lunedì 30 settembre 2013





Cara donna Mestizia,
a me l’armi! Sol io combatterò, procomberò sol io! Muoia Dudù con tutti i Comunisti!
Dudù

Caro Dudù,
capisco la Tua rabbia e il Tuo dolore. Sopporti mille maltrattamenti con encomiabile, più che canina fedeltà; i Tuoi padroni giurano non Ti lasceranno mai, e con toccante ingenuità, Tu gli presti fede; ed ora eccoli che invece partono per il loro viaggio all’estero, e Ti abbandonano crudelmente all’Autogrill di Pirlate Brianza. Attento, però, caro Dudù. Lo dico per il tuo bene: non fare il passo più lungo della zampa. C’è una vecchia canzonetta che piaceva alla tua mamma e al tuo papà: “Papaveri e papere,” si intitolava. Tu sei un cane e non una papera, ma la situazione dell’imprudente paperina è identica alla tua. Ricordi il ritornello? “Lo sai che i papaveri/sono alti alti alti/e tu sei piccolina/e tu sei piccolina/sei nata paperina/ che cosa ci vuoi far?”

* * *
Gent.ma donna Mestizia,
la “Tettarelle S.p.A.”, da decenni azienda leader nel settore biberon, sostiene la famiglia tradizionale. Ve lo sognate che facciamo gli spot con le famiglie gay. Resistere, resistere, resistere!
Guidobaldo Tettamanti, amministratore delegato Tettarelle S.p.A.

Gent.mo dott. Tettamanti,
la rubrica di donna Mestizia ha il dovere di registrare le opinioni di tutti i lettori, anche quando non le condivide. Aggiungo soltanto che di rado un’opinione controcorrente fu espressa con tanta chiarezza. Complimenti per il Suo coraggio.

* * *
Gent.ma donna Mestizia,
però la “Tettarelle S.p.A.”, da sempre azienda leader nel settore biberon, è all’avanguardia anche nella ricerca e nell’innovazione. Con orgoglio annunciamo che provvidenzialmente, proprio ieri il nostro reparto Ricerca & Sviluppo ha perfezionato il rivoluzionario progetto “tettapertutti®”. La spiegazione scientifica sarebbe troppo lunga, e francamente non ci capisco niente neanche io. In soldoni: ti fai un’iniezione di nanocosi e diventi una balia, fai tanto di quel latte che ci tiri su tre gemelli. E no, non è necessario essere donna e avere già l’hardware biologico. Puoi essere donna, uomo, transessuale, quello che vuoi: basta essere solvibile e comprarsi il kit tettapertutti® , poi pensa a tutto il nanocoso.
P.S.: il brevetto mondiale è nostro, e guai a chi ce lo tocca.
Guidobaldo Tettamanti, amministratore delegato Tettarelle S.p.A

Gent. mo dott. Tettamanti,
tutto è bene quel che finisce bene. Come diceva Adam Smith, “La scienza è il grande antidoto al veleno dell'entusiasmo e della superstizione”.
* * *
Cara donna Mestizia,
e io?
Pierferdinando Pasticci

Caro sig. Pasticci,
ci conosciamo?




Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

sabato 28 settembre 2013






















Il disordine nelle stanze

Non c’è parola che tenga
nel disordine delle stanze
dove il sogno è prigioniero della realtà.
La vita è questo incomodo accadere
noi le sue pedine.
Non sappiamo fare i conti
con l’inconveniente di essere nati
eppure tutto ha il suo corso
sotto questo cielo che annuncia mutamenti.




Non rinchiudiamo gli Angeli nei nostri incubi
altrimenti più nessuno ci insegnerà a volare.

                                                  Nicola Vacca



Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle e vive a Salerno. È scrittore, opinionista, critico letterario, operatore culturale.  Firma di testate prestigiose, attualmente  collabora  con la Fondazione Alfonso Gatto  e la rivista "Satisfiction". Tra i suoi libri di poesia, ricordiamo, Civiltà delle anime (Book) , Incursioni nell’apparenza ( Manni), Esperienza degli affanniAlmeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio), Mattanza dell' incanto ( Marco Saya Edizioni),  Nello stesso posto(Calenda166).

venerdì 27 settembre 2013

Cavaliere, ci ripensi,  
l’Aventino  non porta bene…



All’indomani della sentenza della Cassazione, nel nostro piccolo,  consigliammo a  Berlusconi di accettare la condanna, scontarla e uscire di scena con dignità ( http://carlogambesciametapolitics.blogspot.it/2013/08/lacondanna-di-berlusconi-e-il-rifiuto.html )  Per quale motivo?  Al di là, del pur importante superamento della crisi attuale che richiede giustamente "stabilità",  l’Italia, in prospettiva, ha bisogno di una grande forza di destra maggioritaria,  conservatrice ma illuminata,  aperta al mercato, attenta ai diritti come ai doveri politici e civili,  europeista senza per questo essere antiamericana. E  per un’operazione del genere il Cavaliere, con i suoi gravi problemi giudiziari, frutto o meno di persecuzioni,  è ormai  d’intralcio. 
Naturalmente,  lo stesso discorso può essere esteso alla sinistra, massimalista e schizofrenica,  lontana anni luce  dalla normalità politica. Si pensi  per esempio a  Letta,  presunto riformista,  che  negli  Usa celebra il mercato aperto,  in Italia la golden share...  Ma quel  che è più grave  è che, per ora,  l’unico  collante politico della  sinistra è rappresentato da un antiberlusconismo  volgare e  altrettanto incapacitante  quanto il  berlusconismo dei duri e puri.

In un quadro del genere, le annunciate "dimissioni di massa"  dei parlamentari del Pdl  - scelta  che può, seppure impropriamente, ricordare l’Aventino antifascista - non giovano al superamento della crisi economica,  al decoro delle  istituzioni,  allo sviluppo di una normale dialettica politica e  neppure a Berlusconi, ormai giunto al capolinea: tra  meno di un mese  i giudici di Milano si pronunceranno sul ricalcolo dell'interdizione dai pubblici uffici...
Se il  Cavaliere  vuole dimostrare, come spesso dichiara,  il suo amore per  gli italiani,  ecco l'occasione giusta per provarlo, smontando da cavallo.   Insomma, ci ripensi, faccia un passo indietro. L’altro Aventino, in ogni caso,  non portò bene al Paese.    

Carlo Gambescia

giovedì 26 settembre 2013

Il libro  della settimana: Stenio Solinas, Gli ultimi Mohicani. Quel che resta della politica, Bietti 2103, pp. 124,  Euro 13,00. 


www.edizionibietti.it


Quale può essere la chiave di lettura dell’ultima fatica di Stenio Solinas, Gli ultimi Mohicani. Quel che resta della politica (Bietti)?  Il mito della rivoluzione tradita. Il lettore è pregato di non inarcare il sopracciglio.   Solinas come Trotsky? Sì, ma soltanto  in chiave tipologica e tenendo  presente,  ça va sans dire, la diversità dei contesti storici, dei ruoli,  delle levature, eccetera.  In particolare,  pensiamo  al  comune giacobinismo  argomentativo…   Altro parolone, altro sopracciglio… Tradotto: alla comune critica delle cose come sono andate in nome delle cose come dovevano andare.  Ci spieghiamo   meglio.
All’inviato  de “il Giornale”,  costretto a lavorare controvoglia  nell’ officina cartacea  del  padrone delle ferriere,  la  mai amata  società “liberal-capitalista”  sta  più  stretta  di quararant’anni fa:  si  vorrebbe  mordere la mano  che nutre ma  si deve mordere il  freno,  come  accade  allo  stendhaliano Fabrice del Dongo. E per giunta,  senza   aver  mai udito una sola cannonata.
Per carità, è l’eterna  Comédie humaine,   scolpita da Balzac,  da cui nessuno, compreso chi scrive, potrà mai liberarsi.  Ortega parlava di  “circunstancia”, cui gli uomini possono però reagire secondo l' indole: c’è chi vi si adagia,  chi sociologizza, chi si ribella,  chi, come Solinas,  scrive   libri come questo,  dove   si fa il processo all’Italia, agli italiani e alle cose come sono andate, soprattutto sul piano politico. Ovviamente male,  se si osserva, sospirando,  la realtà  da una qualche immaginaria Coyoàcan,  con il cuore all' Italia vagheggiata a vent'anni.  Quando si viveva magicamente  sospesi tra le vette  della “tentazione fascista”  e  i cieli di  una  rivoluzione politica e antropologica. Insomma, fuor di metafora, Solinas continua a ritenere la politica  arte dell’impossibile: “Politica  - si sciabola -  non sono i partiti è la  battaglia delle idee, il cercare nuove strade, il non accontentarsi della routine, un’etica, e se si vuole un’estetica” (p. 68).  Estetica della politica…  il lettore prenda appunto.
C’è però chi sostiene  che  la politica sia  invece  arte del possibile. E che se si insiste troppo sull’impossibile, anche quando il possibile basta e avanza,  la politica finisce per   fare  rima con rivoluzione, per poi precipitare,  quando le cose si mettono male,  in rivoluzionarismo, talvolta da operetta talaltra da tragedia.
Purtroppo, come insegnavano Del Noce e Noventa,  siamo dinanzi al pericoloso sogno  proibito  di tutti  i giacobini italiani, rossi e neri: fare, anzi rifare gli italiani dalla testa ai piedi  a  calci nel sedere.  Si tratta dell’essenza del giacobinismo, dottamente colta dal Jacob Talmon e qui spiegata al popolo. Un approccio decisamente onirico che se fosse un farmaco avrebbe due controindicazioni prima, durante e dopo l’assunzione: la condanna in automatico  di tutto quel che può stridere con la meta agognata dal giacobino, ossia  l'uomo nuovo;  la  liquidazione di   qualsiasi critica, che viene   bocciata  come impolitica perché contraria alla “linea”, o se si preferisce la  versione soft,  relegata  tra le cianfrusaglie “liberal-capitaliste”  di   “quel che resta della politica”,  come recita il sottotitolo  del libro di Solinas.  Di qui però,  la simpatia in agrodolce, tipica  del giacobino nero,  per certi giacobini rossi, che  attraversa  tutto il libro: si notino il patetico aneddoto sul  vecchio comunista  cieco, quasi fratello separato (pp. 14-15); lo spreco di stima, anche politica,  per  Piergiorgio Bellocchio ( pp. 101-109), la piccola punta d’invidia del militante delle idee  per il giacobinismo piemontese, “culturalmente vincente” (pp. 59-61), la strizzatina d’occhio al Pasolini anticonsumista criptocamerata (p. 71-72) e al Nanni Moretti antiedonista  della “Messa è finita” (pp. 99-100).
Si tratta però di una passione circospetta,  piena di contrasti,  perché  Solinas  non nasconde l’ antipatia del giacobino di destra  per i  viscidi ominicchi  post-sessantottini con il cuore a sinistra e il portafogli  a destra: “comunisti immaginari ( pp. 27-28). E per l’Italia, scapigliata e sudaticcia alla Gino Strada,   fatta “di piazze, mitologie sul comune cittadino, di appelli, marce, petizioni” (p. 61).  Ma  neppure si salvano   -  nuova  sterzata a sinistra -    l’“aziendalizzazione della politica” (p. 16),  la destra diffusa, “qualunquista e conformista, nostalgica e bigotta” ( p. 18), nonché -  aristocratica unghiata  finale -   i populismi, come dire,  non tragici :  “Grillo è per certi versi la continuazione di Berlusconi con altri mezzi” (p. 40).  E qui ci fermiamo, perché il punto è importante:  se differenza c’è tra giacobinismo nero e rosso, anzi talvolta  rosa (si pensi ai fondamentalisti delle “quote”),  è rappresentata  dal sentimento del tragico.  I  giacobini rossi,  soprattutto quelli con famiglia,  amano  brechtianamente antieroi e codardi. E soprattutto il   vivere, una volta  chiusa la parentesi terroristica e rivoluzionaria, come grassi  topi nel formaggio.  Mentre  per  Solinas,  aristocratico giacobino di destra, non c’è via di mezzo: tragico e politica sono esteticamente inseparabili.  “Il tragico -  osserva -  in politica è un valore, contiene in sé la catarsi e il sacrificio, l’etica e il rispetto delle idee, la durezza della leadership, il rifiuto del compromesso, la speranza che si nutre di gesti e comportamenti, la fiducia  che nasce dall’esempio, un’idea di grandezza” (p. 20). Definizione che verrebbe sicuramente sottoscritta a occhi chiusi dal fior fiore della destra a un tempo rivoluzionaria e conservatrice del Novecento: i giacobini neri per l’appunto.         
Non è  però   utopistico, per avvalorare il politico,  concepire  il tragico  come  rilucente  pietra filosofale? E non come  “laico” strumento politologico?  Perché enfatizzare invece di sezionare e capire?  Detto altrimenti: fra il tragico, come qualcosa che sconvolge la vita di una nazione aggredita,  e il tragico,  cercato  e imposto dall’aggressore,  esiste sicuramente una differenza da studiare e comprendere. E poi  che c’è di bello nella distruzione di un popolo?   
Si tratta  di una differenza  che sfugge a chi punti, drammatizzando, sul tragico en bloc.  E infatti  sulla questione  Solinas  sorvola.   Probabilmente, perché  da  fautore della rivoluzione tradita  è  portato a privilegiare la fase movimentista, esteticamente fascinosa, senza preoccuparsi  delle conseguenze.  E soprattutto di capire chi abbia cominciato per primo,  facendo proprio collimare - magari senza tanti complimenti -   tragicità ( e quindi bellezza) della politica  con   etnocentrismo,  come purtroppo è accaduto.
Inoltre,  siamo  certi  che  se  si chiedesse bruscamente a Solinas  di scegliere  tra l’antieroe Berlusconi e  un certo eroe nibelungico in camicia bruna, esiterebbe… Magari solo per un attimo, ma indugerebbe.  Si legga al riguardo la chiusa del libro, dove Solinas sembra comprendere, se non giustificare, chi inizialmente,  come lo scrittore Gottfried Benn, aveva appoggiato Hitler  in  nome della tragica grandezza della patria tedesca (pp. 108-109).   E Stenio Solinas  per fortuna,   come gli amici sanno,  è uomo mite, arguto, autoironico.  Quindi  saprà  sempre  dove fermarsi.   Ma quando certe doti mancano?  Tarmo Kunnas, suo malgrado, ha in qualche misura mostrato che il combinato disposto fra estetica e politica non può funzionare:  si comincia alla grande  con l’estetica della politica e si finisce per dare man forte ai seguaci dell’eugenetica sociale,  i quali fanno volgarmente coincidere forza, colore della pelle e bellezza…
Certo,  si dirà,  alla fin fine, personaggi come Mussolini,  Hitler,  Berlusconi passano mentre  la  patria resta, grande o piccola che sia.  Giustissimo, ma  i primi due  hanno  sicuramente fatto  più danni.   

Carlo Gambescia

mercoledì 25 settembre 2013


Telecom parla spagnolo  
E allora?






Sul passaggio di Telecom alla spagnola Telefonica richiamiamo l’attenzione dei lettori sulla composizione societaria dell’azienda italiana. Cosa hanno scritto i giornali? Che l’accordo è stato siglato   da  Mediobanca, Intesa San Paolo e Generali…  Grandi gruppi bancari e "portafogli" assicurativi... (*).  Il vero punto della questione è che in Italia l’assenza di imprenditori  puri dotati di capitali propri ha  amplificato il ruolo delle banche ().  Perciò  per quale ragione  meravigliarsi  se i  pacchetti azionari passano così velocemente  di mano?   La banca non può (e non deve) “intraprendere”, al massimo può finanziare, senza mai però  esporsi più del dovuto. 
Insomma, a ciascuno il suo...   Il capitalismo, come scriveva Schumpeter si basa su tre figure: imprenditore, inventore, banchiere. Semplificando: quando il sistema funziona, i tre soggetti interagiscono alla perfezione: nessuno prevale sull’altro. Quando non funziona, di regola, sono le banche a fare la parte del leone. E i  risultati di tale squilibrio  sono ora  sotto gli occhi tutti...   
Mani sbagliate?  Mani straniere?  Il fattore rischio è parte integrante del pacchetto capitalismo.  Come del resto il fattore mercato aperto. Rischio e mercato libero, come le tre figure evidenziate da Schumpeter, se ben temperati  dalle regole,  favoriscono il progresso sociale.  
Quanto alle critiche, da che parte vengono? Partiti, sindacati, industriali:  attori sociali che in passato  non hanno mosso un dito per favorire  il giusto  equilibrio fra ricerca, impresa, banca. Il problema quindi non è l' "invasore" straniero, ma l’immaturità del capitalismo italiano. E  come recita l’adagio  chi è causa del suo male…   
Carlo Gambescia


martedì 24 settembre 2013



La “prigionia dei numeri” 
e il ritorno della politica 




Invitiamo  gli amici lettori a non farsi  sfuggire l’editoriale di oggi dei professori Alesina e Giavazzi ( http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_24/numeri-deficit-taglio-tasse_bef857c4-24d7-11e3-bae9-00d7f9d1dc68.shtml  ). 
Il titolo è azzeccato: La prigionia dei numeri . E -  facile  intuizione -  si riferisce  al  famigerato contenimento al  3  per cento del deficit  2013.  La ricetta proposta  dai   professori è di  tagliare radicalmente  spesa pubblica e tasse.  Inutile, si sostiene, insistere sugli artifici contabili e l’aumento della tasse.  Servono le famose riforme. Anche qui nulla di nuovo. 
E allora?   Va riconosciuto che c’è del  metodo, nel  folle (per alcuni) liberismo di  Alesina e Giavazzi. Infatti, l’editoriale, pur nella sua brevità, indica  correttamente  dove tagliare e intervenire.  C’è però un punto che non  convince:  per fare le “riforme”  occorrerebbe, non un passo indietro della politica, come invocano da teorici puri del mercato Alesina e Giavazzi,  ma  tanta, tantissima politica.  Nel senso di un governo “blindato”, capace  di decidere (schmittianamente)  senza guardare in faccia e nessuno,  e perciò  in grado di procedere come un gigantesco carro armato,  schiacciando gli interessi   di tutti coloro  che  finora hanno goduto di rendite corporative.  E qui,  si pensi  ai frutti avvelenati  del parassitismo sociale: più spesa pubblica, più consenso contrattato, spesso sottobanco.   Un governo corazzato - attenzione -  che sapesse   tenere testa anche  ai "ragionieri" della Ue,  perché nell'immediato, come si accenna  nell'editoriale,  a causa delle misure  shock  il 3%  verrebbe sforato.        

Concludendo, altro che Letta, Berlusconi, Grillo, Renzi...  Qui   serve una signora Thatcher.  Dove trovarla?

Carlo Gambescia

lunedì 23 settembre 2013



Cara donna Mestizia,
tre giorni fa mi suonano alla porta. Apro. C’è un signore in doppiopetto blu, non più giovane ma traboccante d’energia, che mi apostrofa così: “Mi consente? Rappresento l’ONLUS “Forza Ragazzi!” Gliela faccio corta. Con la sua simpatica verve, mi ha persuaso ad adottare a distanza sei ragazzi bisognosi. Anzi, per la verità sono tutte ragazze sui vent’anni, anche molto carine. Mia moglie insiste che mi sono fatto imbrogliare. Lei che ne dice?
Parvo Kekkinen, Console onorario di Lapponia


Gentile Signor Console,
mi accingevo a risponderLe quando ho ricevuto queste tre lettere:

Cara donna Mestizia,
ieri l’altro mi suonano alla porta. Apro. C’è un signore in doppiopetto blu, non più giovane ma traboccante d’energia, che mi apostrofa così: “Mi consente? Rappresento l’ONLUS “Forza Bau!” Gliela faccio corta. Con la sua simpatica verve, mi ha persuaso ad adottare a distanza sei cani abbandonati da insensibili padroni (per la precisione, barboncini).  Mia moglie insiste che mi sono fatto imbrogliare. Lei che ne dice?
Pik Badaluk, Presidente del Governo Provvisorio in esilio della Repubblica dello Zululand


Cara donna Mestizia,
ieri mi suonano alla porta. Apro. C’è un signore in doppiopetto blu, non più giovane ma traboccante d’energia, che mi apostrofa così: “Mi consente? Rappresento l’ONLUS “Forza Frigo!” Gliela faccio corta. Con la sua simpatica verve, mi ha persuaso ad adottare a distanza mille frigoriferi bisognosi (costretti a vivere al Polo Nord, sono discriminati come elettrodomestici di serie B). Mia moglie insiste che mi sono fatto imbrogliare. Lei che ne dice?
Onufrio Bustos-Ortega, Presidente Sezione Italiana Esperantisti

Cara donna Mestizia,
ieri mi suonano alla porta. Apro. C’è un signore in doppiopetto blu, non più giovane ma traboccante d’energia, che mi apostrofa così: “Mi consente? Rappresento l’ONLUS “Forza Anime!” Gliela faccio corta. Con la sua simpatica verve, mi ha persuaso ad adottare a distanza mille dannati del secondo Cerchio (lussuriosi). A suo dire, infatti, nell’Aldilà è in atto una rivoluzione liberale, e l’apocatastasi è solo questione di tempo. In ogni caso, mi ha garantito che la donazione è interamente deducibile dalle pene purgatoriali. I miei consulenti teologici dicono che mi sono fatto imbrogliare. Lei che ne dice?
Francisco Primero Bergamogli, Roma

Come vede, signor Console, Lei è in buona e prestigiosa compagnia. Escludo dunque che Lei si sia fatto imbrogliare. Come diceva il presidente Abramo Lincoln, “potete ingannare tutti per un po’, alcuni per sempre: ma non potete ingannare tutti per sempre.”



Roberto Buffagni è un autore teatrale. Il suo ultimo lavoro, attualmente in tournée, è Sorelle d’Italia – Avanspettacolo fondamentalista, musiche di Alessandro Nidi, regia di Cristina Pezzoli, con Veronica Pivetti e Isa Danieli. Come si vede anche dal titolo di questo spettacolo, ha un po’ la fissa del Risorgimento, dell’Italia… insomma, dell’oggettistica vintage...

sabato 21 settembre 2013





















L’uomo in rivolta

In questi tempi di stanchezza
azzannare il futuro
lacerare con parole non conformi
tutto l’ibrido che nel presente
addormenta ogni forma di vita.
Da queste parti
dove l’odore del cloroformio
uccide ogni istante il pensiero
e per le strade si aggirano
addomesticate parvenze di esseri umani
il risveglio delle coscienze
dovrebbe spezzare le catene
di questa finta libertà
che ci hanno cucito addosso.

L’uomo in rivolta
non bisogna solo attenderlo
deve essere immanente alle nostre vite
perché ogni sacrosanto giorno è sempre un pericolo.
                                                                     
                                                                          Nicola Vacca


 Nicola Vacca è nato a Gioia del Colle e vive a Salerno. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. Svolge, inoltre, un’intensa attività di operatore culturale. Tra i suoi libri di poesia, ricordiamo, Civiltà delle anime(Book) , Incursioni nell’apparenza ( Manni), Esperienza degli affanniAlmeno un grammo di salvezza (Edizioni Il Foglio), Mattanza dell' incanto ( Marco Saya Edizioni).

venerdì 20 settembre 2013


La missione (quasi) 
impossibile di Papa Francesco





Abbiamo divorato l’intervista di Papa Francesco  a "La Civiltà Cattolica" (ripresa integralmente qui: http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/intervista-papa-civilta-cattolica.aspx  ). Che dire? Innanzitutto che  non possediamo gli strumenti teologici per discuterne sotto il profilo “tecnico". E quindi dovremo sorvolare  su  tale aspetto.  In secondo luogo che  abbiamo  ammirato la  conoscenza  e  l'apprezzamento  del pensiero altro,  laico,  rivelati  dal Santo Padre: basta scorrere i nomi citati e gli esempi  fatti (addirittura dalla Turandot di Puccini). Ovviamente, anche altri aspetti della sua figura  hanno colpito la nostra attenzione, ma preferiamo soprassedere.     
Quel che però ci preoccupa  è la forte  tensione sociologica  irrisolta ( o meglio apparentemente  risolta, ma nella direzione più scivolosa) che  attraversa tutta l’intervista,   tra la Chiesa come istituzione e la  Chiesa come movimento.  Ben esemplificata nei  passi che seguono:

 «Io vedo con chiarezza  [...] che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite… E bisogna cominciare dal basso».

«La Chiesa a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in piccoli precetti. La cosa più importante è invece il primo annuncio: “Gesù Cristo ti ha salvato!”. E i ministri della Chiesa devono innanzitutto essere ministri di misericordia
 […].  I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato. I Vescovi, particolarmente, devono essere uomini capaci di sostenere con pazienza i passi di Dio nel suo popolo in modo che nessuno rimanga indietro, ma anche per accompagnare il gregge che ha il fiuto per trovare nuove strade». «Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade, che è capace di uscire da se stessa e andare verso chi non la frequenta, chi se n’è andato o è indifferente. Chi se n’è andato, a volte lo ha fatto per ragioni che, se ben comprese e valutate, possono portare a un ritorno. Ma ci vuole audacia, coraggio».

«Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante. Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita di una persona è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga o da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Lo si può e lo si deve cercare in ogni vita umana. Anche se la vita di una persona è un terreno pieno di spine ed erbacce, c’è sempre uno spazio in cui il seme buono può crescere. Bisogna fidarsi di Dio»

«Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. È da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali».


Ora, dal punto di vista sociologico,  il forte accento  posto sul Vangelo  non potrà non produrre elementi di tensione, o peggio di rottura,  fra la Chiesa-Movimento   ( “ospedale da campo”)    e    la Chiesa-Istituzione (“edificio morale”).  Semplificando, fra i sostenitori dell’etica dei valori e i seguaci  dell’etica della responsabilità. Si tratta di conflitti inevitabili perché sociologicamente presenti in tutti i gruppi sociali.  E che vanno saggiamente gestiti dalle gerarchie esistenti per evitare il dissolvimento delle istituzioni in cui i gruppi sociali - altra costante  -  non possono non  “addensarsi”.  Detto in breve:  è vero che non si vive di solo pane, ma di pane ci si deve pur nutrire...  Riuscirà Papa Francesco, come si legge, a trovare un nuovo equilibrio tra  innovazione e conservazione?  A che prezzo?  Dal momento che il  Santo Padre  sembra confidare troppo nella forza innovatrice della Chiesa-Movimento e poco in quella conservatrice della Chiesa-Istituzione?  Il rischio sociologico, come si intuisce , è quello di non fermarsi in tempo provocando altre gravi fratture religiose e sociali.  Di qui, riteniamo,  la   missione (quasi) impossibile di Papa Francesco. 

Naturalmente, come indica  "il tra parentesi",  da  credenti,  speriamo di sbagliare...

Carlo Gambescia

giovedì 19 settembre 2013


Il libro della settimana: Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni ( a cura di),Minoranze negli imperi. Popoli fra identità nazionale e ideologia imperiale,  il Mulino 2013, pp. 470,  Euro 34,00. 


Nella Sociologia degli imperialismi scritto nel 1919,  Schumpeter, di lì a poco ministro delle dissestate finanze austriache, sostenne che capitalismo  e  militarismo, nonostante tutto,  non potevano andare d’accordo. A suo avviso,  l’imperialismo non rappresentava la fase suprema del capitalismo come invece aveva  sostenuto Lenin:  imperi e imperialismi appartenevano al passato, in quando stati-militaristi e burocratici. Un mondo dove regnasse la libera concorrenza, come per larga parte del  XIX secolo,  non poteva non essere sinonimo di  progresso economico, di  pace e crescente benessere  per tutti. E su  quel mondo si doveva puntare...  Altrimenti,   il burocratizzarsi  del  capitale,   momentanea  deviazione indotta dal bellicismo, avrebbe  potuto spalancare   la porta  a  continue  avventure militari di sapore reazionario.

Un atto di fede? Forse. Comunque sia,  in quel libro Schumpeter  pose  un  problema fondamentale:  quello dell'ambiguo rapporto tra politica (soprattutto internazionale), come lotta per l’egemonia e l’ economia (capitalistica) quale  perseguimento pacifico  del benessere collettivo.  A suo parere, nel quadro delle egemonie imperiali,  i cannoni finivano sempre per prevalere sul burro:  ogni impero, racchiudeva in sé, estendendosi militarmente oltremisura,  i germi del dissolvimento economico e di conseguenza politico. Quindi - probabilmente così pensava Schumpeter - capitalismo avvisato mezzo salvato...  
Si dirà, tesi non nuovissima. Ma, in ogni caso, attenta alle questioni concrete e  nemica di quella bolsa retorica  sui concetti di impero e imperialismo,  che tuttora  affascina utopisti di destra e sinistra.  
Un lodevole realismo storico (e politico) che ritroviamo in Minoranze negli imperi. Popoli tra identità nazionale e ideologia imperiale (il Mulino),  ricco volume  curato da Brigitte Mazohl e Paolo Pombeni,  pubblicato  nella prestigiosa collana di quaderni degli Annali dell’Istituto storico-germanico di Trento/Fondazione Bruno Kessler.
Infatti, la questione delle minoranze tra gli anni Ottanta dell’ Ottocento e la Primaguerra mondiale è lo specchietto tornasole del problema schumpeteriano, perché permette di comprendere l' impatto dello sviluppo economico sulla cultura dello stato-nazione. E principalmente nei suoi risvolti di  sfida all’ unità imperiale, e dunque egemonica,  in Germania, Austria asburgica, Russia,  Gran Bretagna, Impero Ottomano. Naturalmente,  nel volume sono affrontati anche gli aspetti ideologici del concetto di impero: si parte da Roma (Elvira Migliaro), passando per  Napoleone (Michael Broers), per giungere, studiandone le trasformazioni (Brigitte Mazohl), alla  vera e propria  analisi  storico-tipologica (Andreas Fahrmeir, Guido Hausmann, Federico Biagini).  A dirla tutta, i saggi più avvincenti sono quelli  sulle  minoranze in senso specifico:  Impero Ottomano (Marco Dogo) e Asburgico:  gli Slovacchi ( Elisabeth Gasser), gli italiani (Marco Bellabarba). Molto  opportuna l'attenzione riservata alla comunità  religiose (Rupert Klieber).  Non meno interessanti, infine, le analisi dedicate alle  burocrazie militari britanniche (Edward M. Spiers) e asburgiche (Rok Stergar), quali  fattori di integrazione a doppio taglio, soprattutto  nell’Impero Austro-Ungarico.
È possibile individuare un denominatore comune?  Sì.  E quale?  Come detto,  quello costituito dagli effetti di ricaduta della modernizzazione economica, o per dirla con  Schumpeter del ciclo capitalistico  Un fattore che interagendo con la modernizzazione politica  mise  nell’angolo le élite tradizionali ( aristocratiche e militari), incapaci di fare  i conti con la democrazia politica ed economica dei moderni e perciò  di integrare le minoranze, se non ricorrendo,  per ricompattare,  al  puro espansionismo bellico:  scelta  che condusse  alla Prima guerra mondiale e al  conseguente dissolvimento  degli imperi  per ragioni economiche e, diciamo così, per  l'incapacità culturale di  pensare la pace,  coniugando ideologia  imperiale  e rispetto (istituzionalizzato) delle diverse componenti  identitarie. 
Il punto è ben colto da Pombeni: « In definitiva gli imperi finirono in gran parte per essere incapaci di trovare quei meccanismi di “invenzione della tradizione” (per usare una celebre formula) che sarebbero stati necessari per fondere le fedeltà di appartenenza comunitaria, nazionali o di altro genere che fossero, in identità politiche imperiali, coniugandole però  con una convinta accettazione del nuovo orizzonte del costituzionalismo rappresentativo. Non per caso l’unico contesto in cui questo connubio si realizzò in larga misura fu la Gran Bretagna (…). Ciò[comunque, ndr] non impedì che in  Gran Bretagna si verificasse l’unica importante sollevazione indipendentista durante la guerra , la famosa rivolta di Pasqua a Dublino dal 24 al 30 aprile 1916, repressa draconianamente dagli inglesi, ma pur sempre con il favore di un sentimento di lealismo bellico che impedì alla rivolta di estendersi oltre i gruppi più radicali» (pp. 468-469).
E qui si torna, in generale,  al problema posto  da  Schumpeter:  della guerra come fattore  aggregatore-disgregatore  delle unità imperiali, smodate  consumatrici  di  risorse economiche e umane. E più  in particolare all' "evento" Prima guerra mondiale,  quale  punto di svolta (negativo)  per lo sviluppo capitalistico.  Un regresso economico-sociale  poi approfondito da Schumpeter  in Capitalismo, socialismo e democrazia (1942). Parliamo dell' "innesco"  di  un gigantesco  processo sociale, al servizio dello sforzo bellico,   verso  un’economia sempre  più centralizzata e burocratizzata.  Un’economia di comando  capace però  di provocare, per reazione, effetti centrifughi nelle minoranze sottomesse, come  avvenne  tra   il primo e  il lungo secondo dopoguerra, fino al punto di  favorire,  se non determinare,  la decomposizione degli imperi e la chiusura del ciclo imperiale moderno.

Il che però, anche dopo il 1991,  non ha rappresentato la fine della lotta per l’egemonia tra gli stati. Evidentemente, il progresso economico, a differenza di quel che riteneva Schumpeter nel 1919,  almeno da solo,  non garantisce la pace.  L’ultima parola,  costi quel che costi,  sembra  spettare sempre alla politica. E alle nazioni più forti, le uniche capaci di esercitare l’Imperium. Qualcuno lo spieghi a Barack Obama.  

Carlo Gambescia                 

mercoledì 18 settembre 2013


 La crisi economica  
italiana in due parole



Non siamo economisti,  ma è fin troppo facile  capire  che  per  far  ripartire l’economia, ovviamente in una società libera (non autarchica…),  esistono solo due modi: o si aumentano le tasse (per semplicità: dirette e indirette) , finanziando con gli introiti  una  spesa pubblica crescente,  o si tagliano le tasse e  la spesa pubblica, creando così  le condizioni per gli investimenti  privati.  La prima è la ricetta della sinistra, la seconda della destra.   
Va però detto che spesso  i politici -   pasticciando -   tendono a  perseguire   un impossibile  mix  tra le due modalità.   E come?  Giocando sulla possibilità  di finanziare  la spesa pubblica, attraverso l’emissione di titoli sul mercato interno ed esterno. Emissioni  che, attenzione,  non sono  un male in sé,   a patto che non si accompagnino alla crescita dell' imposizione  fiscale   e che   non  vadano a  coprire  quasi per intero la spesa pubblica,  mettendo l’economia nelle mani di un mercato estremamente volubile (come quello che tratta i titoli del cosiddetto  il debito sovrano) e di uno stato altrettanto vorace.   Il lettore si sarà accorto che non abbiamo ancora  accennato al  credito bancario e alle  politiche monetarie. Diciamo allora  che  a grande linee  la destra  è per la libertà creditizia e  la sinistra per il controllo del credito, anche se  l'una  l'altra  ritengono  possibile influenzare  il mercato monetario e   finanziario, agendo sul  livello dei  tassi.    
Ora, in Italia cosa è successo?  Che, grosso modo negli ultimi vent’anni,   governi, né di destra né di sinistra, non hanno tagliato le tasse, non hanno tagliato  la spesa pubblica. E per contro, non hanno neppure  intrapreso o   favorito investimenti pubblici. Tuttavia, a causa del pletorico apparato statale di partenza, spesa e  debito pubblico  sono cresciuti a dismisura, così come è  salito alle stelle  il finanziamento del debito attraverso l’emissione di titoli.  E su questo  costoso e perdente  immobilismo  si sono  abbattuti  moneta unica e  crisi economica mondiale
Dove sono finiti i soldi degli italiani? Qui esistono due scuole di pensiero: i moralisti che parlano di corruzione ed evasione fiscale; i liberisti che parlano di mercato paralizzato e sprechi pubblici. I primi favoleggiano sul recupero dell’evasione fiscale, i secondi mitizzano le privatizzazioni. Non entriamo nel merito della diatriba.  

Diciamo solo che non esistono derive autarchiche  e che l’Italia, al momento,  avrebbe bisogno di scelte economiche ben  definite: o di destra o di sinistra.

Carlo Gambescia