lunedì 30 giugno 2014

Quale onore ! Riceviamo e pubblichiamo volentieri  l' avviso al  popolo italiano del  Professor Vilfredo Pareto (al secolo RobertoBuffagni) , già  insigne Economista e Sociologo,  Capufficio (nell'Al di là, dove si trova da  più di  novant'anni)  del Recupero Crediti Karmici...  




Giudizio Universale, I avviso

a: Anime residenti in Italia (isole comprese)
da: Ufficio Recupero Crediti Karmici

Gentili Anime Italiane,
di seguito prospettiamo la Vs. situazione debitoria:
1. tempo impiegato nello scambio di comunicazioni telefoniche superflue, frivole, grottesche, pettegole, oscene: debiti karmici 21 MLD 700 MLN
2. energia psichica e materiale impiegata nel dibattito Balotelli sì/Balotelli no: debiti karmici 14 MLD
3. energia spirituale e psichica impiegata nella giustificazione pretestuosa dei propri errori, personali, politici, storici, sportivi, etc.: debiti karmici 235 MLD 653 MLN
4. energia spirituale e psichica impiegata nell’attribuzione della colpa di tutto al nemico personale, politico, ideologico, calcistico, etc.: v. punto precedente
5. speranze, fedi, amori riposti in oggetti a) errati b) dannosi c) ridicoli (ad es.: vincita al Superenalotto, “più Europa”, Berlusconi/Renzi): debiti karmici 38 MLD 851 MLN
6. energia materiale, psichica, spirituale impiegata nella escogitazione e propalazione di menzogne, nell’ambito privato e pubblico (ad es.: “ti amo”, “cambierò”, “ieri sera? Sono uscita/o con Giovanna/Giovanni”; oppure “diminuiremo le tasse”, “sconfiggeremo l’evasione fiscale”, “andremo in Europa a battere i pugni sul tavolo”): debiti karmici 877 MLD 121 MLN
Totale debiti karmici al 29/06/2014: 1.422 MLD 978 MLN
Come è a Vs. conoscenza (v. estratto conto del 30/08/1943) il Vs. credito karmico si è esaurito in data 08/09/1943. In data 09/08/1943 Vi è stato concesso un fido karmico di 1.000 MLD, garantito in solido dai seguenti Spiriti Magni: Alighieri Durante, Buonarroti Michelangelo, d’Aquino Tommaso, d’ Assisi Francesco, [+ altri 3571 nomi fino a Zaccheroni Mariuccia].
A fronte del superamento del fido concesso, abbiamo richiesto ai Suddetti un’estensione della garanzia. Ci dispiace informarVi che , in rappresentanza dei Garanti tutti, Alighieri Durante ci ha risposto negativamente, e in toni ultimativi  (“Questi non hanno speranza di morte,/e la lor cieca vita è tanto bassa,/che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte”) a mezzo racc. a.r. del 10/06/2014.
Ci vediamo dunque costretti a ingiungerVi l’immediato rientro dei 422 MLD 978 MLN di debiti karmici eccedenti il Vs. fido, e ad invitarVi nei Ns. uffici per discutere un piano di rientro per quanto attiene i restanti 1.000 MLD.
Qualora non ottemperaste prontamente alle disposizioni summenzionate, ci vedremo costretti a procedere all’ escussione del Vs. patrimonio animico.
In attesa di un sollecito riscontro, porgiamo distinti saluti.
Il Capufficio Recupero Crediti Karmici
Prof. Vilfredo Pareto



venerdì 27 giugno 2014

Arresti domiciliari per la “mamma” di Cogne
Tana libera ( o quasi)  
per Annamaria Franzoni





Annamaria Franzoni andrà agli arresti domiciliari.  Così  ha deciso   il Tribunale di Sorveglianza di Bologna che, recependo la perizia psichiatrica, ha evidentemente ritenuto “intatta” la “capacità genitoriale” della Franzoni,  meritevole  di  intraprendere “un percorso di risocializzazione e  rieducazione” .
Il caso in sé, pur destando all'epoca grandissimo interesse mediatico,  rientra  nella triste e scontata casistica, anche motivazionale,  della violenza domestica verso i minori. Quindi non ci sarebbe molto da dire. Certo, nel caso, condotta brutalmente  da uno dei genitori fino alle estreme conseguenze. Abissi della psiche umana.
Quel  che invece colpisce è  la  questione di fondo. Si può uccidere un figlio e conservare “intatta” la propria “capacità genitoriale”? Addirittura nel  provvedimento  si accenna “al contesto familiare coeso” - quindi basato sull’interazione virtuosa   tra   i suoi membri, Annamaria  Franzoni inclusa -   quale “elemento di sostegno nel percorso di risocializzazione” della  donna...
Insomma,  sembra che qui sia  in  gioco  il valore del concetto rieducativo della pena:  quel  dare scontato per principio, tipico del diritto moderno, che l’individuo sia sempre recuperabile, anche contro la sua stessa volontà. O comunque fino a prova contraria. 
Del resto, attualmente,  il  gigantesco sistema dei delitti e delle pene   è  gestito da una macchina organizzativa (giudici, poliziotti, carcerieri, periti, assistenti sociali)  che per funzionare  ha bisogno, per così dire,  di certezze amministrative.  Guai perciò  a chiunque  metta  in discussione  i massimi sistemi. Il Moloch burocratico è  fatto così:  non pensa,  applica ed  esegue.  Si chiama  “banalità del bene”  o del  male, dipende dalla situazione e dall’animus degli esecutori di turno.
Forse  i giudici potrebbero fare qualcosa…   E invece tacciono:  per varie ragioni che non stiamo qui ad analizzare,  i magistrati,  in larghissima parte,   si sono trasformati in educatori mainstream, proni ai pareri degli esperti…
E così basta che un perito, sulla base di protocolli pseudo-scientifici (sono  inesatte le scienze esatte, figurarsi le scienze sociali…),  dichiari l’impossibilità della “recidiva”  e il gioco è fatto:  tana libera ( o quasi)  per  Annamaria Franzoni.  


Carlo Gambescia                   

giovedì 26 giugno 2014

Il libro della settimana: Francesco Paolo de Ceglia (a cura di), Storia della definizione di morte, Franco Angeli, Milano 2014, pp. 686, Euro 55,00. 


https://www.francoangeli.it/Ricerca/Scheda_libro.aspx?ID=21799&Tipo=Libro&titolo=Storia+della+definizione+di+morte++



A prima vista,  titolo e  argomento, Storia della definizione di morte (Franco Angeli)  non sembrano  adatti   a un’amena lettura estiva, magari  in spiaggia…  Può essere.  Tuttavia,  siamo davanti a un libro che parlando della morte, parla dell’uomo tout court e  dei cambiamenti culturali, storici e medici che hanno  innervato l'atteggiamento umano davanti alla parola fine. Insomma,  Francesco Paolo de Ceglia, docente di storia della Scienza presso l’Università di Bari Aldo Moro, ha curato un lavoro straordinario,  che si muove,  allargandole,  lungo le strade tracciate in argomento da Ariés, Vovelle Defanti.  Ma lasciamo la parola al curatore: « Rispetto a tali precedenti, che questo volume non ha la velleità di emulare, si desidera da una parte, restringere il campo d’indagine alla sola definizione  di morte e alla tecniche di accertamento della stessa, pur non trascurando  di dar conto di tutta la cultura di cui esse furono e sono intrise - come già fatto da Defanti -  dall’altra di ampliare i tempi e gli spazi considerati. Benché infatti non poco sia stato scritto sulle civiltà antiche  (…) difficilmente tali materiali sono adatti a confluire  nelle più ampie trattazioni sull’ argomento che - come nel caso di Ariès e Vovelle -  partono in genere dal  medioevo» (p. 16).
Siamo perciò davanti a  una vera e propria storia universale  (o «transculturale», come giustamente preferisce definirla  il curatore).  Opera imponente.  L'apparato bibliografico è maestoso. Non meno significativa l'iconografia,  essenziale e ben scelta.
Il libro  è diviso in cinque parti. Nella prima è affrontata la morte nelle civiltà antiche (mesopotamica, egizia, indiana, cinese, greco e romana, bizantina e slava, pp. 21-140). Nella seconda si analizzano significati e pratiche  della  morte nella cultura medievale e moderna, dal cristianesimo al XIX secolo (pp. 143-328).  Nella terza  si indaga a fondo il  dibattito contemporaneo intorno al concetto di morte, pp. 331-524). Nella quarta ci si occupa del «tripode vitale» (polmoni, cuore, cervello),  dal punto di vista accertativo (della morte),  con   attenzione alle trasformazioni storiche e concettuali del ruolo funzionale di questi organi rispetto al trapasso (pp. 527-579). Nella quinta e ultima parte si studia «il morire nell’immaginario contemporaneo» (pp. 583-654): letteratura giovanile, cinema, serial  medici televisivi. Il capitolo  si chiude  con un interessante excursus sul caso Englaro.
Prendendo  spunto proprio dalla questione  della   morte «tecnologizzata»,  si può dire che se c’è un filo conduttore nel libro, o meglio nel comportamento umano nei riguardi della morte,  esso  è rappresentato dalla progressiva medicalizzazione dell'ultimo respiro.  Si dirà, nulla di nuovo… In realtà, non si tratta tanto della solita critica antimoderna,  quanto  di prendere atto - ancora una volta -   del  processo di disincantamento anche dell'idea di  morte. E di conseguenza delle pratiche sociali collegate. Cosicché si potrebbe addirittura parlare di  banalizzazione della morte umana, ormai  quasi ridotta  a  questione protocollare.  Detto in altri termini,  non si muore individualmente fin quando la morte non è accertata burocraticamente: un atto, una dichiarazione, un pezzo di carta,  quanto  di più banale…  E in un senso preciso:  con  un semplice tratto di penna su una casella  si  può   registrare   la vita o la morte di una persona:  è bene? è male? non importa, oggi si fa così. Questo, il comune sentire. 
Sotto tale aspetto - interno alla modernità  razionalizzante -   vanno segnalate due tendenze storiche. Mentre nell’ Ottocento si temeva  la morte apparente (su questo si veda  il notevole saggio, forse il più bello del libro, di  Francesco Paolo de Ceglia, pp. 303-328), e perciò  si cercava di evitare che i soggetti fossero dichiarati morti,  oggi accade l’esatto contrario:  i medici, soprattutto dell’intensiva, si propongono di evitare che il paziente morto  possa essere considerato  vivente  e perciò conseguentemente trattato.
Il che riguarda la logica sociale del distacco del mondo: dispositivo che adesso necessita - burocraticamente -  di certezze,  per varie e supposte ragioni: riutilizzazione degli organi, costi medici crescenti, predominio (e rispetto) delle regole di accesso alla sicurezza sociale. Insomma,  questioni organizzative...   Mentre  nell’Ottocento, lo Stato era ancora minimo, l’individuo  più  libero e meno “assistito”,  le burocrazie meno invadenti:  il singolo, prevaleva ancora  sull'organizzazione e, per dirla tutta,  la secolarizzazione  era  ancora di là da venire. 
Ecco, forse,  una storia che  meriterebbe di essere scritta, o comunque approfondita dal punto di vista dell’interazione  tra istituzioni e  individuo:  quella del rapporto tra burocrazia moderna, o  meglio ancora “stato sociale”  e  definizione ( e pratiche)  di  morte.  Avanziamo un’idea di titolo, usando  l' inglese maccheronico:   Dal Welfare State al Deathfare State

Carlo Gambescia   
            
   

martedì 24 giugno 2014

Gli adoratori del sole di  Stonehenge
Ritorno del paganesimo?
No, persistenza del  "fattore" religioso





Prima la notizia:

Stonehenge: in migliaia per il solstizio d'estate

Almeno 36mila persone hanno partecipato alle consuete celebrazioni del
Solstizio d'estate presso il sito preistorico di Stonehenge, tra i misteriosi megaliti che si trovano nel sud dell'Inghilterra. Insieme agli aspiranti druidi e adoratori del sole erano presenti anche famiglie e scolaresche, che hanno aspettato il sorgere del sole sul giorno più lungo. Tutto si è svolto pacificamente a parte 25 arresti quasi tutti per possesso di stupefacenti



Che dire?  Ritorno del paganesimo? No.  Si tratta di un   fenomeno  collettivo  che consiste nel raduno  di  alcune decine di migliaia di persone (il cui numero sull’onda del rinnovato interesse verso la natura  è aumentato negli  trent’anni)  tese a celebrare,  semplificando,  un entità divina solare.
Il vecchio Spencer, parlerebbe di sopravvivenze, Mircea Eliade di  meccanismi antropologici e simbolici ricorrenti, Jung più esplicitamente di manifesta  influenza  archetipica.  Ci siamo  limitati a   tre sole spiegazioni.
E sul piano sociologico?  L’uomo, da sempre, vuole sentirsi parte di qualcosa. Insomma, non è un’isola. In questo senso,  il sole rinvia alla vita, e quest’ultima alla natura come involucro inglobante.  Quel che  sarebbe  interessante capire è il grado  di coinvolgimento collettivo tra i partecipanti. Per essere più chiari: si va da soli a Stonehenge, magari con la famiglia o la fidanzata, oppure come membri di organizzazioni “religiose”?   Nel caso di prevalenza dei primi, saremmo davanti,  a una religiosità personale, priva di risvolti politici (nel senso del conflitto amico-nemico, anche solo ideologico), nel secondo caso, invece, sarebbe vero l’esatto contrario.
Inoltre andrebbero distinte, sia sul piano collettivo che individuale, le varie forme della  religiosità espresse dai “fedeli”, le cosiddette motivazioni: estetica, emozionale, intellettuale, carismatica (solo per indicarne alcune). E, soprattutto  i tempi di durata  e mobilità delle “conversioni” (gli eventuali passaggi  precedenti da una   “religione” all’altra).
Insomma, come si può notare, siamo davanti a  quadro complesso.  Nel quale  però c’è un  elemento comune a ogni credo religioso: quello del legame (individuale e collettivo)  con un’entità  diversa dall’uomo (diversità i cui gradi variano secondo le  religione). Potremmo definirla “fame di  sacro”, alle cui origini,  alcuni studiosi,    pongono  la “fame di trascendenza”, distinguendo,  in chiave gerarchica (e qualitativa) il sacro, quale epifenomeno,  dal  trascendente.  
Perciò, per tornare alla domanda iniziale: ritorno del paganesimo? No, persistenza, nonostante i processi di secolarizzazione,  del “fattore”  (o "residuo" per dirla con Pareto) religioso: quell'insopprimibile legame (variamente articolato) tra l' uomo e l'assolutamente diverso. Come in ogni religione. 
Di sicuro la nostra risposta scontenterà i fondamentalisti delle varie fazioni: i sostenitori della  "vera" religione.  Ma la sociologia  - non ci stancheremo mai di ripeterlo -   non va  mescolata con la teologia, cristiana o pagana che sia...    

Carlo Gambescia                           

lunedì 23 giugno 2014

Le Otto proposte di Prodi per il rilancio dell’industria
Roba da ridere (per non piangere)





Un consiglio:  cari amici lettori  leggete  subito le Otto proposte ( o "mosse") di Prodi per il rilancio dell’industria (*). Certo, ci si rovina la colazione...  Ma ne vale la pena,  perché rappresentano la riprova del semianalfabetismo economico  del ex Premier,  ben  innaffiato, come prevedibile,  da ovvietà dirigiste nel peggiore  stile  sinistra democristiana.  Roba da ridere (per non piangere) Vediamole  da vicino.
Primo punto. Se le imprese non ricevono  denari  dalle banche, la colpa è delle imprese  che - scoperta dell' acqua calda-  devono  imparare ad autofinanziarsi…  E come?  Se la pressione fiscale è a livelli proibitivi? 
Secondo punto: vanno incentivate le fusioni e  concentrazioni. Le piccole imprese devono sparire. Perfetto. Come uccidere il modello economico italiano.
Terzo punto. Servono più fondazioni, per favorire la discontinuità dell’imprese italiane, di tipo “famigliare”,  e  aprire  a nuovi apporti esterni. Certo, per come sono andate male  le Fondazioni è  proprio il caso di insistere…  
Quarto punto. Bisogna aiutare gli imprenditori falliti a tornare in campo. E chi paga? Lo Stato, of course…   Ergo nuove  tasse…
Quinto punto.  Per incrementare  gli investimenti esteri in Italia, oltre alle  solite  semplici-semplici-semplici cose  da fare ( più flessibilità, meno burocrazia, più sicurezza),  vanno subito  costruite  buone scuole per i  figli dei collaboratori esteri…  Si commenta da sé…
Sesto punto. Bisogna scegliere tra meccanica strumentale ed elettronica di consumo.   E chi decide? Il mercato? Non sia mai... Decide lo Stato,  come accadeva nei paesi del socialismo reale...
Settimo punto. Nuova politica energetica.  Anche qui, chi decide?  Lo Stato, ovviamente…  Ergo nuove  tasse…
Ottavo punto.   Vanno  subito create reti  di ricerca alla tedesca (Fraunhofer)   destinate a risolvere i problemi di innovazione della imprese…  Così come per incanto…  E chi paga?   Lo Stato, naturalmente… Ergo nuove  tasse…
Insomma, Stato-Imprenditore, Stato-Imprenditore, Stato-Imprenditore, Stato-Imprenditore…  Quindi tasse-tasse-tasse-tasse...  Prodi è una specie di disco rotto (statalista).   
Esistono due tipi  di cretinismo economico.  Quello di chi non conosce  l’economia  e parla a vanvera. E quello di chi conosce una sola teoria e  pretende di sapere tutto… Quest’ultimo è il caso di Prodi, un semianalfabeta.  Dell'ovvio democristiano, con "scappellamento" a sinistra...

Carlo Gambescia   

(*)

martedì 17 giugno 2014

La rovinosa crisi della  destra post-missina
Triste, solitario y final

La designazione di Italo Bocchino alla direzione  del   “Secolo d’Italia” è  la riprova della cieca autoreferenzialità della classe dirigente post-missina, prima passata rapidamente  armi e bagagli all’ “odiata democrazia” con la  “svolta” di Fiuggi,  dopo  confluita a passo di carica  nel Pdl,   poi  clamorosamente  divisasi  e, ora, come sembra, sul punto di tentare nuove faticose convergenze. Dal momento che la  Fondazione Alleanza Nazionale che ha “promosso” Bocchino raccoglie, come per i  famosi ladri di Pisa,  le varie opzioni (perché parlare di tendenze ideologiche sarebbe troppo) dei litigiosi (ma non troppo se in ballo c'è la spartizione del bottino)  post-missini “venduti  al plutocrate”, come recita la retorica dei duri e puri.  Ovviamente,  all’esterno di questo bollito misto e rissoso  restano,  pur con andamento oscillante in base alle convenienze elettorali,  alcuni micropartititi caratterizzati in senso neofascista (del fascismo-stato), oltre i quali  si situa il pittoresco mondo delle frange movimentiste, esagitati che si richiamano esplicitamente al fascismo-movimento. 
Tutte queste sparse e  litigiose  forze politiche (semplificando, dagli ex missini di  Forza Italia ai fascisti del Terzo Millennio di CasaPound e oltre)  sono  ben  lontane dall'avanzare qualsiasi seria istanza politica e programmatica, ad esempio a proposito di vigorosi tagli alle tasse e di decise  limitazioni  all'invadenza dello  Stato-Provvidenza.  Purtroppo, siamo davanti a  un paesaggio con rovine, dove alcuni  si dedicano a  risibili alchimie  per salvare se stessi,  altri strepitano  invocando improbabile  rivoluzioni nazionali.
Che conclusione trarne?  Che, al netto della grettezza degli uni e dell’ingenuo rivoluzionarismo degli altri, il processo di democratizzazione  della destra post-missina  si è concluso con  un nulla fatto.  Si è trattato  di  un viaggio di sola andata...   Se a ciò  si aggiunge la disastrosa  crisi  in cui  versa  Forza Italia, si può dire  che in Italia anche la destra democratica, liberale, conservatrice, non ha più  alcuna  rappresentanza.  Gli elettori  sono da tempo  in libera uscita.  E si vede.

Carlo Gambescia           

lunedì 16 giugno 2014



Cara Bimba Liquerizia,
ti dirò, mi spiace quando, trovandomi in chiesa, il prete mi guarda dall’alto in basso e punta contro di me il suo indice accusatore per farmi capire che rappresento in quel caso il peccato. Non è quello che cerco dalla Chiesa, non intravedo, in questo atteggiamento, la Parola di Dio.
Franceschiella Pascalina

Cara Franceschiella,
in foto vicino a Dudù risulti praticamente una nana, per forza che il prete ti guarda dall’alto in basso. Un consiglio: quando vai in chiesa, metti sempre scarpe con la zeppa e tacco 15.
*** 
Cara Bimba Liquerizia,
mi sono innamorata di Massimo Cacciari, lo trovo un figo pazzesco. Tu che ne pensi? C’è speranza?
Angela Superflua

Cara Angela,
il tuo Cacciari dice che l’uomo non ha speranza, ma della donna non parla. Poi, guarda:  uno che a settant’anni si tinge i capelli, se hai un bel telaio e sei un po’ furbina te lo rigiri come vuoi. Insomma: spera pure e stai serena.
*** 
Cara Bimba Liquerizia,
come stai, ciccina? Io come al solito, un po’ di acciacchi ma insomma me la cavo. Novità: da un po’ qui alla Casa di Riposo c’è un volontario nuovo, sembra che sia famoso ma non ho capito chi è, forse un ex calciatore, gli chiedono sempre del Milan. Mah. Che sagoma! Racconta barzellette, suona il piano, regala orologi…sorride sempre, ma Dio com’è triste, triste, triste…mi fa una pena, poveretto…solo come un cane, anzi: solo CON un cane, un cagnetto petulante che ficca il muso dappertutto, abbaia sempre, perde il pelo, dà fastidio…si vede che non ha nessuno, né famiglia né niente. Stai attenta, Liquerizia, adesso sei giovane e non ci pensi, ma vedi come va a finire uno che non si sposa? A proposito, lo vedi ancora Arturo? Non è un uomo brillante, questo è vero, ma è tanto un bravo ragazzo, con u n posto sicuro…pensaci, bimba! Un bacione dalla
Nonna

Cara Nonna,
sono contenta che stai bene, però se mi tiri fuori un’altra volta la storia di Arturo non ti porto più gli spinelli.
P.S. Il volontario col cane credo di avere capito chi è, è uno che la moglie ha divorziato, lo ha spellato vivo e adesso gli ridono tutti dietro. Bello il tuo matrimonio, eh nonna? 


sabato 14 giugno 2014




















Nel bosco in agguato
Di Hans Carossa

Nel bosco in agguato, alla riva
Era il sole, di primo mattino.
Salpammo: e balzò dentro il fiume,
scortando in fulgenti barbagli,
da un argine all’altro, la barca.
                   (trad. di Vincenzo Errante)

venerdì 13 giugno 2014

Il dossier di “Nuova Storia  Contemporanea” sul  leader comunista.
Chi era Togliatti?


Chiamale se vuoi illusioni, ma  i  cinquant’anni dalla morte di Togliatti ( il 21 agosto  1964),  potrebbero essere l' occasione, sul piano celebrativo, per  rilanciare  - ovviamente,  non pensiamo a Renzi, già “vaccinato” -   la figura del “Migliore”. E  proprio   ad uso e  consumo di una variegata area politica minoritaria, composta di  alcuni "piddini" sempre scontenti,  vecchi stalinisti, neo e post comunisti, ecologisti più rossi che verdi, anticapitalisti e antimericani ( magari con  propaggini nostalgiche -  mai dire mai -  nello stralunato  radicalismo di destra).
Per prepararsi  bene  ai possibili fuochi di artificio mediatici, fuochi stanchi ma pur sempre fuochi, consigliamo vivamente  la   lettura  dell’ultimo fascicolo di “Nuova Storia Contemporanea” (Anno  XVIII, n. 2, marzo-aprile 2014, pp. 168, Euro  12,00),  dedicato completamente  a Togliatti.
Scrive lo storico Francesco Perfetti, direttore della rivista: «  A distanza di mezzo secolo  dalla scomparsa di Togliatti  è opportuno  riconsiderarne la figura e l’attività , pur senza nulla togliere  alla sua abilità di uomo politico  spregiudicato e intelligente ma anche profondamente cinico, per metterne in luce quegli elementi troppo spesso celati dalla visione agiografica  della sua personalità, a cominciare dalla  sua fiducia nello stalinismo, e per sfatare la leggenda di una rappresentazione unitaria  della storia del Pci , come di un partito la cui vocazione sarebbe stata essenzialmente “nazionale”: una leggenda  questa, costruita sulla negazione della verità e portata avanti proprio da Togliatti  con l’uso strumentale  degli scritti di Antonio Gramsci, da lui stesso pubblicati in maniera destrutturata e mutilata  per renderli  funzionali ai suoi progetti politici e per avallare l’idea, nascondendo i contrasti  con l’autore dei Quaderni dal carcere, della continuità Gramsci-Togliatti» (p. 8).
Veniamo ai singoli interventi.
Massimo Caprara,  che conobbe Togliatti molto da vicino,  ne offre un ritratto, degno dei personaggi storici del Principe di  Machiavelli, senza perciò  rifiutargli l’onore delle armi. Sulfurea, tuttavia,  quasi in senso letterale, la sua chiusa: « In una biografia  fra le più recenti Togliatti viene definito “uomo di frontiera “ avendo trasformato  milioni di “ribelli” in “cittadini” e avendo ipotizzato una forma  avanzata di regime parlamentare. Prendo in considerazione  questa definizione ribadendo  che lunghe e sostanziali furono  le sue incursioni nei territori  della disumanità. Credo che a Togliatti  non si possa togliere il posto in un qualche girone dell’ Inferno dantesco, dove peraltro non possono trovarsi gli inetti e gli insipidi»
Piero Ostellino si sofferma sul rapporto con lo stalinismo, riconducendo l’atteggiamento togliattiano di acquiescenza a una sorta di patto hobbesiano, dove in cambio dell’ obbedienza Togliatti, riceveva  da Stalin protezione.  Puri e semplici vincoli di una  politica naturale della sopravvivenza. Altro che grandi ideali.
Luciano Pellicani, con la perspicacia  che gli è propria  smonta l'idea del «partito nuovo di Togliatti », partito  leninista e di massa al tempo stesso, e perciò incapace, anche se attento alle riforme sociali, di  convertirsi in socialdemocratico, dal momento che le riforme non potevano essere considerate  un fine, ma soltanto  un  mezzo per  agguantare il potere e imporre la mitica  dittatura del proletariato.
Antonio Ciarrapico mostra invece, quanto  fosse arcaica e illiberale  l’idea togliattiana  di democrazia,  dal leader  accettata strumentalmente in attesa di introdurre la democrazia sostanziale di marca sovietica: una specie di Eldorado da  opporre alla democrazia rappresentativa, borghese e decadente dell’Occidente. 
Alberto Indelicato,  oltre a ricostruire, la doppiezza, sempre  pro-Unione Sovietica del leader del Pci, ne evidenzia  il «forsennato antiamericanismo», che in alcuni  momenti  -  certo, con gli occhi di oggi -  sfiora addirittura il tragicomico, come nel caso  del presunto  diritto, difeso da Togliatti,  dell’esercito sovietico «di inseguire» in territorio italiano l’aggressore americano.
Sul 1956 si sofferma  Giuseppe Bedeschi, con pagine di grande intensità critica, e crediamo -  almeno a nostro impressionistico giudizio - di sincera partecipazione  (non comprensione o giustificazione, ovviamente)  verso  un Togliatti, malinconicamente  tetragono a qualsiasi critica non solo dello stalinismo ma della stessa  società sovietica.  Una tragedia culturale che  ha impedito la nascita di una sinistra riformista.
Luigi Nieddu si occupa del nodo Togliatti-Gramsci: uomini caratterialmente e culturalmente  diversi  e simili solo nell’intransigenza ideologica. Quindi un matrimonio di convenienza, culminato nella separazione in casa (si fa per dire…), quando Gramsci incomincia a  prendere  le distanze dal modello stalinista. Di qui, la freddezza di Togliatti e l’uso disinvolto, copia-e-incolla,  del lascito gramsciano.
Sergio Bertelli, indaga “gli amori impossibili” di Togliatti,  provando come per il Migliore, le donne,  anche se con qualche fugace  momento di abbandono sentimentale,  fossero subordinate alla causa comunista, nonché alla sua salvezza personale dai lunghi artigli di Stalin. Una vita sentimentale, insomma,  che somiglia a un deserto, con qui e là  qualche piccolo  e grazioso  fiore di cactus.
Pietro Neglie affronta l’ossessione togliattiana per la cultura, quale  strumento  di  coesione, legittimazione, ed egemonia politica e ideologica.  Diciamo che se Gramsci  guardava alla formazione dell’uomo nuovo, Togliatti si accontentava del militante alfabetizzato allo stalinismo, disciplinato e per nulla interessato agli arcana di partito.
Natalia  Terekhova,  illustra lo scarso interesse della cultura storica  russa, con qualche  prevedibile puntata nell’agiografia della storiografia sovietica, nel riguardi di Togliatti. Lapidarie le sue conclusioni: « Secondo un sondaggio svolto  tra gli storici italianisti  l’attività politica durante l’ultimo ventennio della sua vita  non interessa più a nessuno e se una città russa  non portasse ancora oggi  il nome di Palmiro Togliatti, il leader storico dei comunisti italiani, uno dei massimi esponenti del movimento operaio  internazionale, un grande amico di questo Paese, potrebbe essere considerato davvero dimenticato » (p. 132).
Il fascicolo si  chiude con un’autentica chicca: la pubblicazione  del    rapporto inedito di Andrea Caffi (1887-1955), sulle  Vittime del terrore bolscevico(1918-1923), Il documento riprodotto in appendice è preceduto  da un denso saggio di Agnese Accattoli in cui  è ben  tratteggiata  l’intrigante  figura di un socialista libertario, molto più realista e smaliziato di un John Reed,  alla prese con primi micidiali colpi di maglio del comunismo sovietico.
Insomma, un bel  fascicolo, da non perdere.  Tra l'altro corredato, sul piano illustrativo, da gustosissime vignette d'epoca. Quindi un'occasione anche per sorridere. E, cosa più importante,  per non dimenticare che cosa è stato il comunismo, anche quello italiano, brand Togliatti.


  Carlo Gambescia                                   

giovedì 12 giugno 2014

Massimo Teodori con Massimo Bordin Complotto! come i politici ci ingannano Marsilio Editori, Venezia 2014 pp. 222, € 14,50   (recensione a cura di Teodro Klitsche de la Grange)

http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3171828/complotto


Scrive l’autore (Teodori) in apertura del libro “Il complottismo è una malattia che corrompe la politica italiana rendendola ancora più inaffidabile di come già gli italiani la considerano. Il virus ha talmente inquinato la vita pubblica che nessuno crede più a quel che vede, e molti davvero pensano che siano governati da forze occulte e imponderabili … in Italia è talmente diffuso che non si contano più i personaggi più o meno eccellenti che, per trarsi d’impaccio, tirano in ballo una qualche macchinazione ai loro danni. 'Complottismo' significa l’invenzione di complotti immaginari al fine di mascherare la realtà, occultare le responsabilità personali e ostacolare il cambiamento … Nel dopoguerra, in Italia , il complottismo  non è stato solo un vizio intellettuale. Ha fatto da grimaldello per orientare il discorso pubblico, forzare le decisioni politiche e distorcere la storia. Qui, …. si narrano i principali capitoli di una controstoria anticomplottistica della Repubblica: i politici di destra, di centro e di sinistra che agitano il fantasma del complottiamo per dissimulare le loro incapacità”. Sarebbe il caso di commentare (come De Gaulle): vasto programma. In effetti un discorso sui complotti, che la stampa – e la televisione -    offrono in gran numero, richiederebbe un’opera in almeno tre tomi. Bisogna ringraziare gli autori per averne offerto un’antologia, raccolta in un pamphlet.
E averne individuato la ragione perché molti complotti non sono tali ed altri sono stati gonfiati fino a dimensioni politico-istituzionali, quando erano materia di sottobosco affaristico (con appendici non di governo, ma di sotto-governo). Del quale l’affare P2 è stato caso esemplare. Licio Gelli, sostiene Teodori è “Il più noto mascalzone della Repubblica, magistrale gestore di ricatti nei confronti dei potenti d’ogni specie, è stato scambiato per un ideologo del cambiamento costituzionale e per un golpista seriale”. Perché occorreva associare un’idea (come la Repubblica presidenziale, sgradita alla classe politica – e non solo) a un mascalzone, anche per respingere o allontanare quella perché “progettata” da questo. Non occorre un professore di storia degli Stati Uniti come Teodori per sapere che gli USA sono una repubblica presidenziale e che tale forma di governo è da associare a Jefferson, Hamilton o Madison (o per la Francia a De Gaulle), assai più che alla P2. Non foss’altro perché i padri fondatori la fecero, e così bene, che “regge” ancora a oltre due secoli di distanza. Così come, in Italia, tra i presidenzialisti troviamo figure intemerate e antifascisti come Pacciardi e Calamadrei.
Per cui quell’associazione, spesso ripetuta, è solo uno degli espedienti dei conservatori “a prescindere” per eternizzare un assetto costituzionale legato (e determinato) dagli accordi di Yalta e quindi irrimediabilmente datato. Del “complotto” piduista si è fatto l’uso a beneficio di una classe dirigente in fase discendente.
Altri complotti appaiono tali ad una visione ingenua della realtà. Questo è un connotato comune di tutti quelli (e non sono pochi) in cui sarebbero implicati gli Stati Uniti. Ma oggetto di stupore sarebbe semmai che non vi fossero, non che vi siano stati (anche se sul come c’è da intendersi).
Gli USA e la Gran Bretagna hanno vinto la seconda guerra mondiale (insieme all’Unione Sovietica) e (da soli) occupato militarmente l’Italia.
Attraverso la NATO gli USA hanno dato protezione militare all’Italia  ed all’Europa occidentale per circa quarant’anni. Che questi “titoli” (e obblighi) non comportino “invasioni di campo “ nella sfera politica interna, e in particolare in quella di difesa, è ingenuo pensarlo. E’ sempre stato così. Hobbes scriveva nelle ultime pagine del Leviathan che il protego ergo obligo  è una costante della politica. Caso mai è da chiedersi se, a settant’anni quasi da quella sconfitta ed occupazione militare non sia il caso di allentare certi legami. Invece lo strillare al complotto è spesso stato la copertura di politiche troppo condiscendenti. Un gran rumore per nulla.
Anche se la maggior parte dei “complotti” è stato usato a fini di conservazione al potere delle élite politiche, almeno una parte di essi corrispondeva tuttavia a fatti reali. Anzi i complotti meglio costruiti sui media sono quelli sorretti  da un fondo di verità (magari distorta o strumentalizzata). L’inganno, la fede, l’astuzia sono uno dei (due) mezzi tipici della politica. E che debbano essere fatti di nascosto – tra i molti – lo rilevava Naudé: non secreta manent, quorum fit conscia turba. Tuttavia spesso s’apprendono a scuola verità considerate inoppugnabili e manifeste, che vengono contraddette – almeno parzialmente – dai fatti occultati.
Come la rivolta dei Vespri siciliani, raccontata come dovuta alla licenziosità di un francese e alla gelosia dei siciliani, mentre era stata accuratamente fomentata da Giovanni da Procida, finanziata dall’oro di Bisanzio e appoggiata militarmente dal re d’Aragona, consorte dell’ultima Altavilla, come racconta Gibbon.
Del pari, anche se sottovalutato dagli autori, appare difficile non attribuire a un’azione occulta, o meglio occultata, la recente caduta dell’ultimo governo Berlusconi, comunque propiziata da fattori interni politici (la riduzione del margine di maggioranza parlamentare in primo luogo) e istituzionali (la ben nota gracilità del potere governativo). Lo prova non solo il coro sospetto di peana nei mass-media al professor Monti, che avrebbe salvato l’Italia perché … portava il loden; ma lo conferma la politica del governo Monti, non solo al di sotto delle aspettative, anche di quelle non “montate” ad arte, ma connotata d’acquiescenza ai voleri della finanza interna ed internazionale. La quale, tuttavia, trovava simili condiscendenze anche in altri Stati europei.
Nel complesso un libro che mostra come facilmente gli arcana si convertono in idola tribus, e come, in certi casi, le spiegazioni dei fatti sono quelle meno occulte e non le dietrologiche .
Teodoro Klitsche de la Grange


mercoledì 11 giugno 2014

Il David  di Donatello 2014 a Sorrentino e Virzì
Continuiamo a farci del  male



Continuiamo a farci   del male.  Quando maturerà  la nostra cultura economica?  Quando cresceremo? Per parafrasare (al contrario) Marx, appena  scoppia una crisi subito ritorna subito a galla tutta la  m...  anticapitalista…  Come se alcuni secoli di progresso sociale   dovessero essere immediatamente rispediti al  mittente:  Engineer  James Watt  &   Professor  Adam Smith  -  United Kingdom.
Per quale ragione, questa mattina,  siamo così  arrabbiati?   Perché  - cosa del resto scontata -   Paolo Sorrentino (“La Grande Bellezza”) e Paolo Virzì (“Il capitale umano”), si sono  divisi la  miglior regia e il  miglior film dei David di Donatello 2014.   Insomma,   quel che  irrita   è   l'effetto galleggiamento medagliato...
Al tempo: sul capitalismo ognuno può pensarla come vuole, ci mancherebbe altro.  Per una versione, ragionata, divertente e tutto sommato prudente,   si veda il film di Scorsese e DiCaprio (che non ha vinto nessun premio negli States, dove, come è noto,  la  Hollywood al caviale non ama Wall Street, figurarsi le “volpi”: e infatti  Sorrentino ha vinto l’Oscar). 
Ciò che invece   sconcerta   è  l'anticapitalismo organizzato,  militante ma  in abito da sera:  il fatto  che  una giuria  - sovietica come  direbbero, esagerando  Feltri e Belpietro -   onori, solo per simbiosi ideologica, due film rozzi  e schematici, dove i buoni sono sempre  poveri e sfortunati  e i ricchi prepotenti  e cafoni. Semplificando:  appena ci si siede, già si intuisce chi  sia il colpevole.   
In qualche misura, senza tirar  fuori il realismo socialista o  il neorealismo d’antan,  si tratta  del   “modello”  Charlie  Chaplin,  senza però  la grazia e  la poesia  di un regista-attore eccezionale.   E'  come se  Virzì  e Sorrentino, da bambini  scapestrati,  avessero marinato la scuola il  giorno della lezione del maestro  Chaplin, per andare in giro  per campi  a  torturare  rospi e  gatti randagi  insieme ai fratelli Vanzina, amici del cuore ma zotici.  Dopo di che, i Vanzina si sono fermati  alle medie,  mentre Sorrentino e Virzì  hanno strappato la la maturità.   E si vede.        
Carlo Gambescia




martedì 10 giugno 2014

La vittoria di Livorno
Conferma: 
Il MoVimento Cinque Stelle è di sinistra

Grillo Cinque stelle


“Livorno. Espugnata la Roccaforte rossa”. Così i  media definiscono la vittoria del  MoVimento 5 Stelle. Voto di sinistra? Voto di destra? Voto di centro?  Quel  quasi  quattordici per cento  in più di voti rispetto al primo turno,  potrebbe essere giunto da  una sinistra  divisa  e prigioniera di  faide interne. Quindi, se il Pd fosse stato  unito,  avrebbe vinto.  Idem a Civitavecchia.
Tutto ciò aumenta i nostri sospetti su una questione molto importante. Quale?   Che  il  M5S   sia  un movimento dall'impronta chiaramente  di sinistra. E, questo, al di là del fatto che  i flussi di voto, a cominciare dalle politiche, indichino che un terzo dei consensi pentastellati proviene dal  centrodestra,    Certo si tratta di  una forza politica  fortemente  venata di  populismo, ma di sinistra. Infatti, è verissimo che   siamo davanti a un movimento politico nemico della "casta",  diffidente verso il  mercato e la Chiesa,  sensibile ai  richiami dell’idea cospirativa e di una  ingenua forma di democrazia diretta . Ma che,  indubbiamente,  resta ancorato, - ecco il punto-  all'idea dello stato-che-vede-e-provvede (di sicuro gli idealisti sosterranno che essere di sinistra è altra cosa, eccetera, eccetera...).
Ovviamente, Grillo e dirigenti politici,  pur di catturare voti  e raggiungere il famigerato 51 per cento, si definiscono al di là della destra e della sinistra. Non dimentichiamo che in Italia esiste anche un forte populismo di estrema destra, per il quale votano elettori che senza porsi tanti problemi  parlano, anche pubblicamente,  di voler  mettere al muro questo o quel  membro della "casta". E quindi sono elettori potenzialmente in sintonia con l'inquietante populismo, di cui  Beppe Grillo si fa, spesso ferocemente,  messaggero e inteprete.  
Esiste però un dato ideologico-programmatico legato a un fattore di mentalità  che, in qualche modo va oltre le posizioni personali degli stessi fondatori del movimento. Un specie di credo - di fatto valoriale -  che abbraccia dirigenti,  attivisti, votanti  e che  conferma le patenti di sinistra del M5S:  lo statalismo. Si pensi alla recente posizione di Fico sulla Rai,  all’idea, per quanto confusa, di istituire un reddito di cittadinanza, al sostegno, a prescindere, che  viene dato al lavoro rispetto al capitale, all’attribuzione della crisi  fiscale dello stato  alla corruzione, ai privilegi, all’evasione e non al micidiale mix pressione fiscale/spesa pubblica, scaturito e sviluppatosi  nel tempo  dall’ ingombrante e diseducativa (per  imprese cittadini)  presenza dello stato in quasi tutti gli  ambiti societari.     
Sintetizzando: per i pentastallati, lo stato non è il problema ma la soluzione. Tipica idea costruttivista di sinistra. Che, ovviamente qui in Italia, esercita il suo vischioso  fascino, oltre  che sull’elettore post comunista, su quello cattolico (di sinistra)  e  di destra (sociale). 
Il che significa che una volta potere, il MoVimento  5 Stelle tasserebbe,  complice  anche  la fissa pentastallata per l’ecologia, addirittura  l’aria che purtroppo non possiamo non respirare.    

Carlo  Gambescia
                      

lunedì 9 giugno 2014

Gay Pride
Ignazio Marino è liberale?



Il sindaco di Roma,  Ignazio Marino, che sfila  al Gay Pride  è  un  liberale?  Il quesito può sembrare  ozioso, perché liberali,  riformisti, post-comunisti, cattolici di sinistra, secondo alcuni, sarebbero tutti membri della stessa famiglia politica progressista.  Ergo,  anche un  "piddino" per caso come Marino... 
In realtà non è così. Perché si è dimenticato che  essere insieme,  liberali e uomini delle istituzioni,  significa  essere  al di sopra delle parti.  Un sindaco, un primo ministro, un capo di stato,  non dovrebbero mai schierarsi. Per semplificare,  né con i gay né con gli antigay…  Ma lasciare che tutti manifestino  pubblicamente  le  idee,  per poi votare, altrettanto liberamente,   per il  partito  più in sintonia  con la causa in cui si crede.
Il liberalismo è  innanzitutto senso della neutralità  delle istituzioni e non identificazione di un credo politico con le  istituzioni. Fenomeno quest'ultimo  detto anche  "occupazione dello stato"…    
Si dirà, la "battaglia per il matrimonio gay"  riguarda i  diritti civili e  l’ eguaglianza dinanzi alla legge. E sia. Ma con un'importante precisazione:  l’idea del diritto “motorizzato” calato dall’alto e "somministrato" a scopo "rettificativo"  non  è liberale, ma repubblicana. E, da sempre,  affascina  i costruttivisti sociali,  ossia coloro che vedono nello stato ( e nelle istituzioni pubbliche)  un dio mortale, molto più potente di quello immortale. Qualcuno li chiama  giacobini... 
Insomma,  per le  battaglie politiche  ci sono i parlamenti. Senza dimenticare il decisivo  ruolo  prepolitico che può essere giocato da altri fattori:  l' evoluzione del costume collettivo; le trasformazioni del senso comune, la flessibilità del  diritto civile. Un sindaco che  rappresenta tutti i cittadini, in quanto istituzione super partes  non deve  comportarsi come  un attivista politico, prevaricando il parlamento e  la spontaneità, spesso ricca di contrasti,  dei processi sociali.  Un buon sindaco liberale,  per dirla con un illustre giurista, Vittorio Emanuele Orlando, oggi quasi dimenticato, dovrebbe praticare la  politica della neutralità,  

«la quale escluda assolutamente qualunque sospetto che sia   politica di protezione  d’una determinata classe sociale: una politica la quale si affermi  praticamente eguale  per tutti i cittadini (…)   che si fa crescendo  forza e prestigio  dell’autorità legale. (…)  La lotta è condizione di vita per gli uomini  come per gli stati: noi a questa lotta dobbiamo opporre una organizzazione  di stato la quale rappresenti  una protezione vigilante contro ogni oppressione ed aggressione, ma limitandosi  essa stessa nell’opprimere e nell’aggredire, un’autorità neutrale nell’acuto conflitto degli  interessi sociali e che da tale neutralità tragga la sua forza» (cit. in  F, Grassi Marini,  Saggio Introduttivo, a V.E.Orlando, Discorsi parlamentari, il Mulino Bologna 2003, pp. 40-41)
  
Questa fu la politica teorizzata da Orlando e  praticata da Giolitti, politica che garantì all’Italia  anni di crescita economica e civile.   Marino invece  cosa vuole fare? Istituire i registri per le unioni  gay, politicizzare il Campidoglio e le istituzioni,  dividere ancora di più i cittadini?  E questa sarebbe  una politica liberale?  No, Ignazio Marino non è un liberale.

Carlo Gambescia

           

sabato 7 giugno 2014

























Madrigale
di Octavio Paz

Più trasparente
di quella goccia d'acqua
tra le dita del rampicante
il mio pensiero tende un ponte
da te stessa a te stessa
Guardati
più reale del corpo che abiti
fissa nel centro della mia fronte
sei nata per vivere in un'isola.

             (trad. di Franco Mogni)

venerdì 6 giugno 2014

6 giugno 1944
Settant’anni dallo sbarco in Normandia


Con questi chiari di luna (economici)  la celebrazione dei  settant’anni trascorsi  dal D-Day  non è sicuramente l’evento di punta sui giornali di oggi. E invece riteniamo giusto parlarne.
Del resto l’estrema destra fascista ha sempre visto nello sbarco in Normandia l’inizio dell’egemonia americana sull’Europa, punto di vista condiviso, talvolta con decisione, anche dai comunisti.  Per contro conservatori (meno i nazionalisti), liberali, cattolici (a parte quelli  di sinistra e di destra, diffidenti verso la cultura Usa)  non  hanno mai nascosto la loro  riconoscenza  nei riguardi dei “Liberatori”.
In effetti, se gli americani non fossero intervenuti,  un’Europa sotto la croce uncinata nella migliore delle ipotesi sarebbe  diventata  la  fotocopia dell’Italia e della Germania  in formato anni Trenta, nella peggiore una gigantesca caserma al servizio di una  poderosa   macchina da guerra.
Di sicuro,  lo stato di mobilitazione permanente contro gli  Usa  unico ostacolo al dominio  mondiale, avrebbe accentuato la natura totalitaria dei regimi nazisti e fascisti.  Al di là  della questione dei valori sui quali  sono solite dividersi le parti in conflitto,  le guerre, soprattutto se moderne e in larga scala, provocano, per ragioni organizzative, gigantesche concentrazioni di potere, perché esigono unità di comando e grandiosi slanci produttivi,   favorendo,  di riflesso,  la burocratizzazione  della stessa economia di mercato. Sono fenomeni sociologici capaci di sconvolgere, rendendole meno libere, persino le democrazie, figurarsi  le dittature.
Insomma, senza quello sbarco, o comunque senza l' intervento americano,  tutto il mondo,  sarebbe stato, di fatto, meno libero (naturalmente,  parliamo di libertà umana, quindi sempre in senso relativo), e ne avrebbero risentito  anche  gli  Stati Uniti, cosa che in parte avvenne, nonostante la vittoria,  proprio con la "Guerra Fredda", altra riprova della validità dell'approccio qui suggerito.
Si tratta di un dato sociologicamente innegabile. La guerra, piaccia o meno, riduce la libertà degli uomini. Ovviamente,  ognuno di noi può avere le sue idee sulla validità dei  valori dei vincitori e degli sconfitti, ma un  fatto - ripetiamo -  è indiscutibile:  chiunque ideologicamente  si faccia portatore del valore salvifico e miracoloso della  guerra in quanto tale,  o  non capisce nulla di sociologia o spudoratamente  dichiara il falso.


Carlo Gambescia                      

giovedì 5 giugno 2014

Il libro della settimana:  Stefano Angelucci Marino, Fascistelli, Il Cerchio Editore, pp. 86 Euro 10,00. 


http://www.ilcerchio.it/fascistelli-romanzo.html


                           
Appena letta  la recensione  di  Roberto Alfatti Appetiti a Fascistelli, opera  prima  di Stefano Angelucci Marino, attore, regista organizzatore teatrale, il pensiero è andato subito alla Guerra degli Antò  di Silvia Ballestra,   uscito nel 1992,  romanzo che ruota   intorno alle vicende di quatto punk abruzzesi, giovanissimi e sognatori, che in quel di Montesilvano ingaggiano la loro personale   battaglia, fatta di denunzie, scherzi goliardici, fughe (e ritorni)  contro  il grigiore di una provincia vischiosa e cementificata.  Il tutto -  dal punto di vista stilistico e narrativo -  mescolando con juicio  italiano e abruzzese, slang e riti giovanili  primi anni Novanta del secolo scorso.
Ecco, Fascistelli in qualche misura, condivide con la  Guerra degli Antò  la classica  tematica della rivolta  generazionale  trasposta  in provincia, quindi con modalità, tic, carature proprie di un sottobosco underground che fa pensare  alle famose Guerre Pacioccone di Attalo (ma questa è un'altra storia).  Il che tuttavia,  resta vero  fino a un certo punto. Perché  il romanzo  scritto da  Angelucci   Marino, a differenza  di quello della Ballestra, per un verso guarda al variopinto mondo politico del radicalismo politico di destra con il disincanto di un' esperienza giovanile e parentetica, ormai alle spalle  (quindi niente "torcicollo"…), per l’altro  nelle ultime pagine il tessuto narrativo sterza decisamente verso il tragico. Non diciamo come...  Un evento spingerà  il  giovane protagonista, Vittorio Brasile, " lu fascistello" come lo chiamano i peasani,  che all'inizio sognava  di emulare, mescolando insieme fantasia e realtà, le gesta di  Mister No, Capitan Harlock , Robert Brasillach,   a farla  finita con la politica, per dedicarsi -  intanto -  alla carnosa Susanna, sua coetanea e compagna di pullman, ogni santo  giorno, tra Civitella e Chieti…  Casa e Liceo, Liceo e Casa…     
Ovviamente, le chiavi di lettura possono essere  molteplici: si può andare  dal viaggio  intorno a una serie di pittoreschi personaggi, che popolano (si fa per dire) la sezione missina di Civitella, per passare a quello della inevitabile disillusione politica, del  protagonista sedicenne verso un finto universo di  duri e puri,  che in pochi giorni -  siamo nel cruciale 1993 -  transumerà  dal  libro e moschetto  al democristiano perfetto. Oppure si potrebbe tentare di  mettere a fuoco, usando  la defeliciana  distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento,  la dialettica tra fascismo reale e fascismo immaginario che  sembra innervare, animandolo,  tutto il romanzo.  L'unica chiave che sconsigliamo  è quella del nostalgico "come eravamo", o peggio dell' incapacitante  "come potevamo essere"...  Che, tra l'altro, il libro non suggerisce... Anzi. 
C’è infine  un’ altra possibilità di lettura:  quella del piccolo mondo antico, che, nel bene e nel male,  si nutre come ogni microcosmo di  persone autentiche.  Si legga l’intenso e nitido ritratto della madre del protagonista: Donna Maria,  degno di un  micro Manzoni appenninico, un Maggiore, se abbiamo capito bene, apprezzato da Vittorio-Stefano.

A casa una sera Donna Maria mi dice che è urgente, mi deve parlare. Dimmi. Prende coraggio la vecchia e mi rimprovera, in paese lo sanno tutti che l’unico fascistello contrario a fare la lista con i democristiani sono io, lo sanno tutti. E sbagli figlio mio, perché Camillo e quille è brava gente e se proprio devi fare sta maledetta politica falla nghi quille buoni che la sanno fare. In paese lo sanno tutti. Sbagli figlio mio,sbagli. Eccola qua, con quel suo sguardo ignorante e ingenuo a preoccuparsi per Vittorio suo. Le rispondo con dolcezza che la politica non è come pensa lei, mi giro e torno in camera mia. Donna Maria scoppia a piangere e va in camera sua. “Cambierà. Arriverà Dio uno di questi giorni e cambierà”, così ancora una volta singhiozzando implorava il Cristo del crocifisso appeso nella stanza. 
Mia madre da giovane era andata  a scuola dalle suore. E dopo voleva farsi monaca pure lei. Però mia nonna, e con lei tutta la famiglia, non sentiva ragioni. Meglio,molto meglio sposarsi. Paga e lavora lu marito e tutta la famiglia risparmia, sparagne
e cumbarisce. Questo andavano ripetendo a mia madre fino a quando non l’hanno convinta. Lei pregava per tutte le anime, eppure l’anima di Vittorio suo proprio non la capiva. No, non la capiva.

Un piccolo mondo antico fatto anche di squarci, che fanno la differenza.  Perché  la Civitella  - “piccolo paese della montagna d’Abruzzo incastrato nella roccia” - evocata  da  Angelucci Marino, sebbene  deturpata dal solito viadotto democristiano made Remo Gaspari (personaggio  cui sono dedicate pagine indimenticabili), non assomiglia assolutamente  alla Montesilvano  male urbanizzata e presuntuosamente vacanziera descritta dalla Ballestri. Per contro, “Fascistelli”  è tutto un  riferirsi a scalinatelle, viuzze, scorciatoie, finestre socchiuse, odori e sapori domestici, piogge, ombrelli, aperti, pozzanghere su cui saltellare facendo attenzione, piazzette silenziose che si aprono all’improvviso,  minuscole ville comunali da intitolare ai baci rubati,  magari sotto l'ala protettrice -  immaginiamo -  di una vista che toglie il fiato: l’ Abruzzo di montagna è fatto così… Ti rapisce l'anima  a colpi di  lame celesti e luminose. Proprio come Fascistelli: romanzo fulgido, dove l’autore riesce a far parlare persino le pietre.  Pietre d’Abruzzo. 
Carlo Gambescia