venerdì 31 luglio 2020

Salvini a processo
La fabbrica degli eroi

Su Salvini rinviato a  processo, la domanda è la seguente:  se si fosse  riusciti a mettere fuori gioco Hitler e Mussolini per via  giudiziaria, il mondo, grazie ai giudici, si sarebbe risparmiato una serie di guerre e genocidi?
Diciamo che le cose sono molto più complesse.  Esistono le grandi correnti collettive della storia che non sempre vanno nella direzione giusta, voluta dagli uomini, nel bene come nel male.  Hitler in seguito al putsch del 1923  finì in prigione, ma ne uscì come un eroe. Mussolini, all'epoca del delitto Matteotti fu lì lì per cadere,  ma poi ne venne fuori  addirittura rafforzato.  
Per venire a un esempio più recente, il Cavaliere è stato messo fuori gioco, quando ormai  era troppo tardi per riparare ai danni che aveva combinato: uno in particolare,  gravissimo, lo sdoganamento politico-culturale del populismo.   Lo stato di diritto non è alieno da cavilli  e  i giudici  non sono ben visti (per ragioni che spiegheremo più avanti),  quindi si rischia anche questa volta di trasformare  Salvini in eroe. Certo è in gioco l’ineleggibilità, ma la pena (accessoria), purtroppo  non riguarda -  per capirsi - le grandi correnti culturali e collettive della storia (piacciano o meno), come ad esempio il razzismo  dei leghisti. Per fare un passo indietro:   le misure giudiziarie non arrestarono culturalmente  fascismo e  nazismo. Come del resto  in tempi più vicino  a noi, non  influirono   sul   populismo berlusconiano. Anzi.

Il razzismo è un fenomeno dalle radici  culturali profonde, che nella sua versione politica, non può essere combattuto a colpi di sentenze per giunta strabiche. Ad esempio,  perché  non chiamare di correo il Presidente Giuseppe Conte, all’epoca del fatti contestati  alleato di Salvini? La giustizia politica aggrava non attenua fenomeni di cultura collettiva che, proprio perché tali, dividono  e inaspriscono  i conflitti i politici.     
Infatti qual è l’atteggiamento di Salvini? Dalle prime interviste si dipinge come un eroe, vittima di un sistema ingiusto, che andrà avanti a testa alta.
Allora che si doveva fare? Lo stato di diritto non ha forse le sue regole e procedure, uguali per tutti, dal ministro all’usciere,  dinanzi alla legge? Certo. Però allora si deve fare in modo che sia  effettivamente così. Insomma, che i giudici non si comportino  come strabici.  In Italia, da Tangentopoli in poi, la giustizia ha continuato a guardare da una parte sola: contro la destra.  La politicizzazione   a  sinistra della magistratura  non ha indubbiamente fatto bene allo stato di diritto. Giudicato ormai  da metà degli italiani come al servizio di una sola parte politica.
In questa situazione togliere di mezzo Salvini per via giudiziaria non attenuerà l’onda lunga del razzismo italiano.  
Un fenomeno che va  contrastato  non con la giustizia a orologeria ma con il buon governo: da una intelligente regolazione dei flussi alla progressiva integrazione  degli immigrati. Questa  battaglia, dai tempi lunghi,  deve essere condotta sul piano organizzativo e culturale. Le decapitazioni giudiziarie  lampo possono provocare  solo altre decapitazioni lampo  di segno contrario.   
Si dirà che  in questo modo si fiancheggia la destra. In realtà, non stiamo difendendo Salvini ma lo stato di diritto.  Il vero stato di diritto. Offeso da certi giudici che invece di  combattere il razzismo fabbricano eroi. Classico esempio di eterogenesi dei fini (delle azioni sociali): si vuole il bene, si ottiene il male.  


Carlo Gambescia                            

giovedì 30 luglio 2020

Dagli scostamenti di bilancio
ai carri armati


Gli scostamenti di  bilancio, sui quali tutti i partiti, di maggioranza e opposizione,  sembrano ora  trovarsi d’accordo, come prova il voto di ieri in Parlamento,  sono la classica strada per l’inferno  lastricata di buone intenzioni. 
Per ogni persona di buon senso il campanello d’allarme dovrebbe sempre  suonare dinanzi alla  promessa dei populisti, di sinistra come di destra, di  abbassare le tasse.  Cosa  nella  quale invece,   stando ai sondaggi,  molti  italiani  credono.  Ci si illude,   per dirla con Vilfredo Pareto e  Maffeo Pantaleoni,  che possano  “scemare le imposte” senza  “scemare le spese” .  Si crede, insomma,   che la moltiplicazione della spesa  pubblica favorisca  inevitabilmente   la moltiplicazione della spesa privata.   Come se il rapporto tra spesa pubblica e spesa privata  fosse  governato  dalla forza di gravità.  
Tutto può sembrare molto stupido, eppure è così.

In realtà,  quanto più aumenta la spesa pubblica, tanto più aumentano i tributi e quanto più aumentano i tributi tanto più un’economia rischia di  restare al palo di partenza.  Altro che  le promesse di vivere felici e contenti evocate da Conte, Gualtieri, Salvini, Meloni...  
Di solito, a queste critiche,  si risponde che se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero  meno, eccetera, eccetera. Ma l’evasione fiscale, a parte  alcune eccezioni, non è altro che la riprova che il mercato dei tributi  non funziona perché i prezzi dei medesimi sono troppo elevati.  Di qui  la nascita di mercati paralleli, che vanno dalla bustarella all’evasione fiscale. Per fare un esempio semplicissimo: come si combatte il contrabbando di determinati beni? Abbassando i tributi che gravano su di essi, rendendoli  così competitivi con i prezzi dei beni acquistati sul mercato nero. Stesso discorso per le tasse, come ben spiega la  teoria dei paradisi fiscali.
Per farla breve: il mix  tra   spesa pubblica crescente  e tasse altrettanto  elevate distrugge ogni possibilità di crescita economica.
Ora che i populisti al governo e  all’opposizione, come del resto moltissimi  italiani,  credano nel miracolo dei pani  e dei pesci economici  resta un mistero. Fino a un certo punto però.  Con la spesa pubblica si comprano i  voti,  come del resto con la simultanea   promessa di abbassare le tasse: così  non si scontenta  nessuno.

Un gioco che però  può  riuscire solo  in un universo economico autarchico o semi-autarchico.  Per contro,  in un’economia aperta, dove la credibilità internazionale impone di  rispondere  di ogni centesimo, non è possibile procrastinare il gioco a lungo, tentando di turlupinare i partner economici privati (banche, imprese, fondi). Il che  spiega perché  i populisti,  di destra come di sinistra, siano così contrari alla libertà di mercato. Nel destino dei populisti, piaccia o meno,  c’è  il protezionismo, che non è altro che la versione economica del nazionalismo, oggi ribattezzato sovranismo.  L’idea che si possa fare da soli. Come  nella Russia sovietica, nell’ Italia fascista e nella Germania di Hitler…
Insomma, come dicevamo,  la strada per l’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni:  si comincia con lo scostamento di bilancio  e si finisce con i carri armati Anche perché una volta raschiato il fondo del barile spesa pubblica-tributi, non resta che aggredire gli altri popoli per vivere alle loro spalle… Oppure  trovarsi un alleato forte - Mussolini docet -  che vinca le guerre per noi. Asservendoci però. 


Carlo Gambescia

mercoledì 29 luglio 2020

Legislazione d’emergenza e decrescita infelice
Sempre peggio…

Indubbiamente, come  ha notato chi ne sa più di noi (*),  la proroga dello stato di emergenza,  pone gravi   problemi costituzionali. In realtà però, sociologicamente parlando,  siamo davanti a  qualcosa che va al di là del voto  in Senato di ieri:  diritto esercitato, purtroppo,  da senatori  che votano secondo gli ordini del partito, rinunciando alla libertà di coscienza, libertà che rimanda alla libertà del parlamentare come rappresentante della nazione e non di questa o quella parte.
Sul punto specifico, la struttura totalitaria del  Movimento Cinque Stelle  non lasciava e lascia  via di scampo. Del resto lo stesso Partito Democratico vanta una lunga  tradizione comunista e postcomunista di oppressione della libertà di pensiero dei parlamentari.  Quel che  sorprende è l’atteggiamento passivo  di Italia Viva, che invece  dovrebbe incarnare, come spesso pomposamente si presenta, una sinistra moderna  e liberale.
Purtroppo il vero punto sociologico, punto pericolosissimo,  alla base della legislazione di emergenza, è costituito   dalla  narrazione della pandemia a tinte foschissime, narrazione  sposata  e divulgata dal Governo populista.  Si legga la dichiarazione di ieri del premier Conte.
    
«"Il virus continua a circolare nel Paese, con focolai che sono stati circoscritti, mentre all'estero la situazione resta preoccupante" ha detto ancora il premier. "Dobbiamo evitare - spiegava - che la crescita dei contagi riguardi anche l'Italia". E ancora: "Le funzioni del commissario straordinario cesserebbero con la fine dello stato di emergenza e senza la proroga" mentre "il suo lavoro si sta dimostrando fondamentale" […]. "Perseguiamo l'obiettivo - ha aggiunto Conte - di garantire continuità operativa alle strutture e agli organismi che stanno operando per il graduale ritorno alla normalità e che svolgono attività di assistenza e sostegno a quanti subiscono ancora gli effetti diretti e indiretti di una pandemia che, seppure fortemente ridimensionata nella sua portata, non è ancora esaurita"».

Cosa  significa che “il virus continua a circolare nel Paese”? Tutto e niente. 
Tutto, perché,  il solo risuonare  della parola virus,  grazie anche un'informazione che ha sposato la causa dell’allarmismo sociale, consente  al Governo populista di tenere in piedi   la legislazione di emergenza (la “continuità operativa”), per ora fino al 15 ottobre. Ma i tempi potrebbero sempre  allungarsi...  
Niente, perché,  parliamo di un virus ormai  più che reale  annunciato, terreno  di quotidiane e feroci  discussioni tra gli esperti, sull’onda di dati sempre più tirati per i capelli.  Naturalmente il Governo populista -  per una metà autoritario e per l'altra demagogico -  ha scelto la versione più comoda per rafforzare i suoi poteri: quella della spada di Damocle virale. Certo, per il “bene dei popolo”. In questo modo  il cerchio ideologico si è chiuso, ovviamente a danno degli italiani.   Per inciso, oggi,   Yahoo e Libero, dando una mano al Governo populista,  si interrogano all'unisono,  sfiorando il ridicolo,  su cosa cambierà per gli italiani con la proroga dello stato d'emergenza... Come se la proroga fosse la cosa più normale del mondo, anzi un fatto  foriero di buone notizie, di "cambiamenti"  in meglio.. .Così funziona l'informazione social.
Semplificando, la narrazione catastrofista della  “circolazione”  del  virus impone la legislazione di emergenza, e la legislazione di emergenza impone la narrazione della circolazione  del virus. Una spirale infernale, sociologicamente parlando.
Si legga al riguardo la seconda parte della dichiarazione di Conte.

"Perseguiamo l'obiettivo - ha aggiunto Conte - di garantire continuità operativa alle strutture e agli organismi che stanno operando per il graduale ritorno alla normalità e che svolgono attività di assistenza e sostegno a quanti subiscono ancora gli effetti diretti e indiretti di una pandemia che, seppure fortemente ridimensionata nella sua portata, non è ancora esaurita" (**)

Di questo passo,  fin quando non saremo a  zero  positivi -  perché il succo del discorso di Conte è solo questo -  la legislazione di emergenza e le strutture di assistenza  create, che in pratica vivono di essa,  detteranno letteralmente legge.
Il che significa che la vita normale nelle fabbriche, negli uffici, nei tribunali, negli ospedali, nelle  città metà di turisti e di traffici economici nei prossimi mesi, se non addirittura anni,  non riprenderà il ritmo del passato. Con danni sociali ed economici di una gravità inaudita.  Insomma, le cose rischiano di andare sempre peggio.
Sociologicamente parlando, la proroga dello stato di emergenza  e la narrazione che vi è dietro (che può moltiplicarlo ad libitum)  impediscono  ogni  ritorno alla normalità.   In prospettiva  la forma economica sottesa alla legislazione emergenziale  è quella di un’economia autarchica, statalizzata, segnata dall’ assistenzialismo. Un modello pseudo-economico, tipo Caritas, che guarda a un’Italia che  inevitabilmente si impoverirà, perché costretta a vivere, come certe famiglie ricche e disgraziate di una volta,  non degli interessi ma  del  capitale. O peggio ancora a fare debiti.  Insomma, decrescita, ma infelice... Un Paese di straccioni in fila per un piatto di minestra, in senso metaforico fino  a un certo punto...  

Ovviamente, sotto il profilo culturale,  dietro il catastrofismo  narrativo  c’è l’inestinguibile odio politico dei populisti (di sinistra come di destra) verso l’economia di mercato,  la libertà economica, il benessere.
Più volte abbiamo scritto della  "prima epidemia ai tempi del populismo" (***). Confermiamo. Se non ci saranno reazioni  politiche, cosa del resto difficile considerato il livello politico-culturale dell’Opposizione di destra, altrettanto populista come la Maggioranza,   un’ influenza stagionale, rischia di tramutarsi in risorsa politica per imporre con la forza quella decrescita, teorizzata giulivamente per anni  da tutti i nemici della società aperta. Che però ora sono al  Governo. E purtroppo anche all’Opposizione.

Carlo Gambescia      
  
(*) Qui le rilevanti osservazioni in argomento di  Sabino Cassese:  https://www.ilriformista.it/conte-come-orban-lallarme-di-cassese-sullo-stato-di-emergenza-130483/


(***) Qui alcuni nostri articoli al riguardo (in particolare l’ultimo della serie): https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/search?q=la+prima+epidemia+ai+tempi+del+populismo


martedì 28 luglio 2020

Ora la dittatura sanitaria non piace più alla destra populista
Appello ai liberali coraggiosi

Che brutto ritrovarsi in cattiva compagnia.  Chi scrive fin dall’inizio ha avversato la pandemia psico-politica  che ha condotto  l’Italia a passi da gigante verso una crisi economica e sociale che nei prossimi mesi rischia di farsi ancora più dura.   In  marzo, con Carlo Pompei, sulle pagine di “Linea”  ci siamo  trovati da soli  a contestare la svolta autoritaria imposta da un governo populista di sinistra, in perfetto  accordo  con l’opposizione populista di destra, che pretendeva addirittura misure sociali ancora più restrittive.
Ora però  la destra populista ha ripreso  fiato, e facendo finta di nulla, parla, accusando la sinistra,  di dittatura sanitaria. E così, con Carlo Pompei, per così dire, ci ritroviamo, in compagnia di questi buffoni, finti difensori della libertà.  Per non parlare dell’inquietante arcipelago complottista, che va da destra a sinistra,  per il quale  ogni occasione  è  buona per buttarla in caciara (come si dice a Roma).    

Qual è il punto di discrimine tra  “Linea” e tutti gli altri?  Che sulle pagine di  “Linea” si ragiona e si argomenta   e  soprattutto si ritiene che la libertà, in tutte le sue forme,  sia un valore fondamentale,  non negoziabile.  Come, altra questione di regola ignorata dai populisti ma discussa su “Linea”,  che lo stato sia una cosa il governo un’altra. Ovviamente parliamo di  uno stato non oppressivo  che  non  va assolutamente visto come terra di conquista, puntando furbamente  sul  voto di scambio e  finanziamenti pubblici a questo e quello per rafforzare il controllo statal-governativo sulla gente. Detto in breve: i governi passano lo stato resta.  Ecco cosa significa  terzietà dello stato. Insomma, amministrazione indipendente dalla politica.
E invece  i populisti (tutti)  vedono nello stato  una specie di randello da usare contro le  opposizioni per relegarle nell’angolo in nome del popolo e così  imbrigliare l’elettorato  ricorrendo alla patriarcale politica del bastone e della carota.  Siamo davanti alla classica e pericolosa confusione totalitaria  tra stato e partito.
Lo stato invece deve essere  terzo e deve avere vita propria, modesta ma vita propria,  non al servizio di questa o quella maggioranza  oppressiva.  Quindi lo stato deve occuparsi, come teorizzava Adam Smith,  di poche cose, (difesa, infrastrutture, lotta al crimine) senza invadere la sfera della libertà individuale. Ad esempio, in  Svezia, dove stato e governo da sempre sono tenuti distinti (anche durante il lungo predominio socialdemocratico), in Svezia dicevamo,   come ha mostrato Carlo Pompei su “Linea”, il governo in qualche misura non ha potuto (e anche voluto) adottare  misure restrittive contro l’epidemia  come in Italia. Risultato?   Senza  distruggere l’economia la Svezia  ha avuto più o meno il nostro stesso numero di morti.   

Per contro, populisti di sinistra e  di destra scorgono nello stato il proseguimento del governo.  L’idea di dittatura  sanitaria, idea costruttivista per eccellenza, fortemente limitatrice della libertà individuale,   in questi giorni occasionalmente  avversata  dai populisti di destra (leghisti, postfascisti e neofascisti), non è altro che il prolungamento di una specie di oppressivo  socialismo di stato, di natura welfarista, che non distingue tra stato e governo:  socialismo che a sinistra è internazionalista a destra nazionalista. 
Per uscire dall' impasse politica,  che vede il populismo statalista dominare  a destra e  sinistra l’agenda politica,  andrebbe  riscoperta   l’ idea liberale (non liberalsocialista o “liberal”, approccio  anch’esso  populista-statalista ). 
Ma dove sono i veri liberali italiani?  A noi piacerebbe, che insieme ad altri profughi della libertà, i  refrattari al welfare  dolciastro dei populisti   si raccogliessero tutti  intorno a “Linea”.  Sarebbe una buona battaglia  contro la dittatura sanitaria, in nome non di una visione altrettanto illiberale come quella dei populisti di destra, che ora protestano, per agguantare il potere, ma in nome della libertà, che è libertà anche di scegliere, paradossalmente, anche  di che morte   morire.  E per fare una scelta del genere ci vuole coraggio.  Sicché non solo si deve essere liberali, ma anche coraggiosi.  Il nostro  perciò, se non fosse ancora chiaro, è  un appello ai liberali coraggiosi. 

Carlo Gambescia        

       

lunedì 27 luglio 2020

#UscitoLINEA22


Ottimo  antidoto  contro i  bulli di destra e i   finti amici della  libertà a sinistra. Raccomandato in particolare contro le banalità  populiste.
 Scaricabile gratuitamente qui:


 Editoriali , articoli,  rubriche,  tra gli altri, di  Carlo Pompei, Roberto Pareto, Carlo Gambescia, Federico Formica. 


 Buona lettura!

domenica 26 luglio 2020

Marcello Veneziani, il nemico della  “buona destra”


Oggi sulla “Verità”, fogliaccio razzista, Veneziani sostiene che  l’idea della “buona destra” è messa in giro dalla sinistra, ogni volta che la destra potrebbe vincere le elezioni. In effetti, all’interno della dialettica tra destra e sinistra, può rilevarsi, con finalità  polemiche,   il ricorrente  tentativo di delegittimazione reciproca. Per capirsi, la destra accusa la sinistra di comunismo, la sinistra accusa la destra di fascismo, e così via.
Però, ecco il punto, Veneziani, da sempre  profondamente  legato alla cultura  del Ventennio e al filone reazionario nemico della modernità, non ha gli strumenti per comprendere la società aperta. Si potrebbe dire che neppure è colpa sua. È culturalmente fatto così.  Fin da giovane  non si è mai  posto la preoccupazione di studiare e conoscere  il pensiero liberale, se non attraverso la lente dei nemici del liberalismo.  Come del resto la maggior parte degli intellettuali che provengono dalla destra neofascista.
Pertanto, se è vero che la sinistra, soprattutto certa sinistra, ancora prigioniera del  passato di un  illusione (comunista, neocomunista, postcomunista), fenomeno ben ricostruito da Furet,  usa strumentalmente l’idea di  “buona destra”,  è altrettanto vero che una “buona destra” non può non che essere  liberale, con tutto quello che di positivo ne segue: difesa dei diritti civili (sposo chi dico io); della libertà di mercato (faccio impresa come e quando desidero);  della tolleranza verso l’altro, soprattutto se “diverso” (per razza,  preferenza sessuale, eccetera).
Chi, come Veneziani,  sia tuttora prigioniero della mitologia culturale della “tentazione fascista”,  ben studiata da Kunnas,  non può che fermarsi a metà del cammino (forse pure a meno della metà), nel senso che nell’idea di  “buona destra” egli  scorge solo  ( e in parte è vero), un marchingegno ideologico della sinistra per penalizzare la destra. Ignorando invece le potenzialità racchiuse nell'idea di società aperta.  
Come insegna Sternhell, in  molti intellettuali antimoderni,  prigionieri invece dell' illusione del passato, il duplice rifiuto, peraltro scontato,  del  marxismo  e del liberalismo  rischia di spianare la strada all’avventurismo politico e fascistoide.
Di qui la pericolosità delle tesi di Marcello Veneziani. 

Carlo Gambescia       

                      

sabato 25 luglio 2020

I carabinieri arrestati
Processi in piazza


Chi scrive non può sapere con precisione  quel che è successo a Piacenza.   Ma di una cosa  non si può non essere certi: che l’Italia ha perso la testa.  E non parliamo dei carabinieri denunciati. O comunque non solo. Ma dei processi di piazza. Anche  perché se  gli  "episodi contestati"  sono quelli riassunti nel box dell'Ansa qui accanto, si potrebbe essere dinanzi  a  un’ inchiesta destinata probabilmente a sgonfiarsi. Probabilmente, per carità...  
La stessa Arma, non più amata e neppure rispettata, pare  aver perso la tramontana. Come si legge, anch’essa sembra aver impugnato la pistola del populismo penale e buttato a mare i carabinieri piacentini.  Come scrive  l’Ansa,  con grande soddisfazione giustizialista,  l’Arma, “avrebbe  dato un segnale forte e importante, nominando all'istante un nuovo comandante di Compagnia al posto dell'ufficiale sospeso dal servizio per il suo coinvolgimento, ancora comunque da valutare, nella vicenda dei carabinieri corrotti”.
“Ancora comunque da valutare”. E intanto l’ufficiale è a casa.  Già  condannato a furor di popolo
L’impazzimento si estende pericolosamente alla magistratura, ai media, ai politici: nemmeno Salvini e Meloni, amici da sempre dei cittadini in divisa hanno aperto bocca. Il che significa due cose:  o hanno dati inoppugnabili  sulla colpevolezza dei carabinieri o hanno paura di compromettersi.   
Chi invece non perde l’ occasione per parlare, addirittura in fase istruttoria,  è Ilaria Cucchi sorella del povero Stefano. A suo avviso  si tratta  di  “un fatto enorme e gravissimo che ricorda la vicenda di mio fratello. Basta parlare di singole mele marce, i casi stanno diventando troppi. Il problema è nel sistema: mi vengono in mente i tanti carabinieri del nostro processo che vengono a testimoniare contro i loro superiori e mi chiedo con quale spirito lo facciano quando poi spuntano comunicati dell'Arma subito dopo la testimonianza come nel caso del loro collega Casamassima” (*).
 “Il problema è nel sistema”… Vedremo.


Carlo Gambescia

venerdì 24 luglio 2020

Il  Novecento, un secolo che sembra  non finire mai
Giorgia Meloni contro John Lennon



Il lettore vuole scoprire in un colpo solo l’immaginario fascista, come pare, sempre vivo? Si legga allora la dichiarazione della Meloni sul  testo di Imagine di  John Lennon.

«Milano, 22 luglio 2020 - La leader di Fratelli d'Italia Giorgia Melonidurante un intervento a In Onda - incalzata da Luca Telese e David Parenzo - ha "bocciato" uno dei brani più celebri del mondo: Imagine di John Lennon. "Non è una canzone il cui testo mi appassiona" ha chiarito la Meloni. "Dice che non ci siano le religioni, le nazioni: è l'inno dell'omologazione mondialista, io francamente sto da un'altra parte". Poi la leader di Fratelli D'Italia ha aggiunto: "Per me l'identità è un valore. Poi è una bellissima canzone, se uno non capisse l'inglese e non sentisse il testo resterebbe fantastica. Ma un mondo senza identità non è il mio prototipo, io credo nelle identità religiose, nazionali, familiari. Senza identità siamo solo ottimi consumatori per le multinazionali". »

A dire il vero,  va anche  osservato, come si legge su  Wikipedia, che
 «Il brano viene solitamente letto in chiave pacifista, ma lo stesso Lennon ammise che i contenuti del testo di Imagine la avvicinano più al Manifesto del partito comunista  che a un inno alla pace:  è infatti una società laica  in cui non trionfino i valori del materialismo, dell' utilitarismo e dell' edonismo che viene auspicata nel testo. Lennon affermò che il brano era "anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero".  Yoko Ono  disse che il messaggio di Imagine si poteva sintetizzare dicendo che "siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo"»..

Pertanto in qualche misura, il lessico della canzone, stando allo stesso John Lennon rinvia
all’ideologia antifascista. Il che spiega, per reazione l’atteggiamento fascista della Meloni, alla quale, forse per l’ incultura  tipica di  certi ambienti politici,  sfugge la natura antimaterialista e antiutilitarista de testo,  quindi addirttura in sintonia con lo spiritualismo di estrema  destra. Lo stesso anticapitalismo , cui fa riferimento Lennon, è  da sempre  largamente condiviso dai neofascisti, come certo spirito antiborghese ( “l’anticonvenzionalismo” di Lennon). Ovviamente i maggiori punti di contrasto del conflitto ideologico  Meloni-Lennon, sono nelle diverse concezioni della religione e della nazione.
In realtà, sul piano musicale, Imagine, è un bellissima ballata,  il testo, che può condiviso o meno,  non contiene alcun invito alla violenza. Per contro, quando Giorgia Meloni  parla di “omologazione mondialista”,  oltre a usare una terminologia tipicamente fascista, commette lo stesso errore dei suoi nonni ideologici  in camicia nera: quello di aprire le porte alla violenza dell’ “omologazione nazionalista e  tradizionalista”.  Che significa identità? Se non  mettere alla  porta chiunque non abbia la cittadinanza italiana? Che significa famiglia? Se non  privare di qualsiasi diritto civile  chiunque abbia preferenze sessuali “non omologate”? Che significa religione? Se non opporsi, anche con la forza, a chiunque non sia cattolico romano?
Il vero lato  grave della polemica innescata dalla Meloni, che esemplifica in due battute ciò che la destra neofascista  ha sempre pensato di Imagine,   è  nell’incapacità di uscire -  ammesso e non concesso che la canzone di Lennon sia di “sinistra” -  dallo sterile confronto tra fascismo e antifascismo, che talvolta sfiora veramente il ridicolo. La Meloni fa  il gioco dell’avversario antifascista.  Un antifascismo che però  aiuta a  capire come nella destra della Meloni, che si vuole presentare moderna e democratica, siano invece ben vivi gli stessi riflessi carnivori che innervarono il fascismo. Certo, poi però la sinistra antifascista  dovrebbe guardare nel proprio armadio di famiglia. Cosa che invece  si guarda bene dal fare.

Allora quale doveva essere la  reazione normale della Meloni alla domanda ideologica di Luca Telese e Davide Parenzo?  Una bellissima ballata, più che venata di utopismo, che si ascolta sempre con piacere. Tutto qui. 
Purtroppo, il vero veleno totalitario -  e qui il discorso rinvia anche agli antifascisti, che spesso esagerano inseguendo una logica giudiziaria -   è nella ideologizzazione di ogni espressione del pensiero: ideologizzazione che non è altro che la prosecuzione del totalitarismo con altri mezzi. 
Hobsbawm, storico marxista,  ha definito il Novecento “Secolo breve". In realtà,  si tratta di un secolo lunghissimo e armatissimo. Almeno fin quando si continuerà a  discutere  a proposito  del presunto o meno  messaggio ideologico  di Imagine.  A discutere, insomma,  di  “prototipi”,  per citare Giorgia Meloni:  cose da costruire ex novo, a ogni costo, come se la società fosse un laboratorio sociale.  Idea condivisa da fascisti, comunisti, utopisti e contro-utopisti vari.  E probabilmente  anche da John Lennon. Che però era solo un cantante. E come tale, in una società “normale”, andrebbe tuttora considerato.                    


Carlo Gambescia

giovedì 23 luglio 2020



Così ieri Conte:

«Durante la trattativa in Europa sul Recovery Fund "ho sentito la forza che mi ha dato tutta la Nazione, è stato come il tifo che ti sostiene in uno stadio". Così il premier Giuseppe Conte, conversando con alcuni cittadini fuori al Senato. Bisogna "lavorare per restituire ai cittadini la fiducia nelle istituzioni. Dipende anche da noi, dai nostri comportamenti", ha inoltre sottolineato Conte."Da soli non si fa nulla, non è questione di bacchetta magica, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, non si può pensare di mettere un uomo solo al comando e di risolvere tutti i problemi", ha detto il premier. "Tutti noi - ha aggiunto- dobbiamo essere disponibili".»

Ora, se c’è un  pericoloso  fattore totalitario nel calcio, e c’è,  è rappresentato dal tifo da stadio. Il tifoso ama la sua quadra in modo esclusivo, totalitario per l’appunto, e non ammette che lo si contraddica, spesso ricorrendo alle maniere forti.  Insomma,  mai importare   una   logica così letale in politica.
Quanto all’appello di Conte   alle responsabilità individuali si tratta di un  invito ai cittadini  a non esulare dai propri doveri. A fare bene il proprio lavoro.  Una  motivazione, ad esempio, addotta anche dal grigio  Eichmann,  che dinanzi ai giudici dichiarò, a proposito degli ebrei passati per il camino, di essersi attenuto a eseguire gli ordini ricevuti. A fare, insomma,  il proprio dovere, come imponeva a ogni buon tedesco Adolf Hitler, l’uomo allora solo al comando.

Esageriamo? La cultura  politica di Giuseppe Conte, come per tanti professori di diritto,   rimanda al positivismo giuridico:  al rispetto delle leggi vigenti (in primis la Costituzione) che per nostra fortuna, soprattutto sul piano dei diritti, conservano ancora una patina liberal-democratica. 
Ma, ecco il punto, non è possibile  parlare per Conte  di una conoscenza, diciamo vissuta e profonda, del rapporto  tra diritto e realtà  politica,  ossia della consapevolezza della pericolosa  “rispondenza”  tra  monopolio della legge e monopolio della violenza da parte delle istituzioni statali. Insomma, del fatto che lo "spessore" della patina di cui sopra sia sempre a rischio...
Siamo purtroppo davanti a un tratto naïf  della sua cultura politica.  Che resta quella dell’applicazione delle legge, a prescindere da qualsiasi  considerazioni politica e sociologica, che non sia immediata.   Detto altrimenti, la cultura politica di Conte è  da manuale di educazione  civica per i licei, qualcosa di meccanico: ognuno faccia il proprio dovere di bravo cittadino, rispettoso delle leggi è "tutto andrà bene".  Come se leggi   fossero prive di violenti  contenuti politici.     
Per Conte, ripetiamo,  un  naïf  della politica,  si potrebbe parlare  di cultura politica della scatola vuota dentro la quale  ci si può mettere ciò che più  conviene politicamente. Una scelta, in apparenza pragmatica, che può  però  avere risvolti molto pericolosi per i cittadini. Il suo è un  pragmatismo, come ogni pragmatismo (legato alla logica dell'obiettivo),  dalle inevitabili   accelerazioni autoritarie: come mostrano le fasi del   Covid e del  post Covid, nonché la stessa condivisione del potere, molto sobria, con un personaggio criptofascista come Salvini.  Ad esempio   quante volte Conte ha  ripetuto  che  era la Costituzione stessa che imponeva, per il bene dei cittadini,  le misure di segregazione prima verso i migranti, poi verso i cittadini italiani?

Concludendo, Conte è un pericoloso naïf   della politica. Ovviamente, è  dotato di una certa furbizia avvocatesca che lo aiuta a giocare con i cavilli, dando l’impressione del buon mediatore democristiano. In realtà, Conte è una mina vagante, dal momento  che la sua primitività politica lo rende permeabile a qualsiasi avventura.  Se un  accostamento, diciamo tendenziale, può essere fatto con  dittatori soft del passato, Conte, fatte le debite proporzioni, può essere avvicinato  all’austriaco Dollfuss o forse ancora meglio al portoghese  Salazar (nella foto sopra). Non è insomma riconducibile al prototipo  del leader fascista.  Anche se, mai dire mai…

Carlo Gambescia                              

mercoledì 22 luglio 2020

Storie urbane
Spengler e Federico

Nei  cosiddetti  deserti urbani, dove ci si sente  soli pur tra la folla, come  pontifica  certa vulgata piagnona da “kulturkritiker”  un tanto al chilo, talvolta invece si accendono fiammelle  che  ci   ricordano che non siamo mai soli.  Insomma, all’improvviso la vita  ci fa scoprire  piccole  oasi.  
Chi scrive, proprio ieri, a causa di un piccolo incidente automobilistico, niente di che (perché è  qui a scriverne),  ha potuto constatare quanto e come   Spengler, profeta del declino dell’Occidente,  travisasse le cose, immaginando  ovunque  deserti collettivi.  Invece, c’è sempre speranza. Di sicuro anche  altri lettori, solo se volessero, potrebbero segnalare altri  casi simili.  In questo deserto, insomma,  esistono tante oasi… Per fortuna.
Bene, tornando ai fatti,  un giovane in moto  si  è  subito  fermato, e dopo essersi informato delle nostre condizioni,  si è premurato, visto che si trattava di una strada a grande scorrimento,  di segnalare la situazione di pericolo,   Questo per più di mezz’ora,  alto e bello, in  pieno stile protezione civile, ma nel caso puramente  volontaria: un piccolo grande eroe, uscito da una canzone di Mogol e Battisti,  che si stagliava controvento, tra non poche auto che invece sfrecciavano spenglerianamente indifferenti.
Una fiammella, ma vigorosa. Diciamo  un’oasi verdeggiante,  in un deserto urbano. Che poi non è mai così deserto…    
Grazie Federico. Di cuore.

Carlo Gambescia


martedì 21 luglio 2020

Unione Europea della Spesa Pubblica
“Ammazza, ammazza, sono tutti d’una  razza”…

Chi ha vinto? Bah…  Diciamo che ha perso l’idea di un’Europa liberale.   Di  un’  Unione capace di  rinunciare al mito della spesa pubblica, difeso dai  “mediterranei” che porta con sé l’altro mito, evocato dai “frugali”, dei bilanci in  ordine.  
Sono cose di cui non si parla molto in giro. Proprio per questo desideriamo offrire  una  chiave di lettura diversa da quella che si può ritrovare  questa mattina  sfogliando  i giornali: divisi su fondi  e bilanci,  ma uniti, come moltissimi politici europei,  dalla comune condivisione della religione della spesa pubblica e del deficit controllato.  
Un punto non deve mai sfuggire:  quando si parla di bilanci in ordine, cosa in sé non sbagliata,  si ragiona sempre in termini di deficit  da gestire in base ai volumi di spesa pubblica da investire nel mitico quadro di salvifiche politiche del disavanzo ragionato: l'uno richiama inevitabilmente l'altra.
A tale proposito negli anni si è generato un gigantesco equivoco collegando erroneamente  le politiche di bilancio   al  “liberismo selvaggio”.  In realtà,  la “frugalità”, come la si  chiama ora,  non è che  il portato ideologico  delle politiche anticicliche di stampo keynesiano o postkeynesiano rivolte ad alternare in termini di stop and go,  spesa pubblica e  tagli:  sono  politiche economiche  di sinistra, altro che scelte liberali, o addirittura liberiste… Di selvaggio c’è solo la spesa pubblica,  che oltre una certa soglia inevitabilmente  implica dei rientri.  Che, rimandano perciò   non alla  visione liberale dell’economia basata sull’autoregolazione del mercato, ma a un approccio di pensante ingerenza pubblica di stampo  liberal-socialista  o  catto-socialista.  Altro che il liberalismo di  Hayek e Mises…
La riprova  di un’ Unione Europea, tuttora prigioniera del welfarismo, è   ben rappresentata  dall’idea, anch’essa condivisa (da  “frugali” come “mediterranei”) del rigorismo fiscale.  Della tassazione come inderogabile strumento di finanziamento della spesa pubblica.  Si noti un fatto:  i membri dell’UE discutono di politiche fiscali e soprattutto  della necessità di uniformare la tassazione europea.  Ma in che chiave? Il lettore se lo è mai chiesto? Semplicissimo: di potenziamento dei controlli sui cittadini, potendo giovarsi dello strumento fiscale unico,  nonché di   crescita  degli  introiti per finanziare in prospettiva  il  fiore all'occhiello di liberali di sinistra, socialisti e verdi: il   welfare europeo.    

Che  poi, Olanda e  Italia, per fare un esempio, si scontrino sulla spartizione del  bottino dei finanziamenti pubblici  non significa che non siano d’accordo, se ci si  passa l’espressione, su come spennare meglio i cittadini europei in nome della  pomposa idea  di  Europa  Sociale. 
Le  “guerre” tra Olanda e Italia, che tanto piacciono ai sovranisti,   sono guerre socialiste… Max  Weber e il protestantesimo non c’entrano nulla. Insomma, se ci si perdona la caduta di stile,  “ammazza, ammazza,  sono  tutti  d’ una razza”…
Quindi, concludendo, chi ha vinto? Nessuno. Di sicuro però  hanno perso  i contribuenti.  Un punto, quest’ultimo,  sul quale di solito  fa  leva la protesta populista e sovranista, a destra come a sinistra.  Che però, attenzione, è altrettanto keynesiana, ma  sul piano nazionale, in microscala. Insomma,   la “zuppa” , nazionalista o meno,  resta  sempre la stessa. 
Servirebbe invece un passo indietro. Quale? Uscire non dall'Europa, ma  dallo stop and go, socialistoide,  spesa pubblica-tagli,  permettendo alle imprese   europee  di tornare ad essere competitive.  Come?   Tasse minime  e  zero spesa sociale.   Altro che transizione ecologica, il nuovo cavallo di battaglia -  attenzione -   condiviso da   “frugali” e “mediterranei”.  Che tutto sono, ripetiamo,  eccetto che liberali…                               


Carlo Gambescia                    

lunedì 20 luglio 2020

Linea  numero  21



Si può leggere con o senza mascherina… Decidano  i lettori...


Però, prima va scaricato, gratuitamente, qui:


Editoriali , articoli,   rubriche e  servizi, tra gli altri, di  Carlo Pompei, Roberto Pareto, Carlo Gambescia, Federico Formica...


Buona lettura!






domenica 19 luglio 2020

A proposito della protesta delle “categorie”
Ci sono i gruppi ma non l’ individuo…



I giornali, in particolare quelli vicini all'opposizione della destra populista  informano che ristoratori, commercialisti e altre “categorie” protestano contro il governo populista di sinistra, che a  sua  volta, si appella ai buoni rapporti con i sindacati, che rappresentano altre “categorie” di lavoratori, altrettanto "rappresentative".
La prima cosa fondamentale  che  va osservata  è che  destra e sinistra  difendono  il gruppo e non l’individuo.  Per capirsi,  un commercialista,  pur protestando per l’ “intasamento delle scadenze” non metterà mai in discussione il dovere di pagare le tasse, ne andrebbe del  suo lavoro.  Un ristoratore,  che addirittura spera in un aiuto finanziario del governo, protesta per il ritardo con cui esso viene erogato, senza mettere in discussione la natura immorale dell’aiuto stesso, frutto di un voto di scambio. Un sindacalista,  infine, guarda  esclusivamente ai diritti, giusti o sbagliati che siano, dei suoi iscritti... E così via, con grandi guadagni politici per la destra come per la sinistra, che di volta in volta sposano la causa di questo o di quello.  Insomma, diritti che vengono e diritti che vanno...
Naturalmente la società è stratificata in gruppi,  l’individuo di regola per lavoro e professione non  può che rientrare in questa o quella categoria e di riflesso identificarsi in questo o quell’interesse specifico. Soprattutto nella  società di massa, dove per l'individuo la vita è complicata,  si  tende a  parlare a livello politico più  al gruppo  che all’individuo. Di qui  lo sviluppo societario, quasi obbligato,  del concetto di "categoria":  uno strumento sociale  che consente a livello sistemico (quindi a  vantaggio apparente di  tutti i gruppi) l' uniformazione  e semplificazione del  rapporto tra cittadino e potere. 
La seconda osservazione, altrettanto fondamentale, è invece legata alla constatazione che non viviamo, come molti nemici della società aperta amano ripetere, nell’ età dell’individualismo compiuto, ma in quella  del gruppo sociale realizzato. Certo, non più di tipo strettamente  corporativo, come nel vecchio mondo degli “stati generali” (nobiltà, clero, borghesia), ma di natura professionale e lavorativa.  Il che però significa che più una società è segmentata in gruppi più l’individuo, come entità politica pulsante,  tende a sparire.
In che modo scompare?   Rifiutandosi, talvolta senza neppure saperlo, di rivendicare i propri diritti (di parola, di lavoro, eccetera) in nome dei diritti del gruppo al quale  appartiene, diritti  che possono essere in conflitto con i diritti dell’individuo.  Per tornare al nostro esempio,  il vero  punto non è quando  pagare le tasse ( diritto societario di gruppo) bensì perché  pagarle (diritto naturale dell'individuo).
Ovviamente, quanto più  nella società  è debole la cultura dell’individuo  tanto più la logica  politica del privilegiare il gruppo  è forte. Ad esempio, il decantato individualismo italiano non è altro che una leggenda,  perché poggia storicamente su una cultura che scorge nello stato, non il nemico (come  nell'individualismo anglo-sassone),  ma il terreno di conquista -   più facile quando si è  membri di un gruppo -   dove insediarsi per avere la meglio sui gruppi avversari.  Il che spiega gli aggiustamenti, gli intrighi, le spartizioni tra i diversi gruppi sociali (dalla famiglia alle professioni)  e il gruppo sociale-stato. Non per nulla, le mafie hanno radici italiane.
Tutto ciò  rinvia alla dinamica sociologica, cioè  a qualcosa che rimanda a sua volta alla “storia naturale” o “normale” della società.  Tuttavia la  "naturalizzazione"  dei rapporti sociali in gruppi rischia sempre di  uscire dall'ambito della fisiologia sociale,  trasformandosi  in macigno,  soprattutto nelle società  prive di autentica cultura individualistica.  Come in Italia.

Carlo Gambescia                 

         

sabato 18 luglio 2020

Unione Europea, l’errore della mancata parlamentarizzazione
Perché si parla  solo di fondi?

Giuseppe  Conte non solo prova  di non avere alcuna cultura politica, quindi visione. Ma non riesce neppure a ragionare da avvocato civilista, capace di dare il giusto valore ai denari, soprattutto quando ricevuti in  prestito.  
Insomma, economicamente parlando, nessun  pasto è  gratis, quindi l’Italia, che tra l’altro ha sempre mostrato di sprecare i soldi pubblici non avrebbe, innanzitutto, alcun diritto morale a soldi extra. 
Cari lettori, prestereste  soldi a un parente che in  precedenza ha mostrato che con i denari ricevuti,  invece di pagare i creditori e  restituirli, si è concesso un bel  giro del mondo in ottanta giorni? Vantandosi, al ritorno, delle bellezze  ammirate a spese vostre?
Piaccia o meno, la situazione è questa. E Conte sembra non voler intendere... Tuttavia, il vero  punto è un altro. Storico. E rinvia alla mancata parlamentarizzazione delle istituzioni europee.  Nel 1979, l’Europa votò per il Parlamento: un’istituzione  vista  però all'epoca  come una specie di   ripiego.  O peggio ancora, come è avvenuto, una  cassa di risonanza dei periodici libretti dei sogni politico-sociali in chiave welfarista ed ecologista.   Il potere di veto, diciamo il potere finale su tutto,  rimase  agli stati.  Se l’Europa avesse seguito la grandissima lezione dell’Ottocento liberale, dei Guizot, dei Cavour, dei Peel, dei Gladstone, il Parlamento europeo sarebbe divenuto, come fu allora,  il fulcro di una magnifica  trasformazione politica,  certamente conflittuale,  non idolore,   ma, attenzione dentro un parlamento capace si esprimere partiti transnazionali.                                                                                                    
Ciò significa che la belva nazionalista, oggi risvegliatasi proprio in seno alle istituzione europee, sarebbe  stata addomesticata.
Di più:  il Governo europeo  - ora rappresentato da istituzioni come i due Consigli e la Commissione che ricordano come funzionamento la costituzione magnatizia polacca  -   sarebbe  invece divenuto espressione di maggioranze politiche, ovviamente, all’inizio segnate da divisioni regionali, superabili però con il tempo, come insegna l’interessante storia del parlamenti nazionali, oggi dimenticata persino dai  liberali, affascinati purtroppo da progetti centralisti o economicisti di stampo socialdemocratico o verde... 
A differenza di quel che accade  oggi intorno a noi,  avremmo avuto un  “centralismo” buono,  quello del Parlamento Europeo. Invece si scelse la strada, non tanto degli spontanei movimenti economici di mercato, ma di una  costruzione  dall’alto attraverso istituzioni giustamente  impolitiche come la Banca Centrale, che però  si sono ritrovate, loro malgrado, a svolgere un ruolo politico. E i risultati non proprio convincenti,  sono sotto gli occhi di tutti.  Attenzione,  in sé l’idea della moneta unica  resta ottima, ma doveva essere attuata, dopo la parlamentarizzazione o comunque in parallelo. Comunque sia,  la  "regola"  era ed è di cominciare prima  dalla politica, ma in chiave liberale secondo la grande tradizione europea, per  poi affrontare le questioni economiche. 

Un altro gravissimo errore è stato quello  di aprire alle nazioni dell’Est prive di solide tradizioni parlamentari e liberali. Di allargare l’Europa anzitempo ai nemici dell’idea della democrazia rappresentativa. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Oggi le prime pagine dei quotidiani italiani più importanti  si diffondono sul confronto tra  Italia e Olanda  circa il   ruolo della Commissione  in materia di fondi straordinari.  Cioè si continua  a  discutere non di politica ma di economia.  Come però?  Rispolverando, da un lato, i vecchi e pericolosi  luoghi comuni del nazionalismo, e dall’altro, evocando una solidarietà politica che avrebbe avuto senso solo nell’ambito di una Costituzione Europea  con al centro il Parlamento Europeo.  Purtroppo siamo davanti a un’idea ormai abbandonata. E cosa peggiore, lasciata andare  in nome di una democrazia diretta che ha ucciso, con i referendum confermativi, applauditi dalle belve nazionaliste, la democrazia rappresentativa.
Altra prova che la democrazia diretta non funziona  perché prigioniera dell’emotività xenofoba. I parlamenti sono le uniche sedi in cui popoli possono essere rappresentati. Anzi  vi “devono” essere rappresentati. E per il bene di tutti, a cominciare dai popoli stessi, spesso portatori  inconsapevoli  del tremendo virus della democrazia emotiva.
Siamo partiti troppo da lontano?  Diciamo pure che  discutere di bilanci e fondi  senza sapere perché si discuta solo di bilanci e fondi non aiuta a capire gli errori, in primis quello della mancata parlamentarizzazione,  di cui è costellata la storia della pseudo-unificazione europea.  E non usiamo il termine a caso.

Carlo Gambescia