di asserire che il tempo in politica è principalmente rivolto al controllo del “futuro”. O se si preferisce a dominare l’incertezza e facilitare la decisione. Ma anche - e qui si pensi solo al ruolo dell’utopia politica – ad appagare la inestinguibile capacità immaginativa dell’uomo.
Ma, se le cose stanno così, allora che pensare di conservatori, tradizionalisti e reazionari? Semplificando (forse troppo...), diciamo che questi gruppi usano il tempo passato per ricostituire nel futuro, una società del passato . E che quindi anch’essi parlano, magari non intenzionalmente, al tempo futuro.
Vogliamo applicare quanto sopra al caso italiano? Nessuna paura, non la faremo troppo lunga, bastano solo due battute: la politica italiana, da destra a sinistra, si muove nel presente. Ignora sistematicamente sia il passato sia il futuro: il trionfo dell’impoliticità.


Carlo Gambescia

lunedì 15 novembre 2010

  La  fortunata serie  televisiva sulla "Banda della Magliana"
Violenza a portata di telecomando





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Dal 18 novembre andrà in onda su Sky la seconda serie di “Romanzo criminale”. Sorprende - ma fino a un certo punto - il successo televisivo “mondiale” (*) di storie che riguardano un gruppo di feroci e determinati delinquenti romani. Del resto, basta fare un giro su YouTube, ad vocem , per leggere giudizi entusiasti sul "valore" del “Libanese” e sodali.
Lo scrittore-magistrato De Cataldo, autore dell’ omonimo romanzo e supervisore della serie televisiva, ha già messo le mani avanti, dichiarando che nella seconda stagione ci troveremo davanti a "una parabola che ha qualcosa di tragico" E che perciò "la guardino soprattutto quelli che hanno detto che c'era un'esaltazione dei cattivi nella prima. Qui c'è la resa dei conti”.
Ne prendiamo atto, ma il punto è un altro. Anche perché a “Romanzo Criminale” vanno affiancate le più diverse produzioni televisive, di pari successo, rivolte a celebrare il ruolo positivo di polizia, magistratura eccetera, serial che godono di altrettanta ammirazione su You Tube.
Che c’è allora che non va? La dietrologia e il sociologismo facile. Ci spieghiamo subito. I media usano presentare i protagonisti delle fiction (siano poliziotti o criminali) come vittime di un potere più grande di loro che si manifesta attraverso determinismi sociali, capaci di scattare inesorabili: il superiore venduto, il politico intrigante, il poliziotto corrotto, o al contrario il poliziotto onesto ma sfortunato, il superiore integerrimo ma vittima dei potenti di turno, e così via, passando dal micro al macro.
Però in questo modo i media seminano soltanto incertezza e senso di impotenza. Detto altrimenti: al tempo stesso non rafforzano la lealtà dei cittadini nei riguardi delle istituzioni né la capacità di protestare o la voglia di impegnarsi democraticamente. Mentre alimentano nella gente la paura di finire sotto le ruote di una macchina sociale apparentemente inarrestabile. Di qui certo conformismo sociale autodifensivo, dietro il quale però si scorge un gusto collettivo, oggi abbastanza diffuso e talvolta manifesto tra i giovani, per la violenza individuale in quanto tale, come strumento di rapido annullamento dell’altro: una violenza gratuita e tesa alla pura autoaffermazione.
Diciamo che si tratta di una violenza traslata : l’individuo non potendo dirigerla sulle istituzioni, la interiorizza e trasferisce sull’altro.
Concludendo, il problema di certe produzioni televisive non è l'esaltazione del buono o del cattivo, ma l'enfatizzazione della violenza a fronte - perché il messaggio è questo - di un mondo che non potrà mai essere cambiato "né con le buone né con le cattive"... "Cattive", però, che possono essere usate contro chiunque, individualmente, ci dia fastidio. Dal momento che le "buone" impongono tempi lunghi... La bontà non sempre è riconosciuta e gradita... Mentre che c'è di più rapido di un pugno - o di peggio - per "regolare un conto in sospeso"? 
La violenza come forma di guerra tra "poveri"? Forse. E fiction come "Romanzo criminale" non aiutano.

Carlo Gambescia

(*) 

venerdì 12 novembre 2010

Dal momento che si ritorna a parlare di elezioni vicine, se non vicinissime, pubblichiamo un acuto commento dell'amico Teodoro Klitsche de la Grange sul tormentone "riforma della legge elettorale"... Si tratta di un contributo interessante perché proviene da un giurista attento alle questioni sociologiche, e che dunque non vive di soli codici e pandette. Klitsche de la Grange punta al cuore, o sostanza, della questione: la forte diffidenza dei cosiddetti poteri forti (economici), nelle mani di pochi, verso il potere (politico), soprattutto quando capace di suscitare elettoralmente un'ampia e forte legittimazione popolare (C.G.)
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No, la legge elettorale, no
di Teodoro Klitsche de la Grange


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Da quando tira aria di elezioni, fioccano giudizi assolutamente negativi sulla legge per l’elezione del Parlamento. Non c’è espressione negativa che ci sia risparmiata per stigmatizzare il “porcellum” e l’impellente necessità di riformarlo: e ciò da parte di personaggi tutti eletti in base a questa legge, e, per i leaders di partito, presentatori delle liste e, quel che più conta, decisori dell’ordine in lista, determinante per essere eletti. Ma quando s’indaga su quali norme si vorrebbero riformare, la questione diventa "nebulosa": unica ragione (talvolta) esternata è la reintroduzione del voto di preferenza.
In realtà le caratteristiche principali del "porcellum" – anche se non esclusive di tale “sistema” – erano tre:
a) l’introduzione di un premio di maggioranza (il cui effetto è assicurato, di solito, anche dai sistemi a scrutinio uninominale maggioritario, come, tra gli altri il “mattarellum”);
b) l’introduzione di “clausole di sbarramento” per i partiti minori (quelli che non raggiungono un certo risultato minimo elettorale);
c) la non previsione del voto di preferenza, sostituito dall’elezione per ordine di lista.
Orbene il primo (cioè il premio di maggioranza) è previsto al fine di garantire la governabilità, come succede nella maggior parte dei regimi parlamentari, e anche in Italia nelle elezioni regionali, provinciali e comunali. Anzi nel sub-sistema locale è assicurato assai più che a livello nazionale che chi va al governo non possa essere sfiduciato (nel senso che, in tal caso, diventa automatico il ricorso alle urne) né sostituito (con patti di “staffetta” e simili).
Dato che la nostra non è una Repubblica presidenziale o semipresidenziale, ma parlamentare, il principale sistema per garantire infatti che governi chi ha la maggioranza (anche relativa) dei suffragi è che ottenga la maggioranza (assoluta) dei parlamentari.
Gli altri due non hanno né effetti così positivi (e necessari) ma prevalgono quelli negativi. Infatti entrambi riducono (enormemente) l’effetto d’integrazione e la possibilità di rinnovamento politico, almeno nei tempi medio-lunghi.
Quanto alla clausola di sbarramento: che in un parlamento in cui, ad esempio, come quello insediato, il PDL aveva la maggioranza assoluta dei seggi, e la minoranza si divida com’è, tra PD e IDV, ovvero, se non fosse stata prescritta la clausola di sbarramento, vi fosse anche qualche rappresentante della sinistra “estrema” (e anche della destra “estrema”) non toglie nulla alla governabilità, ma toglie assai alla capacità d’integrazione e rinnovamento, la cui funzione, nelle democrazie moderne è stata assolta principalmente dal Parlamento (e dalle assemblee elettive).
Una distribuzione includente dei seggi parlamentari, serve a dar voce alle minoranze e allo stesso tempo, a evitare che costrette ai margini della vita politica, non diventino partiti extrasistema o, peggio, armati.
Una funzione anch’essa integrativa è quella della preferenza, perché consente all’elettorato di scegliere (o co-scegliere) non solo il partito (e il leader) ma anche il parlamentare, permettendo così che il circuito identitario-rappresentativo si costituisca anche con i parlamentari e non solo con i partiti (e i leaders). É inutile dire quanto sia importante, anche in tal caso, che la stessa dirigenza politica possa essere misurata e rinnovata all’interno dei partiti con il criterio del consenso (preferenziale).
Ma, realisticamente, non è credibile che oggetto delle modifiche alla legge elettorale siano la reintroduzione del voto di preferenza e l’abolizione (o la riduzione) delle clausole di sbarramento: l’uno o l’altra fanno troppo comodo a tutte le dirigenze dei partiti presenti in Parlamento, assicurando il loro potere e la continuità dello stesso: e non si vede per quale ragione dovrebbero trovare un accordo il cui effetto sarebbe trasformarli nei classici tacchini invitati al pranzo di Natale.
E cosa rimane allora?: il premio di maggioranza, il quale almeno nelle aspirazioni del centro-sinistra, e dei poteri forti che ne costituiscono la magna (et valentior) pars, ha l’ossessione di ciò che crea un decisore effettivo, e più ancora un decisore a largo consenso, cioè un governo legittimato dal popolo e dotato dei mezzi di decisione. Per cui le critiche all’ordine di lista hanno la stessa funzione del “falso scopo” in balistica: si finge di mirare a quello, ma è il premio di maggioranza l’obiettivo da colpire.
Ora, ad analizzare l’attuale situazione costituzionale italiana (che non è solo - né tanto – quella descritta nella Costituzione formale) abbiamo che faticosamente è diventata legge (elettorale) vigente che governi chi ha più voti, ma (e qua rifà capolino la Costituzione formale) a condizione di mantenere nella legislatura la maggioranza dei seggi; e, che quel che più rileva – e qua rientra a vele spiegate la Costituzione del dopoguerra – che abbia pochi poteri di governo.
Questa è, in sostanza, la situazione di “equilibrio” (transizione) che si è venuta a creare: e che i poteri forti (e il centro-sinistra) mal sopportano: è chiaro il tentativo e l’obiettivo di rivedere il premio di maggioranza onde togliere a chiunque vinca le elezioni il carisma (e l’autorità) della legittimazione popolare e ancor più l’unico risultato che ne consegue (la maggioranza dei seggi): due passi indietro per il popolo e l’Italia, un passo avanti per loro.
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Teodoro Klitsche de la Grange

(*) Avvocato, giurista, direttore del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ). Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
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La replica di Klitsche de la Grange ai commenti (16.11-10)
Caro Carlo,
Purtroppo, per ragioni di tempo, cercherò di rispondere globalmente ai commenti apparsi sul blog. Scusandomi quindi per la concisione.
Partendo dalla situazione concreta il problema è costituito da: una repubblica parlamentare in cui le Camere non hanno tanto o solo il potere legislativo, ma la posizione di centralità nell’ordinamento: tant’è che i poteri politicamente più importanti attribuiti al Parlamento non consistono nel legiferare, ma nel deliberare su atti e questioni che non sono leggi (in senso sostanziale) e spesso neppure in senso formale.
Basta leggere gli artt. 78 - 82 e l’art. 94 (sulla fiducia al governo) della Costituzione: enumerano tutta una serie di atti, di competenza delle Camere, (lo stato di guerra, la fiducia, il bilancio, le commissioni d’inchiesta) che non sono leggi in senso sostanziale anche se taluni di essi sono adottati in forma di legge (esplicitamente prescritta, ad esempio, dall’art. 82 per le autorizzazioni ad accordi internazionali).
Per questo un acuto giurista, poco letto in Italia, dove sarebbe invece assai utile studiarlo, come Maurice Hauriou, chiamava, oltre un secolo fa, il potere delle Camere nella Terza repubblica francese (che più parlamentare non si poteva) “pouvoir déliberant” e non “legislatif” per sottolinearne la natura (e la posizione) che era solo parzialmente di organo legislativo, ma in effetti di organo centrale del sistema, quale titolare del potere d’indirizzo politico. E sosteneva anche: a) che la Repubblica parlamentare come forma di governo era un’invenzione francese, perché prima della Terza repubblica, nel mondo “sviluppato” non c’erano che monarchie (costituzionali o) parlamentari o repubbliche presidenziali; b) che il potere centrale dello Stato moderno è quello gouvernemental (governativo-amministrativo) perché è il motore – quello che consentiva alla comunità politica di esistere ed gire.
Poneva così, oltre un secolo fa, le questioni decisive ancora di attualità nel sistema vigente. Finché un governo può cadere perché un ignoto senatore Turigliatto, peraltro del tutto coerente con la propria impostazione politica, ritira la propria personale fiducia al governo, incide poco o punto sul legificio parlamentare: molto di più sulla “tenuta” del governo e sull’indirizzo politico. In una repubblica presidenziale il problema non si pone: in una semi-presidenziale (alla francese) è il Presidente della Repubblica – plebiscitato – a scegliere se costituire un nuovo governo o sciogliere le camere (appello al popolo); nei comuni e nelle province italiane – e nelle Regioni che hanno seguito negli statuti lo schema delle novelle al testo costituzionale – è automatico l’appello al popolo (le nuove elezioni) – con la c.d. “clausola di dissolvenza”.
Ma nella repubblica parlamentare è sempre il parlamento a decidere il da farsi. Da ciò deriva che difficilmente un Parlamento decide di auto-sciogliersi; e pertanto la necessità che negozi la propria sopravvivenza e soprattutto quella della “maggioranza” e del governo che deve esprimere, con gruppi e gruppetti, non solo del tutto marginali, ma spesso neppure espressione di forze politiche (i c.d. poteri forti). I quali condizionano pesantemente sia la legislazione, che l’azione politica complessiva. E qua veniamo al secondo problema: i poteri forti. Non so se sono più di destra o di sinistra: propendo a credere che in larga maggioranza “tifino” per il centro-sinistra, perché conserva loro una repubblica in cui – col sistema (al limite) del senatore o deputato marginale, risultano titolari della “golden share” sul governo; e i richiami continui, accorati e ripetuti alla Costituzione (formale) ne corroborano la propensione (alla “golden share”). Non ripeto oltre quanto già scritto nell’articolo né evidenziato da coloro che sono intervenuti nel dibattito.
Solo due notazioni.
La prima: finché l’analisi, anche costituzionale e politica è limitata, all’aspetto “formale” è chiaro che i poteri forti (nella Costituzione) non esistono perché esistono parlamentari, organi, uffici, mozioni e così via. Ma se si va a quel che più conta – e cioè la pratica - e alla prassi – è chiaro che un governo, formalmente fiduciato dal Parlamento è, in larga parte - il “comitato d’affari” – scriveva Marx – della borghesia. Oggi data l’obsolescenza della teoria delle classi (in senso marxista), lo sarà del capitale finanziario, alleato con la dirigenza burocratica e/o con quella sindacale, ecc. ecc.. La classe dirigente di un paese non è solo quella politica.
Per cui quando Pareto scriveva di plutocrazia demagogica, con cui chiamava il sistema di egemonia in cui le élites dirigenti (nella modernità in larga parte il capitale industriale e finanziario) governano con l’appoggio ed il consenso di élites e strati popolari, a carico di altre frazioni del popolo, identificava con acume un tipo (ricorrente) di situazione politica determinata da alleanze sociali.
La seconda: il tutto che si sta ripetendo non solo in generale, ma nel rapporto tra centro-sinistra e “poteri forti”, o almeno gran parte di essi. Il centro-sinistra non ha nel suo DNA la propensione alla repubblica parlamentare, dato che la scelta della Costituente del dopoguerra è stata storicamente giustificabile, ma non “dogmaticamente” consustanziale alla visione politica della sinistra; tuttavia questa sostiene una scelta che, in tutt’altra situazione storico-politica e sociale, come l’odierna, non ha le giustificazioni che poteva vantare allora. Parlamentarismo e proporzionale hanno comunque avuto – accanto ai demeriti – il grosso merito di aver consentito la gestione e la decantazione di una situazione di contrapposizione netta, ostile e pericolosa; oggi non hanno più quel merito. Non c’è il rischio che i cosacchi abbeverino i loro cavalli in S. Pietro, dato che sono troppo impegnati a fare i badanti ai pensionati italiani.
Per cui una situazione costituzionale del genere fa comodo relativamente al centro-sinistra, assai più a chi aspira a conservare la “golden share”: poteri forti in primis, minoranze politiche minuscole poi.

Teodoro Klitsche de la Grange.