Dopo il No Kings Day, ben riuscito (e ne siamo felici), impazza negli ambienti liberal la teoria di una studiosa, Erica Chenoweth, che insegna a Harvard, nota non solo negli ambienti accademici per la cosiddetta “regola del 3 per cento” (*).
Secondo le sue ricerche, se una minoranza pari ad almeno il tre per cento della popolazione partecipa a un movimento non violento, quel movimento ha buone probabilità di cambiare un regime o di determinare una svolta politica.
Questo significherebbe che, se davvero alla manifestazione No Kings hanno partecipato — come sostengono gli organizzatori — circa sette milioni di persone, il traguardo del tre per cento (vale a dire poco più di undici milioni di americani) sarebbe ormai a portata di mano. E con esso, dicono, la caduta di Trump. Ma in che senso? Per via elettorale? Per logoramento politico interno? O per un improvviso risveglio democratico? Non è affatto chiaro.
A suo tempo abbiamo letto il libro di Erica Chenoweth, e non ci ha convinto, per ragioni di “campione”.
Il campo degli esempi storici, ridotti in termini quantitativi (cosa già di per sé soggetta a errori legati alla diversità delle fonti statistiche), è ristretto al Novecento e alle democrazie non mature o in via di costruzione, soprattutto in Europa orientale e nel mondo asiatico.
Apparentemente gli Stati Uniti — la democrazia con la costituzione scritta più antica e una cultura politica pattizia — potrebbero rientrare nel “campione”. Però non confideremmo troppo nella regola del 3 per cento estesa agli Stati Uniti di oggi.
Perché? A dirla tutta, si tratta di una teoria che nasce da un’interpretazione apologetica del gandhismo. Ci spieghiamo meglio: fu movimento non violento, quindi cosa verissima, ma incontrò sulla sua strada la cultura pattizia britannica, predisposta al compromesso. Mentre Trump e il suo movimento sembrano addirittura disprezzare la cultura pattizia, allontandosi in questo modo dalla sane tradizioni liberali americane.
Insomma, perché la regola del 3 per cento funzioni, bisogna essere in due. Oppure deve trattarsi, come in alcuni Stati nella transizione dal comunismo al postcomunismo, di regimi in avanzato stato di decomposizione, incapaci perfino di ricorrere all’uso delle armi per difendersi.
Nonostante ciò, un dato empirico — interessante ma ballerino — è diventato rapidamente dogma nelle ONG, nei policy paper e nelle aule universitarie: quei movimenti e ambienti odiati, piaccia o meno, dalla destra non solo trumpiana.
Ma non è tutto. Curiosando nella biografia di Chenoweth, si scopre un altro primato: nel 2023 è diventata il primo dean pubblicamente non binario di Harvard.
“Binario”, per i meno informati, significa che non si riconosce in nessuno dei due generi. Diciamo pure: un genere fluttuante. Nulla di male, anzi.
Ma qui la sociologia politica lascia spazio all’antropologia del paradosso.
Perché il punto non è l’identità personale, che va rispettata, ma la sua istituzionalizzazione. Siamo davanti al trionfo di quello che potremmo chiamare progressismo burocratico: la tendenza tipica delle società tardo-moderne — le democrazie mature di cui sopra — a trasformare ogni gesto emancipativo in procedura, ogni diversità in regolamento, ogni atto di rottura in un nuovo modulo da compilare. La ribellione con timbro in protocollo.
Forse esageriamo, ma esiste un filo rosso — sottile, ma visibile — tra la “regola del 3 per cento” e la nuova sensibilità accademica progressista che celebra la fluidità di genere come status istituzionale.
In questo senso, la “regola del 3 per cento” e carriera simbolica e teorie politiche della – pardon – di Chenoweth raccontano la stessa storia: la rivoluzione come gestione, la dissidenza come progetto finanziato, la coscienza civile come brand morale.
Tutto rientra in un ordine, persino la disobbedienza. Come dire? E vissero tutti felici e contenti. Magari fosse così, saremmo tra i primi iscritti al nuovo gruppo “Regno di Utopia”.
La verità, purtroppo, è un’altra: un liberalismo ridotto a etichetta di correttezza non spaventa nessuno, tantomeno la selvaggia destra americana (e non solo), che si nutre proprio di questa mollezza. “Dio, patria e famiglia” può sembrare — e lo è — un trinomio arcaico, ma contro il progressismo dello schiaffo sugli attenti torna a suonare virile, rassicurante, vivo. Non si dimentichi l’Homo Ludens che ha letto Nietzsche. L’uomo è più arcaico e rozzo di quel che comunemente si crede.
Ecco il paradosso politico-antropologico: più il liberalismo proceduralizza la differenza, più si svuota.Più predica la tolleranza contro i nemici del sistema liberal-democratico, meno sa difendere la libertà dagli stessi nemici.
Si affida ai codici etici, alle linee guida, alla policy dei pronomi e dei nomi, come se la giustizia potesse essere garantita da un regolamento. E come se le scelte di genere, sessuali o affettive — chiamatele come volete — non fossero un fatto privato.
Che cosa può importare al mondo delle mie scelte sentimentali? Ecco la maturità da perseguire: non per legge, ma per convinzione. Senza bolli né carte d’identità.
Un tempo il liberalismo era un atto di coraggio: l’idea che la persona contasse più del gruppo, la ragione più del dogma. Oggi è un insieme di buone maniere digitali che sconfinano regolarmente in quel dogmatismo leguleio di cui approfitta la propaganda di una destra che non si vergogna di mostrare muscoli gonfi di steroidi fascisti o comunque molto simili.
Così, mentre l’università compila moduli sull’identità fluida, la politica reale torna a parlare il linguaggio arcaico del potere: forza, appartenenza, paura. E ci si illude che Trump farà un passo indietro: lui, un uomo animato da una volontà di potenza spaventevole, e che rifiuta, ed è questo il punto fondamentale, la cultura pattizia.
In realtà, il cambiamento, nel frattempo, è già morto. Mentre i suoi becchini stanno compilando il modulo B o si baloccano con la regoletta del tre per cento.
Carlo Gambescia
(*) E. Chenoweth e M.J. Stephan, Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflict, Columbia University Press, 2011. In italiano si veda E. Chenoweth, Come risolvere i conflitti. Senza armi, senza odio e con la resistenza civile, Edizioni Sonda, 2023. In realtà Why Civil Resistance Works è un volume scritto a quattro mani. Ma, come sembra, la fama ha baciato solo una delle autrici, pardon autori, no aripardon… faccia il lettore. Qui notizie, su Maria J. Stephan: https://serenoregis.org/autore/maria-j-stephan/.



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