La prendiamo da lontano. Esiste un filo rosso – o forse nero – che unisce tutti i “nemici del capitale”.
Si rifletta. Da un parte l’esperimento che ci ha resi liberi, sfidando quasi cinquemila anni di autoritarismo: il capitalismo. Dall’altra l’arcaica convinzione che lo stato, o comunque il potere politico, sappia meglio del mercato cosa è giusto, equo, sostenibile.
In breve: si disprezza ciò che non si capisce, o non si vuole capire, come provano Lenin, Mussolini e Georges Sorel, quest’ultimo grande estimatore dei due più grandi avventurieri anticapitalisti del XX secolo.
E qui veniamo al governo Meloni, la nuova Madonna del Manganello... Sulle banche (**).
Ma come -si dirà – non si presenta come paladino del libero mercato? Certo, ma appena le casse si svuotano scatta il più antico riflesso autoritario italiano, contro il quale Cavour, grande uomo politico, sempre lottò: il denaro – ecco la sana regola liberale – deve circolare non essere redistribuito. Qui il ruolo delle banche. Colpirle, significa aggredire i simboli del capitalismo produttivo, con il pretesto del solito “contributo di solidarietà”. Non è la prima volta. E, conoscendo la nostra storia, non sarà l’ultima.
Il “prelievo” sugli extraprofitti bancari - lo si si chiami come si vuole ma la zuppa non cambia - nasce da un’idea rozza: che il profitto privato sia moralmente sospetto, e che lo Stato abbia diritto di reclamarne una parte “in nome del popolo”.
Non solo. Siamo davanti anche alla versione aggiornata del vecchio corporativismo cattolico (alla Fanfani, alla Toniolo, alla Taparelli d’Azeglio, alla Liberatore): non si abolisce la proprietà privata, ma la si ingabbia e umilia. Si lascia il capitale lavorare, ma solo se versa l’obolo al potere politico e religioso. Manganello (dello stato) e aspersorio (della chiesa). E per inciso, ecco una delle versioni pratiche, o ricadute politiche, del “dio patria e famiglia” proclamato da Giorgia Meloni.
Dietro la retorica degli “extraprofitti” si nasconde un concetto tossico: che il profitto non sia il risultato di una scelta razionale, di un rischio o di una competenza, ma una specie di colpa da espiare.
Se i tassi BCE salgono e le banche guadagnano di più, ecco il coro: “devono restituire”.
Restituire a chi, poi? A uno stato che non produce, che spende senza misura, che considera ogni tassa un diritto divino.
Il paradosso è che un governo che si proclama patriottico e “anti-tasse” finisce per comportarsi come il peggior esecutivo socialista. Solo che lo fa con la “fiammeggiante” bandiera tricolore invece che con l’arcaica falce e martello.
È un anticapitalismo di comodo, un modo di fare consenso a costo zero, colpendo chi non può difendersi se non con un comunicato stampa.
Il liberale vero – quello che crede nella libertà di impresa, nel rischio individuale e nella responsabilità personale – non è amico delle banche, ma del loro diritto a esistere e a sbagliare.
Le banche, come ogni attore del mercato, devono essere libere di produrre denaro, credito, investimenti, secondo la domanda dei consumatori di denaro. Nega un prestito, che ad altri concede: è il capitalismo bellezza.
Per contro, quando lo Stato interviene per “riequilibrare”, in realtà deforma, distorce, crea nuove rendite e nuovi parassiti.
Per usare la classica metafora dantesca: il liberale autentico non ha padroni né compagni di strada: è nemico dei nemici di Dio, cioè dei fascisti, che amano l’ordine e l’autorità più della libertà; ed è nemico dei nemici dei nemici di Dio, cioè della sinistra anticapitalista, che in nome dell’uguaglianza sostanziale (una specie di isola che non c’è) predica la sottomissione economica. Sicché il liberale è odiato da entrambi.
Sia gli uni che gli altri condividono la stessa pulsione: l’odio per l’autonomia dell’individuo, a cominciare dal suo agire economico.
Nel loro mondo, tutto politico, la banca non deve servire il mercato, ma lo Stato; l’imprenditore non deve generare valore, ma consenso; e il profitto è tollerato solo se redistribuito secondo i criteri della “giustizia politica”
L’Italia è imbevuta di questa patologia: quando lo Stato si indebita, accusa chi produce di guadagnare troppo.
Così la colpa dei deficit non è della spesa pubblica improduttiva, ma dei “cattivi” che hanno osato prosperare. E invece di tagliare sprechi, clientele, inefficienze, si inventa un nuovo balzello. Non per riformare, ma per comprare tempo e consenso.
È la logica del parassita che morde il corpo che lo nutre, fingendo di curarlo.
Ma ogni morso riduce la capacità del sistema produttivo di generare ricchezza, e alla fine il parassita muore con l’ospite.
Cavour lo aveva capito più di un secolo e mezzo fa: la banca è la linfa del progresso, non il suo parassita. Lo Stato deve garantirne la libertà, non amministrarne i guadagni.
Nel suo Piemonte liberale, e poi nell’Italia unità, il credito doveva tramutarsi in un atto di fiducia nell’intelligenza individuale, non nello strumento di un soffocante controllo politico.
Ogni volta che il potere pubblico mette le mani sul denaro privato, tradisce lo spirito di Cavour — e ritorna, sotto nuove vesti, quel paternalismo economico che fu la culla del fascismo (***).
La verità è che questo governo non è liberale, ma paternalista.
E il paternalismo, in Italia, non è mai neutro: è la versione educata, per così dire, del fascismo economico.
Il fascismo, infatti, nacque proprio dall’idea che lo stato fosse un padre severo ma giusto, chiamato a guidare un popolo incapace di autodeterminarsi.
Oggi la Meloni ne riprende la grammatica, sostituendo al manganello la manovra di bilancio: “vi proteggo, ma obbedite”.
Dietro il “contributo di solidarietà” e il “riequilibrio” si nasconde la stessa vecchia logica del controllo: lo Stato decide chi ha guadagnato troppo, chi deve restituire, chi merita di essere salvato.
Come detto è l’eco lontana del corporativismo cattolico, quella miscela di protezione e dominio che ha sempre sedotto gli italiani, ansiosi di un’autorità che li liberi dalla responsabilità.
Ma il vero liberale non chiede protezione, chiede spazio. Non vuole padri, ma regole chiare. Non vuole favori, ma libertà.
E sa che ogni volta che lo stato si erge a “tutore morale” dell’economia, ci si mette di nuovo sulla china del paternalismo autoritario, la forma più gassosa e quindi più pericolosa di fascismo.
Il liberalismo, invece, è il contrario di ogni paternalismo politico: è fiducia nell’adulto, nel cittadino, nell’imprenditore, nel rischio.
Per questo, oggi, l’unico atto liberale possibile è difendere il diritto delle banche — sì, proprio loro, i “mostri del capitalismo” — a non essere saccheggiate da uno Stato fallito e nostalgico del potere assoluto.
Perché senza libertà economica non c’è libertà civile. E ovviamente vale anche la reciproca.
Che resta invece? Solo nuovi padri, nuove tasse e la solita vecchia vergogna italiana: quella di voler essere liberi, ma solo a patto che qualcuno ci tenga per mano.
Carlo Gambescia
(*) Cfr. J. Pirenne, Storia universale. Dalle origini alle conquiste dell’Islam, Sansoni Editore, Firenze 1972, vol. I, pp. 34-36. Pirenne, da inguaribile ottimista, vi scorge tracce di liberalismo (leggi uguali per tutti, uso dei contratti e di una quasi moneta, flussi commerciali intra e inter-mesopotamici, eccetera).
(**). Non esageriamo. E’ esistita veramente. Per una rapida informazione si legga qui: https://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_del_manganello .
(***) Si vedano C. Cavour, Scritti di economia (1835-1850) , a cura di F. Sirugo, G. Feltrinelli, Milano 1962. Per una rapida scorsa al suo pensiero economico a cura di di G. Rumi e R. Balzani, C. Cavour, I due progressi. Risorgimento politico e riscatto economico, Biblioteca del Pensiero Liberale, Atlantide, Roma 1995.






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